– di ANTONIO MAGLIE –
Non è punibile “ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Dopo aver atteso per undici mesi un segnale da forze politiche impegnate in una perenne campagna elettorale con l’esibizione di crocifissi e altri simboli religiosi, nella distribuzione di “feti di plastica”, nel dibattito su incongrue e irragionevoli riforme dell’affido dei minori ai genitori separati o, ancora, nella partecipazione a congressi di vere e proprie internazionali dell’oscurantismo culturale, la Consulta ha esercitato quella funzione di supplenza che spesso le varie corti hanno svolto dal dopoguerra ad oggi colmando il vuoto lasciato dalla gattopardesca timidezza dei leader preoccupati più di non smarrire qualche “pecorella votante” piuttosto che fornire risposte ai problemi che la quotidianità, anche sotto la spinta della modernità, pone alle persone. Una supplenza, come si legge nel comunicato, “resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili”.
La questione è quella annosa del “fine vita”, avvertito oggi molto di più che nel passato per diverse ragioni. La prima di solare evidenza: l’invecchiamento della popolazione di questa penisola così come ufficializzato dall’Istat nei suoi periodici report; come è noto, il Paese sta perdendo residenti e anche nel 2018 abbiamo avuto più morti che nati. L’attesa di vita alla nascita che sei decenni fa non superava i settant’anni, oggi va abbondantemente oltre gli ottanta. Dal punto di vista demografico, siamo passati da una società pre-moderna caratterizzata da un alto tasso di natalità e da esistenze di lunghezza contenute, a una società moderna in cui alla longevità fa da contrappunto lo svuotamento delle culle. Siamo nel pieno di quella che viene definita transizione demografica e che probabilmente nel giro dei prossimi trentuno anni farà scendere la popolazione italiana a cinquantacinque milioni dagli attuali sessanta.
Ma la modernità, e questo è l’altro aspetto della questione, è legata al processo scientifico. Viviamo di più perché abbiamo una migliore educazione alimentare, perché abbiamo corretto gli stili di vita, perché i vaccini (a dispetto degli anti-vax) hanno cancellato malattie terribili come il vaiolo, perché gli antibiotici hanno rivoluzionato la nostra esistenza (l’influenza “spagnola” esplosa verso la fine della prima guerra mondiale fece cinque milioni di morti e condizionò in qualche maniera l’esito del conflitto colpendo duramente nelle trincee tedesche), perché le tecniche chirurgiche sono così evolute che interventi come un trapianto di reni oggi durano meno della metà di quanto durassero ancora trent’anni fa. Tutto questo, al di là di quel che possono sostenere i vari Pillon, Gandolfini e Binetti con la “creazione” non ha nulla a che vedere. Sessant’anni fa nessuno avrebbe potuto organizzare quelle indegne e crudeli carnevalate che andarono in onda all’ingresso della clinica friulana in cui si consumava l’ultimo atto della tragedia di Eluana Englaro e della sua famiglia. Non avrebbero potuto perché non ci sarebbero stati quei “trattamenti di sostegno” (quella roba che volgarmente chiamiamo macchine e che vengono alimentate con una “spina” il cui distacco dipende solo da una consapevolezza, come dice la Consulta, “autonomamente e liberamente formatasi” prima del tragico evento e dichiarata con chiarezza e secondo procedure ufficiali, cioè burocratizzate) che possono proiettare oggi verso una ipotesi di immortalità, seppur in stato vegetativo irreversibile, quindi ben oltre le colonne d’Ercole di un vivere realmente cosciente e felice.
La Corte Costituzionale è stata chiamata a decidere dalla vicenda del Dj Fabo. Fabio Antoniani ha liberamente deciso di porre termine a una sofferenza personale totalmente priva di prospettive: a una dolorosa e immodificabile condizione, ha preferito la “dolce morte” in una clinica svizzera. Una scelta che chiama in causa principi “alti”, che si innesta su diritti fondamentali: quelli sanciti dall’articolo 3 della nostra Costituzione rappresentando l’essenza di una uguaglianza che ha mille sfaccettature. Principi che hanno una origine storica e filosofica essendo legati direttamente all’età dei Lumi e alla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, prodotta dalla rivoluzione francese (“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”) e ribaditi nell’altra dichiarazione più recentemente approvata (10 dicembre 1948) dall’assemblea generale dell’Onu: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Esattamente lo spirito che non sembra animare il commento di Paola Binetti: “Questa è la follia dell’autodeterminazione”. O da quello di Massimo Gandolfini, l’animatore dei family day oltre che sostenitore di quella riforma della legge sul divorzio che porta la firma del parlamentare leghista Pillon e che dal punto di vista dell’affido avrebbe trasformato in figli in materiale umano da spartire a tozzetti: “È la legittimazione del suicidio assistito”, ha tuonato.
