La banalità del male

– di EDOARDO CRISAFULLI –

Esilio – La passione secondo Lucano, regia di Maurizio Fantoni Minnella, lo consiglierei anche ai più acerrimi avversari del “modello Riace”. Sono certo che ce n’è qualcuno disposto a cambiar idea. Il film o documentario non suscita forti emozioni immediate – il messaggio sulla sostenibilità di una società aperta e multietnica ti giunge quasi ovattato. Saggia decisione, visti i tempi che ci tocca vivere: la demonizzazione manichea fra il Bene e il Male è assordante, e ondeggia come un mare agitato la massa degli odiatori seriali. È ai fomentatori dell’odio e della rabbia cieca, ai leader populisti maestri nell’arte della manipolazione che il film risulterà indigesto: chi si aspetta una difesa di Mimmo Lucano strenua e dai toni epici, condita da polemiche al vetriolo, rimarrà deluso. Meglio così: i populisti xenofobi amano le zuffe mediatiche, l’arena amplifica le gesta di questi gladiatori di cartapesta.

L’assenza di retorica, l’atmosfera intimista sono accorti mezzi narrativi che predispongono l’animo all’ascolto di quella che è una fenomenologia della figura dell’ex sindaco di Riace, il quale appare denudato – a tratti congelato nella solitudine – di fronte alla cinepresa. Si avverte una fragilità inaspettata che è tutt’uno con l’umanità di un politico o amministratore locale fuori dagli schemi. Non una parola astiosa, non un briciolo di desiderio revanscista contro una delle peggior destre degli ultimi cinquant’anni. Chi si racconta è un uomo normale, sia pure visionario e coraggioso. Come ci aspettiamo una grandezza luciferina da chi commette crimini feroci, così cerchiamo lo sguardo del santo da chi agisce altruisticamente. E invece non abbiamo bisogno di eroi, bensì di semplici militanti per la causa dell’integrazione, del dialogo, dell’accoglienza. Sì, anche tu, semplice spettatore, puoi fare qualcosa. Questo è un modo brillante di riaffermare la politicità del cinema senza piegarsi a una logica propagandistica.

Attenzione, però: Mimmo Lucano è tutt’altro che uno sprovveduto. Non si atteggia a teorico, tuttavia parla il linguaggio della sinistra marxista del Novecento. Sembra quasi fuori tempo. Ma non è lui che dovrebbe aggiornarsi, allineandosi al nuovismo senza tradizione che va per la maggiore. È semmai il tempo che dovrebbe fare un salto all’indietro, per resuscitare le migliori culture (ed energie) politiche avvolte dall’amnesia collettiva. L’uomo è anche concreto: vagheggia un’umanità “diversa”, muovendo dalla sua terra, un lembo d’Italia abbandonato, in crisi. Eccolo lì il laboratorio politico-sociale in cui sperimentare formule che combattano l’ingiustizia e la povertà, virus sempre mutanti. Chi si fa cullare dall’utopia della società ideale pensa in grande; e invece la banalità del bene può dispiegarsi in un piccolo – e incantevole – comune calabrese divenuto famoso per il ritrovamento, nel 1972, dei “Bronzi di Riace”. La macchina da presa ogni tanto abbandona il sindaco dialogante per soffermarsi sui volti di gente comune del luogo, ne cattura parole e gesti: anziani, lavoratori. Stanno con Mimmo, non odiano lo straniero, il barbaro invasore.

La voce del sindaco si alterna a immagini colorate, scorci della campagna, i murales, i fiori. L’integrazione è termine roboante, suscita dibattiti sui massimi sistemi. Qui la cogliamo nella sua banale quotidianità: un bambino italiano che, assieme a un coetaneo afgano, costruiscono aquiloni. Oppure un medico qualunque, potrebbe essere il nostro di famiglia, che fa il volontario: a Riace c’è una sorta di pronto soccorso gratuito, aperto a italiani e stranieri. Piano piano fuoriescono dalla penombra personaggi che, senza clamore e senza pose, sostengono il modello Riace con il loro lavoro tenace e paziente. Non c’è solo il carrierismo senza scrupoli, non c’è solo la moda di urlare a squarciagola sui social media. C’è chi, in silenzio, partecipa a una grande comunità nazionale: quella del volontariato, laico o religioso non importa.

