– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Può forse apparire una strana coincidenza ma nel corso degli ultimi decenni più cresceva in Europa e in Italia la memoria e la consapevolezza della tragedia ebraica rappresentata dalla Shoah, con il suo carico di orrori, e più si affievoliva la solidarietà trasversale verso un’altra tragedia, quella del popolo palestinese. È necessario premettere che il dovere morale di combattere con ogni mezzo l’antisemitismo riemerso oggi con sconcertante evidenza dalle ceneri della seconda guerra mondiale, non ci esime dal sostenere la causa palestinese, ben sapendo quanto sia delicato e complesso, per non dire ambiguo, il campo in cui il conflitto stesso è situato. Da una parte riconosciamo al popolo ebraico la dignità che di solito si attribuisce alle vittime di una tragedia come l’Olocausto, e quindi il diritto sacrosanto di difendersi dagli attacchi del risorto neonazismo. Dall’altra riconosciamo altresì le responsabilità dello stato e del governo israeliani nei confronti del popolo palestinese, a riprova del fatto che un conto è disputare sulla questione ebraica nella storia d’Europa e un altro è, invece, fornire una descrizione obiettiva delle dinamiche di un conflitto in cui una delle due parti, quella palestinese, si trova in totale svantaggio, ossia in una posizione di assoluta debolezza sia sul piano economico che su quello militare, al punto di far precipitare i destini del conflitto entro una prospettiva rigidamente unilaterale, la quale allontanerebbe la possibilità dell’esistenza di uno stato palestinese dopo ben 81 anni di conflittualità. La più lunga mai esistita in uno stato moderno, per un popolo senza stato e senza più terra. È innegabile che questo sia innanzitutto un conflitto di civiltà, dove un popolo a sua volta senza patria, proveniente dall’Europa Centrale e Orientale in fiamme, si confrontava con un altro, la cui religione musulmana e radice culturale agro pastorale e quindi tribale, entrava in conflitto con la natura laica e talora socialista dei primi coloni ebrei provenienti dall’Europa. Da qui proviene l’eterno senso di superiorità non solo religioso, ma culturale d’Israele verso i popoli arabi. Il fatto di considerarsi un avamposto europeo di civiltà, democrazia e tecnologia nel Medio Oriente mediterraneo, fa di questo piccolo ma potentissimo stato non solo l’artefice esclusivo del destino del suo antagonista, ma anche un modello di efficienza agli occhi dell’Occidente europeo e americano dove è la radice, il cuore pulsante dell’economia israeliana. La memoria dell’Olocausto è servita anche per passare dal ruolo di vittime di una storica ingiustizia senza pari al diritto divino di arbitri se non di padroni di un altro popolo nella terra che fu delle antiche tribù d’Israele. Eretz Israel, fu, infatti, il sogno del Sionismo, attualizzato dalla destra odierna di un Benjamin Netanyahu o di un Avigador Lieberman, nella realizzazione futura di uno stato ebraico (che giuridicamente esiste già), abitato da soli ebrei. Di fronte ad una tale prospettiva sono davvero poche le ipotesi disponibili per una soluzione pacifica del conflitto. Troppo debole, del resto, si presenta l’opposizione interna che vede una sinistra laica ormai del tutto appannata, con il mito del kibbutz ormai lontano nel tempo, nonostante la tenace preghiera dello scrittore israeliano David Grossman, che durante le ultime elezioni politiche, incitava i cittadini palestinesi d’Israele a votare come unica speranza di neutralizzare una destra che da almeno vent’anni ha monopolizzato la politica e la società israeliana. Non è bastato. È la società israeliana nel suo insieme ad avere perso quell’ordine morale che avrebbe dovuto indirizzarla verso una risoluzione equa e pacifica del conflitto con il popolo vicino, eppure infinitamente lontano, che assicurasse ai palestinesi il diritto di avere un proprio stato. Invece la storia degli ultimi decenni è segnata da una progressiva “invasione” dei Territori da parte di comunità illegali di coloni, frutto dell’ossessione demografica del governo israeliano che nella volontà di riequilibrare la percentuale di cittadini ebrei al di là del Muro rispetto a quella di palestinesi al di qua di quello stesso muro della vergogna la cui costruzione a suo tempo fu già condannata dalle Nazioni Unite, impedisce l’ipotesi, a breve termine, della formazione di un nuovo stato per i palestinesi, colpevoli, a loro volta, secondo un’interpretazione storica corrente, di avere rifiutato, per ragioni la cui spiegazione richiederebbe bel altro spazio su queste pagine, di costruire uno stato palestinese accanto a quello nascente israeliano. Se