La Corte Costituzionale non ha deciso su un caso ma su un modo di intendere la democrazia. Certo c’è chi, come Mario Tronti, ex capo-scuola dell’operaismo, si lamenta dello spazio eccessivo attribuito dalla cultura di sinistra ai diritti. Tronti parla di rivincita dello spirito del Partito d’Azione dimenticando che forse se alla Costituente non ci fosse stata la conversione a “u” di Palmiro Togliatti sull’articolo 7, probabilmente ci saremmo risparmiati un po’ dei guai derivati da quella impropria scelta giuridica, come la definì Pietro Calamandrei, che consentì la costituzionalizzazione di un trattato internazionale (il Concordato) creando così una sotterranea contraddizione proprio sul fronte del principio di uguaglianza essendo, in virtù di quella norma, tutti uguali dal punto di vista della religione ma qualcuno un po’ più uguale degli altri. Per l’ex leader operaista “i diritti delle persone, i diritti civili, sono una cosa seria e guai se una sinistra moderna non se ne facesse carico” ma “a livello di popolo si è percepito che quella fosse l’unica identità delle sinistre”. Lui si riferisce evidentemente al governo Renzi e all’enfasi posta sulle “unioni civili” (non a caso la critica è contenuta nel suo ultimo libro, “il popolo perduto”).
Non ha tutti i torti. Ma ciò non toglie che queste siano, comunque, battaglie da combattere e fa un po’ specie il fatto che nel corso degli undici mesi concessi dalla Consulta al legislatore nessuna voce si sia alzata dai banchi del Pd per segnalare la grave omissione che si stava consumando tra i banchi di Montecitorio e Palazzo Madama. Ora sono tutti con le spalle al muro perché nella sua sentenza (le cui motivazioni conosceremo solo fra qualche tempo), è contenuto un pressante e motivato invito: “In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”.
Marco Cappato aveva accompagnato Fabio Antoniani in Svizzera e per questo gli era stata contestata la violazione dell’articolo 580 del codice penale (“Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”); a questo punto non corre più alcun rischio pertanto il suo commento (“oggi siamo più liberi”) per quanto non particolarmente elegante considerato il contesto, appare giustificato. Ma siamo convinti che non analogamente soddisfatti siano i parlamentari che ora dovranno risolversi a maneggiare una patata bollente che avrebbero volentieri lasciato a lessare in pentola sul fuoco (come hanno fatto negli ultimi undici mesi). Perché, al di là di qualche commento che valuta la storia del nostro Paese solo partendo dall’epilogo delle vicende tralasciando i percorsi da cui quell’epilogo è scaturito, è evidente che quando entrano in conflitto morale laica (quella dello Stato Italiano) e morale religiosa (quella della Città del Vaticano e delle sue dépendances peninsulari) i movimenti dei politici diventano più impacciati. Sostenere che oggi non c’è più la Dc non ha senso: i democristiani a volte erano più laici di molti attuali “atei devoti”. Fanfani al referendum sul divorzio venne trascinato obtorto collo. E la gestazione di quell’appuntamento fu lunga e complessa con mercanteggiamenti sui tempi di approvazione della legge che avrebbe dovuto dare attuazione alla Costituzione rendendo utilizzabile quello strumento di democrazia diretta. Il temporeggiamento non era per nulla sgradito a Enrico Berlinguer che essendo convinto della sconfitta, avrebbe voluto concludere un accordo con la Dc e il mondo clericale per evitare il redde rationem nelle urne. La stessa legge sul divorzio non nacque dalla sera alla mattina visto che i primi tentativi per introdurla nel nostro Paese furono avviati alla fine degli anni Cinquanta da Giuliana Nenni. Né meno dolorosa fu la gestazione del provvedimento sull’interruzione volontaria della gravidanza che fu una delle grandi conquiste del movimento femminista. Il guaio è che il Parlamento italiano in questi casi ha quasi sempre fatto la parte delle tre scimmiette evitando di sentire, di vedere e di parlare: e pensare che in Europa siamo stati tra i primi a cancellare il reato di omofobia con il codice Zanardelli (gli inglesi ci sono arrivati quasi un secolo dopo, in concomitanza con l’esplosione della minigonna di Mary Quant). Le Corti, più a contatto con i problemi delle persone, hanno provveduto a colmare le lacune abolendo il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, il reato penale di adulterio. Senza la spinta dei grandi movimenti non avremmo avuto il diritto di famiglia del 1975 e l’abolizione dell’articolo 144 del codice civile che stabiliva che “il marito è il capo di famiglia” obbligando contemporaneamente la moglie a seguirlo nei vari cambi di residenza.
Ora la Corte Costituzionale richiama il Parlamento al suo principale dovere: quello di costruire o ritinteggiare le pareti di uno stato laico in cui, come dice Luigi Ferrajoli, “solo le condotte che cagionano danni a terzi possono essere proibite e punite dal diritto, in forza del ruolo che al diritto compete, secondo la celebre massima kantiana, di garantire la convivenza della libertà di ciascuno con la libertà degli altri” (“Manifesto per l’uguaglianza”, Laterza). E, come afferma il giurista “per un’etica laica è non solo giuridicamente illegittima, ma anche immorale perché lesiva dell’autodeterminazione (proprio quella contro cui punta il dito la Binetti, n.d.r.) e della dignità delle persone la pretesa […] che un malato terminale venga tenuto in vita legato a una macchina in stato di incoscienza, o peggio nelle atroci angosce da cui sarebbe afflitto nei momenti di lucidità, e non gli sia consentito di morire di morte naturale. Il rispetto dovuto all’etica cattolica e a quanti la professano non impedisce di vedere nell’imposizione giuridica di tali pretese […] una discriminazione delle convinzioni morali dei non credenti dettata dalla difesa di un residuo potere temporale”.