– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Ovunque si celebra con orgoglio la caduta del Muro di Berlino, la cui realizzazione fu determinata, come è noto, da due fattori essenziali, l’uno di natura demografica, relativa all’esodo verso Ovest di almeno due milioni e mezzo di tedeschi dell’Est, che ebbe inizio fin dal 1949, l’altro di carattere segnatamente politico e simbolico, figlio legittimo della Guerra Fredda, inteso a marcare dogmaticamente la differenza tra due differenti concezioni del mondo. Nello stesso tempo, con vigore si insiste nel voler affermare che con tale evento, di portata storica, e con la successiva caduta dell’impero sovietico, è avvenuta una vera e propria rivoluzione liberale. Ora, innanzitutto, fu la stessa implosione economica e l’irreversibile acquiescenza politica dell’Unione Sovietica a determinare il progressivo cambio di regime, e quindi a produrre non una rivoluzione ma la restaurazione di un sistema democratico ad economia di mercato, laddove però il sostantivo democrazia appare fin dall’inizio alquanto fluido, più spesso incline, una volta affermate le logiche del capitalismo, illusoria garanzia di benessere per tutti, a tollerare o addirittura ad accogliere forme e prassi autoritarie. Del resto la definizione di “democrazia illiberale” coniata dal premier ungherese Viktor Orban parrebbe a tutti davvero un ossimoro, ma al tempo stesso una prassi politica inevitabile negli ex paesi comunisti, tuttavia perfino possibile ad occidente, se inserita in una prospettiva populista e sovranista, così come si annuncia essere in un prossimo futuro un paese come l’Italia che, vale ricordarlo, non solo non possiede una grande e solida tradizione democratica e liberale, ma la stessa democrazia, faticosamente conquistata grazie alla lotta di Liberazione, si rivela sempre più fragile. Se ad Est, sulle rovine del comunismo, che per molte persone, nonostante gli errori e gli orrori commessi, rappresentò un’alternativa possibile al sistema capitalista, la democrazia ha perlopiù significato libero mercato, non importa se al prezzo di derive autoritarie, oligarchiche o autocratiche, in Europa occidentale, guarda caso, dagli anni ottanta in avanti, si comincia a coltivare l’idea che l’economia nel mondo globalizzato debba essere l’arbitro esclusivo della vita di un’intera società. Oggi, a crederlo, sono coloro che si definiscono liberali, convinti che questo sia il solo modo di difendere la democrazia e insieme l’economia. Un binomio che ha smesso da tempo di dare i suoi frutti, sia sul piano economico che politico, in Europa come in America Latina, come si evince dal crollo o dalla crisi delle politiche neoliberiste che avevano preteso di essere un’alternativa credibile alle politiche sociali dei precedenti governi. Anch’essi purtroppo allineati su scelte di compromesso. Oggi è diffusa, ovunque, a sinistra, l’infelice prassi di sfidare le destre liberiste sul loro stesso terreno, spesso dimenticando ciò che si è stati e ciò che si dovrebbe ancora poter essere, mentre quest’ultime si arrogano il merito di essere le sole forze politiche in grado di occuparsi degli strati più deboli della popolazione. Niente di più falso: l’ideologia della destra, sostituendo il concetto di classe a quello di popolo a colpi di demagogia ha inteso mantenere lo status quo, ossia una società divisa in classi, basata sulla diseguaglianza e insieme sul rispetto dell’ordine e delle gerarchie. Ad una società che oggi, facendosi frammentata e fluida, priva di punti di riferimento certi, chiamiamo globale, le destre rispondono con vecchie formule di ripiego verso un passato di piccole patrie, di confini ben stretti, di egoismo e discriminazione sociale, di culto della sicurezza come principio assoluto, ma neppure la sinistra, o ciò che rimane di essa, si mostra in grado di formulare una terza via, sostenibile e compatibile con i reali e non fittizi bisogni del cittadino, dell’uomo. Il fatto che in Italia, il cosiddetto salvinismo, frutto avvelenato di un paese malato e di un leghismo storico al tramonto, diventi l’opzione più probabile, quella più vicina ai governi autoritari dell’Europa dell’Est, Ungheria e Polonia in primis, dovrebbe imporre una riflessione sulla natura stessa di questo popolo, troppo spesso incline a mutare bandiera, ma ancor peggio, a eleggere ogni volta un capo carismatico che vorrebbe assoluto, sorta di padre della patria, che richiami, alternativamente intorno a sé, la ricchezza personale o l’orgoglio nazionale. Di fronte a questi due elementi, l’idea stessa di democrazia può perfino diventare un semplice preambolo. Il persistere nel mondo di altri e nuovi muri, di guerre di civiltà in nome della democrazia (la famigerata “pax americana”), ha finalmente sfatato il mito della cosiddetta “fine della storia” (lo stesso Francis Fukuyama ha riconosciuto che la sua analisi era errata!), mentre, ogni giorno, si erigono muri invisibili ma non meno insidiosi, rivolti contro la diversità, contro l’altro da sé. La maggioranza degli italiani ha scelto deliberatamente di rinchiudersi entro confini mentali e fisici approvando in toto la politica del suo nuovo demiurgo, in nome di un presunto orgoglio italiano, vecchio fantasma condiviso con le destre più reazionarie fino alle note frange neonaziste, morti viventi resuscitati dall’alchimia miserabile di un altro ventennio, quello berlusconiano. In realtà di nazifascisti è sempre stata costellata la storia della repubblica fin dal tempo della sua nascita. Complice assoluto: l’anticomunismo che è un sentimento perdurante e collettivo, trasversale ai partiti politici, colonna portante dal secondo dopoguerra in avanti, difficile da sradicare anche quando il nemico ha cessato d’esistere. In questo caso qualsiasi nuovo nemico, che si tratti dell’ambientalista, dell’immigrato, dell’intellettuale, dell’omosessuale, oppure del missionario, del giornalista, perfino di Papa Francesco, diventa un comunista!