il sostegno al popolo palestinese era ancora parte di una mitologia di sinistra risalente agli anni settanta (con la triade Arafat – Fedayn – Intifada) che per l’opinione pubblica mondiale, invece, era sinonimo di terrorismo, solo di fronte all’orrore e all’indignazione suscitati dalla famigerata Operazione Piombo Fuso (2008), ossia all’assedio e al bombardamento della Striscia di Gaza voluti dal governo Netanyahu, operazione di “pulizia” etnica (termine che non deve stupire se applicato ad Israele, giacché ad usarlo con rigore storico è lo studioso israeliano Ilan Pappe nel volume La pulizia etnica della Palestina, 2008), ci fu una nuova mobilitazione internazionale. La morte di 1400 gazawi tra cui moltissimi bambini, colpiti dalle bombe al fosforo israeliane produsse una tale reazione (per ampiezza paragonabile solo a quella creata dal G8 di Genova nel 2001), da spingere una delegazione di 1400 internazionalisti di molti paesi tra cui l’Italia a mettersi in cammino verso Gaza passando dalla capitale egiziana dove tra manifestazioni di protesta e pestaggi della polizia locale, sfumerà in pochi giorni il sogno di raggiungere il popolo di Gaza cui offrire di persona la propria solidarietà. A quell’evento seguiranno le due Freedom Flotilla, partite verso Gaza e anch’esse mai arrivate a destinazione. Non si deve dimenticare che la Striscia fu in realtà evacuata di tutti i cittadini di origine ebraica (Piano di disimpegno unilaterale israeliano-2005) dall’allora premier Ariel Sharon, allo scopo di isolarla dai Territori e di chiuderla in un cul de sac controllato a vista dai droni israeliani. Inoltre, in quel periodo è da rilevare l’intensificarsi di film documentari italiani e internazionali, ma anche di narrazione, che con varie modalità espressive e di impostazione tematica, ponevano l’attenzione sui diversi aspetti del conflitto. Poi è caduto il silenzio, rotto appena dalle poche voci di dissenso, ad esempio quella di Moni Ovadia che da ebreo di origine bulgara, non arretra da una dura critica non solo all’intoccabilità d’Israele rispetto alla questione palestinese, ma anche verso coloro che impediscono la libera circolazione del dissenso verso lo stato ebraico e le sue politiche neocoloniali che qualcuno ha voluto paragonare, non a torto, al regime di apartheid sudafricano. Pena, quella di essere espulso dalla comunità ebraica di Milano.
Oggi diventa sempre più difficile esprimere il proprio dissenso verso la politica di Israele, o scegliere di essere antisionisti, il che non significa volere la distruzione dello Stato d’Israele, né tantomeno rifiuto della religione ebraica, ma critica decisiva all’egemonia dello Stato di Israele su un altro popolo senza Stato, quindi soggetto e sottomesso alla sua volontà di potenza, senza venire censurati o subire l’accusa di antisemitismo. Mentre le istituzioni democratiche, i partiti della sinistra neoliberale, e perfino l’Anpi, legittimamente glorificano le vittime della Shoah (come sta avvenendo oggi con la senatrice Liliana Segre), ignorando volutamente il peso umanitario rappresentato dalle vittime palestinesi della violenza quotidiana perpetrata dall’esercito israeliano, dal ventre molle d’Italia risorge quel sentimento di odio che credevamo sepolto tra le pieghe della storia. La proposta di legge appena annunciata in Parlamento riguardante le misure restrittive contro l’insorgere dell’antisemitismo, sostenuta da quasi tutti i partiti dell’arco costituzionale, che in linea di principio si può ritenere giusta, potrebbe, tuttavia, diventare utile strumento di criminalizzazione di movimenti impegnati nel boicottaggio non violento dei prodotti provenienti da Israele, come il “BDS” (Boykott Divestment Sanctions), co-fondato da Omar Barghouti e a cui aderiscono personaggi della musica e dello spettacolo come Roger Waters, che in Germania è già considerato fuorilegge. Nelle motivazioni addotte dal governo tedesco si legge che esso riprenderebbe il vecchio slogan nazista di “non comprare dagli ebrei”, e pertanto il suo vero scopo sarebbe quello dell’annientamento dello Stato d’Israele. E’ evidente che si tratti di una mistificazione: i nazisti, storicamente agivano allo scopo di annientare un popolo più debole, mentre il boicottaggio contemporaneo del movimento muove da un presupposto diametralmente opposto, quello di mettere in difficoltà uno stato che pratica illegalmente l’oppressione sistematica del popolo palestinese di Gaza e dei Territori Occupati. Inoltre, bisogna ricordare che nei confronti dell’Apartheid sudafricano fu attuato da molti paesi la medesima forma di boicottaggio, con lo scopo di fermare un regime che praticava la discriminazione.