               La cognizione del dolore è il primo passo verso un’empatia che assume valenza politica: gli immigranti, i rifugiati sono “persone” in fuga da qualcosa di spaventoso. Banale ricordarlo? Quante volte la destra illiberale e xenofoba (sì, esiste anche una destra liberale!) ha tentato di disumanizzare gli esseri umani che si avventurano in mare in cerca di una sorte non più avversa – le donne hanno le unghie laccate, gli uomini sono palestrati e ben in carne…. Non esiste un altro punto di partenza che questo: abbiamo a che fare con uomini, donne e bambini. Detto ciò, l’umanitarismo spontaneo, quasi prepolitico, si innesta in una visione ideologica a tutto tondo. Poche parole pacate tagliano come il rasoio: colpevole non è chi fugge o cerca fortuna bensì il neoliberismo imperante, l’ideologia-sistema che assolutizza il Mercato globale, nuovo feticcio al servizio del Dio Denaro; siamo in balia di un capitalismo finanziario sfrenato e ipertrofico; orge speculative incoraggiano un consumismo bulimico. Un sistema, questo, che se ne infischia dei limiti e delle sensibilità umane, figuriamoci se si cura dei danni sociali e ambientali che arreca con le sue smanie di dominio e la sua insaziabile voracità. Sia sempre benedetta la libertà d’impresa. Ma l’azienda sana, quella di Adriano Olivetti per intenderci, è ben altra cosa: ha ben chiare le sue responsabilità sociali. La causa dei nostri mali non è forse l’aver accettato il profitto come fine a sé stesso, legge suprema dell’agire umano? Vengono in mente le parole antidoto all’ingordigia di successo e soldi: comunità, solidarietà, accoglienza, uguaglianza, socialità del lavoro, dignità del lavoro. Tutto ciò che la destra leghista e postfascista dice di voler santificare, ma che in realtà distrugge con il suo rifiuto dell’altro, del diverso. Perché un fatto è ovvio: il demone non possiamo batterlo da soli, italiani o tedeschi o eschimesi siamo tutti nella stessa barca. Il sovranismo, riedizione del buon vecchio nazionalismo, è illusorio. Dove ci ha portati ben lo sappiamo. Il sogno della destra nazionalista è sempre stato quello di rinsaldare i ranghi dei nativi contro gli stranieri, salvo poi frantumare il fronte autoctono lungo faglie prevedibili: il censo, la religione, l’etnia, la provenienza geografica. Gad Lerner a una recente festa leghista è stato accolto così da alcuni militanti: “tu sei ebreo, non sei italiano”. Marx ha descritto bene la strategia reazionaria della classe possidente britannica: rinfocolare antichi pregiudizi anticattolici al fine di dividere la classe operaia. Nell’Ottocento erano i cattolici irlandesi che, emigrando in Inghilterra, portavano via il lavoro agli operai protestanti. Prima gli inglesi, prima i protestanti. Vi ricorda qualcosa?

Efficace, l’ironia di Mimmo sul patriottismo di chi “difende i confini”. Non sarebbe più bello un mondo senza confini tracciati arbitrariamente? Porti chiusi o addirittura blocchi navali: porta sbattuta in faccia a chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla disperazione. Barrichiamoci nella fortezza Europa! Ma come, le merci possono circolare liberamente in tutto il mondo e gli esseri umani no? I capitali fluiscono ovunque come torrenti in piena, ma chi emigra è un peso morto che deve rimanere inchiodato dov’è nato? Le armi vengono vendute liberamente a chi non è in grado di produrle da sé, così guerre devastanti producono milioni di rifugiati. E noi, ‘democratici occidentali’, voltiamo il capo dall’altra parte. I profitti della vendita delle armi, sì, gli effetti collaterali, quelli no, non sia mai. In Africa andiamo a prenderci le loro risorse, per carità il colonialismo è finito: gliele paghiamo in dollari o in euro sonanti! Dove finiscono i soldi non è affar nostro. Eppure sappiamo che spesso rimpinguiamo le cricche e i potentati locali che acquisteranno i nostri prodotti. Nello scambio materie prime e prodotti ad alta tecnologia non rientra il fattore persona umana: l’africano a casa nostra non lo vogliamo.