… Soggetti sociali divenuti sempre più sospetti in un clima che per taluni versi ricorda quello che in Italia e in Germania precedette l’avvento delle dittature nazista e fascista. La paura dell’altro, del migrante e dell’arabo, in quanto immigrato, in quanto musulmano muta facilmente in odio ogni qualvolta spunta all’orizzonte l’ombra di un attentato terroristico o dopo aver letto o ancor peggio, riletto le pagine della Fallaci più islamofoba di La rabbia e l’orgoglio. Ci si affanna da più parti ad affermare che l’Italia non è un paese razzista, magari senza chiedersi prima in quali forme la discriminazione tende a manifestarsi. Un tale massimalismo finirebbe, ingiustamente, per includere anche coloro (e non sono pochi) che razzisti non sono e nemmeno intolleranti verso questa o quella manifestazione di diversità. Tuttavia bisogna dire che, oggigiorno, in strati sempre più ampi della popolazione, si moltiplicano manifestazioni di intolleranza se non di razzismo nei confronti delle minoranze di colore presenti sul territorio, le più fragili e quindi soggette ad ogni sorta di discriminazione. E qui è necessario stabilire il crinale esistente tra i due sostantivi. Il primo ha radici storiche risalenti all’epoca del colonialismo con il suo carico di pregiudizi e di barbarie, mentre il secondo è riferibile all’antisemitismo originario e a quello contemporaneo. E a tale proposito è utile ricordare come quest’ultimo in forma pregiudiziale ben radicata nell’immaginario popolare, fino ad alcuni decenni fa fosse ancora fortemente presente, salvo poi venire giustamente sradicato a fronte degli orrori dell’Olocausto di cui disponiamo di ogni documentazione e drammatizzazione. Tuttavia è innegabile, dati alla mano, che vi siano in tutt’Europa rigurgiti antisemiti, espliciti atti di odio verso cittadini di origine ebraica, (il caso della senatrice Liliana Segre non è che la punta di un iceberg sempre più nero…!) L’effetto benefico della memoria trasmessa alle nuove generazioni oggi sembra venir meno proprio in concomitanza con l’affievolirsi del pensiero antifascista. Se la questione della razza si rivela, oggi, prerogativa di una minoranza (presente in Italia e in tutt’Europa, e in special modo in alcune regioni dell’ex DDR), inneggiante Adolf Hitler (in una località del varesotto si celebra perfino il suo compleanno), tuttavia da non sottovalutare proprio per il fatto che essa, nonostante le leggi esistenti, può tranquillamente presentarsi alle elezioni politiche, (fatto che certamente non indigna le masse ma solo una minoranza di cittadini consapevoli!), il nodo dell’intolleranza ci fa purtroppo dire che l’Italia è a larga maggioranza un paese intollerante, nonostante l’immeritata fama di paese di costa e dunque, di accoglienza. Essa, negli ultimi decenni, è diventata una pratica quotidiana, a giustificare la rabbia e la frustrazione delle masse rispetto alla crisi economica, all’omologazione delle classi sociali verso il basso, al rafforzarsi di un’élite economico finanziaria, ma anche politica artefice del divario sempre più grande spalancatosi tra sé e tutti gli altri… È altresì facile per un qualsiasi cittadino discriminare, avanzando pretese di esclusione nei confronti di un immigrato clandestino, ma non lo è altrettanto nei confronti di un migrante che ha ottenuto il permesso di soggiorno, il lavoro e magari anche la cittadinanza del paese d’accoglienza. E invece, molto spesso questo accade proprio laddove si viene a toccare la presunta dignità del confronto tra quanto ha realizzato un italiano in una intera vita, rispetto a ciò che un migrante ha ottenuto, da straniero, nel breve o nel lungo tempo della sua permanenza, lavoro compreso. Si dirà, forse, che questo è umano, ma certamente si tratta di un meccanismo mentale che non aiuta né invita alla comprensione dell’altro. Un popolo senza più ideologia che si oppone alle élites economiche (nell’astrazione) e nello stesso tempo ai “migranti invasori” (nel concreto), rincorrendo fantasmi e scegliendo un’ideologia sovranista e reazionaria per antonomasia (a riprova del fatto che, più che morte delle ideologie, siamo di fronte all’agonia di una sola ideologia, quella marxista-leninista), forse non ha compreso che il vero nodo sta nell’uguaglianza e nella giustizia sociale e al tempo stesso in un nuovo umanesimo, impossibile da realizzare senza una nuova e capovolta visione del vivere umano. Smettiamola, infine, di sostenere che le masse hanno sempre ragione, specialmente nelle fasi elettorali, attribuendo tutte le colpe alla politica, perché così facendo, se ne dichiara apertamente l’irresponsabilità. Ce lo impone comunque la Storia con la esse maiuscola, quella che ha visto i totalitarismi salire al potere con il beneplacito dell’onnipotente e onnipresente Capitale e dei suoi alleati di sempre.