Vi sono, infine, due pesi e due misure per affrontare la questione ebraico-palestinese, senza per questo dimenticare il rispetto per le vittime di due tragedie, una passata e una presente. Le vittime sono forse diventate i nuovi carnefici? Non vogliamo crederlo, tuttavia, i fatti stanno lì a dimostrare che fin dalle origini del conflitto Israele ha sempre sfruttato militarmente il profondo risentimento palestinese verso la Nachba (1948), ossia la catastrofe che costò la perdita della propria terra, annettendo di volta in volta, vittoria dopo vittoria, sempre più terre un tempo palestinesi, fino al 1967 (guerra dei Sei Giorni), data che segna per i palestinesi una nuova catastrofe. È la storia di un popolo segnato dalla perdita, ma anche dall’eroismo della perdita, che fa del martirio la sola elaborazione collettiva del lutto. L’erosione del territorio, lo sgretolarsi delle risorse idriche e di sussistenza proseguono indisturbate sino ad oggi, a Gaza e in Cisgiordania, nonostante gli indicatori internazionali dichiarino l’illegalità dei nuovi insediamenti (settlements) di coloni nei Territori Occupati e la crudeltà delle autorità governative, dei militari e degli stessi coloni decisi fino all’ultimo a riprendersi ciò che ritengono loro per diritto divino…!!
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Bibliografia consigliata
Barghouti Mustafa, Restare sulla montagna, Nottetempo, Milano 2007
Black Ian, Nemici e vicini Arabi ed ebrei in Palestina e Israele, Giulio Einaudi editore, Torino 2018
Chomsky Noam, Pappe Ilan, Palestina e Israele: che fare? Fazi editore, Roma 2015
Finzi Roberto, Breve storia della questione antisemita, Bompiani editore, Milano 2019
Pappe Ilan, Storia della Palestina moderna Una terra due popoli, Giulio Einaudi editore, Torino 2005, rist. agg. Idem2014
Pappe Ilan, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore, Roma 2008
Said W. Edward, La questione palestinese, il Saggiatore, Milano 2011
Sartre Jean Paul, L’antisemitismo, Riflessioni sulla questione ebraica, Edizioni di Comunità, Milano 1960
Filmografia consigliata
Arce Alberto, To Shoot An Elephant, 2009
Bakri Mohamed, Jenin, Jenin, 1994
Bakri Mohamed, Da quando te ne sei andato, 1996
Bitton Susan, Le mur – Il muro, 2004
Cupisti Barbara, Madri, 2007
Cupisti Barbara, Forbidden Dreams-Vietato sognare, 2008
Fantoni Minnella Maurizio, Caos totale La marcia perduta di Gaza, 2009
Fantoni Minnella Maurizio, Gaza a cielo aperto, 2011
Fantoni Minnella Maurizio, Hebron, 2011
Savona Stefano, Piombo fuso, 2009
Savona Stefano, La strada dei Samouni, 2019
come continuare a odiar gli ebrei sembrando equidistanti con esasperato blablablá. il “popolo palestinese”, balla… sinistra.