Il modello Riace, pur con le imperfezioni di ogni creazione umana, funzionava. E quindi era imperativo demolirlo: dava troppo scandalo, suggeriva una via d’uscita dal tunnel dell’odio e della rivalsa a un’Italia che ancora si lecca le ferite procurate dalla peggior recessione dal dopoguerra – una recessione causata dagli speculatori non già dai “negri”. Un’Italia che guardandosi allo specchio non ha più visto l’immagine, fiera di sé, di un popolo di “brava gente” e che quindi è in una bizzarra crisi d’identità: siamo razzisti anche noi o abbiamo solo paura? Di qui l’accanimento contro un esperimento di integrazione sbocciato in un’area deprivata, ma ricca di potenzialità, del nostro stupendo Mezzogiorno. Stiamo subendo una campagna martellante di uno squallore indicibile, l’obiettivo è screditare chiunque aiuti il prossimo, chiunque creda nella solidarietà e la pratichi. Si imbastisce da anni un gigantesco, e sommario, processo alle intenzioni: le ONG lo fanno per soldi, e poi aiutando i fuggitivi, i migranti, i rifugiati sono di fatto complici degli scafisti. Chissà quali sono le dimensioni del business dell’immigrazione e, quindi, dell’accoglienza. Eccola, la parola monstre dei nostri tempi: business. Nessuno agisce in nome di ideali, tutti ci lucrano sopra – inclusa la Chiesa cattolica, incusi i volontari della Comunità di Sant’Egidio. Da che pulpito viene questa predica ben lo sappiamo: come se la destra leghista e postfascista non lucrassero, eccome, sulle paure degli italiani…

Non intendo cantare una serenata alle anime belle: la politica non è un gioco per ragazzi. La sinistra di governo deve conciliare, pragmaticamente, le ragioni degli italiani con quelle degli “stranieri”. Ormai dire che l’immigrazione va regolata e gestita in maniera adeguata è un luogo comune. È doloroso dover stabilire priorità nell’assistenza sociale, ma la politica proprio a questo serve. Non mi addentrerò in quel ginepraio che è la tensione fra pragmatismo e idealismo (quanti ‘compagni’ reputano Minniti un destrorso?). Mi limito a concludere il mio ragionamento: il modello Riace, mondato dai difetti e dalle ingenuità tipiche degli esperimenti, può essere rivitalizzato e riproposto anche altrove. Può funzionare proprio perché capace di generare quel business che i moralisti ipocriti condannano. Un business solidale e comunitario, però. Gli immigrati e i rifugiati potrebbero davvero diventare una risorsa per i territori italiani in difficoltà, desertificati dalla crisi e dall’emigrazione al contrario, quella dei giovani italiani verso l’Europa del Nord. Vedo (o sogno?) antichi borghi diroccati ripopolarsi e riprendere vita. Penso alla rinascita dell’artigianato, penso ai vecchi mestieri che i giovani laureati italiani, con le loro legittime aspettative, snobbano. Mestieri che hanno ancora ragion d’essere. Grazie Maurizio Fantoni Minnella per questo film che ci fa riflettere, e soprattutto ci infonde fiducia nell’umanità. Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno in questo momento.

8 novembre, 20.45, Cinema Nuovo Aquila, via Aquila. Proiezione del corto “Muro contro Muro” di Maurizio Fantoni Minnella seguito dal doc “Esilio. La Passione secondo Lucano”. Il regista sarà presente.

 

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