Raphael Ebgi e il suo Umanesimo oscuro

 

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

 

La scrittura di Raphael Ebgi, brioso e promettente studioso dell’Umanesimo e storico della filosofia moderna, ha il raro pregio di procedere al trotto, a un ritmo incalzante, scorrevole, che non inciampa in accademismi, che non ricorre a terminologie tecniche che rendono la lettura noiosa e narcotica. Esempio di questo stile è Voluptas. La filosofia del piacere del giovane Marsilio Ficino (1457-1469): libro che dipinge del grande sapiente, del sommo erudito e traduttore, un ritratto verrebbe da dire eretico. Ebgi mostra di Ficino quegli aspetti finora ignorati, ritenuti marginali, quasi ininfluenti se non estranei al suo pensiero degli anni della maturità. La realtà, scorrendo le pagine di quest’agile volume, si scoprirà essere ben diversa.

Tutto un vento nuovo soffia sull’Umanesimo nell’ottica di Ebgi. Un vento che non solo contribuisce a mutare l’immagine statica che si ha di questo periodo, ma che contribuisce a spiegare e a meglio definire figure quali Campanella, Bruno, Machiavelli per giungere fino a Leopardi. Di cosa si sta parlando?

Ne abbiamo discorso con Raphael Ebgi.

Come è iniziato il tuo interesse per l’Umanesimo?

Tutto è iniziato studiando Platone e, conseguentemente, la tradizione platonica. Soprattutto quest’ultima, insieme alla mistica ebraica – le mie due passioni –, mi hanno portato ad incontrare l’Umanesimo.

È un rapporto – ebraismo e platonismo – che è presente nell’antologia di Pico che hai curato.

Assolutamente sì. Pico è colui che tematizza la relazione che intercorre tra la filosofia ebraica e quella platonica. Ne mostra le similarità e gli aspetti eterodossi. Marsilio Ficino costituisce il controcanto di Pico. Ritenuto da tutti un grande e raffinato traduttore, studiandolo più a fondo ho scoperto nei suoi scritti giovanili una passione per un canone filosofico tutt’altro che ortodosso e canonico come suol credersi.

Questa è una particolarità che è sfuggita a molti studiosi, fra cui Eugenio Garin.

Sì è vero. Anche Garin non si soffermò su questi aspetti. Ficino è una figura che tanti hanno sempre considerato in questo modo: come di colui che scoprì il platonismo. E lì si sono fermati. Però, andando a curiosare in quegli angoli dove pochi hanno messo il naso, si viene a scoprire un mondo, che si può definire inquieto secondo l’ultimo libro di Massimo Cacciari, e che per troppo tempo è stato lasciato in disparte. È questo che mi interessa riportare alla luce.

Il discorso che fai per Ficino, così come per Pico, si può estendere a tutto l’Umanesimo?

Direi di sì. L’Umanesimo, in modo un po’ troppo semplicistico, è stata considerato solo come un’epoca di conciliazione. Se ciò fosse vero, allora come spiegare quegli aspetti eterodossi propri di Pico e Ficino? Per farlo, occorre cambiare prospettiva, idea su tutto il periodo umanistico, non solo su alcune sue particolarità.

Non a caso Leonardo Sciascia, pensando a Mitridate – maestro di Pico – parla del volto ferino dell’Umanesimo.

Sciascia pensava, soprattutto, alla biografia di Mitridate. Tuttavia anche quest’uomo affascinante e misterioso, per le ragioni che sappiamo e che sono legate alle sue vicende personali, da molti erroneamente ritenuto solo un traduttore, ha invece un lato oscuro come filosofo. Anche lui, così come Ficino, Pico, Machiavelli, Bruno e via discorrendo. Torna quel discorso sull’eterodossia che facevo poc’anzi. Direi che questo aspetto è la cifra caratteristica di tutto l’Umanesimo.

Venendo a Ficino e al tuo libro, Voluptas. La filosofia del piacere nel giovane Marsilio Ficino (1457-1469), in che modo questo pensatore, questo sapiente legò conoscenza razionale con sapere derivante dai sensi?

Partiamo, intanto, dal presupposto che il tema del piacere interessa molto Ficino. La filosofia moderna, sintetizzando al massimo, poggia su due basi: la conoscenza intellettuale e la conoscenza sensibile. Questi due aspetti del sapere sono l’uno separato dall’altro. Dirò di più: la sfera del sensibile e il piacere che le è proprio cui accennavo poc’anzi, oscurano la visione chiara e limpida che proviene dall’intelletto. La dimensione sensibile, e la dimensione del piacere a essa connessa, sono perciò spesso viste con sospetto. Per Ficino, viceversa, le due sfere non sono nettamente distinte come si vuol far credere. Al contrario, sono l’una lo specchio dell’altra. E lo dimostra il fatto che quando il pensiero non è nella sua giusta dimensione, non è condotto in modo retto, si prova un dispiacere anche di natura sensibile. Se, al contrario, si pensa in modo giusto, si percepisce voluptas. È come se il piacere fosse il destino naturale del lavoro intellettuale. La filosofia del giovane Ficino, come spiego nel libro, costituisce il superamento di questo falso dualismo fra sfera razionale e sfera sensibile.

Questo superamento della divisione fra le due sfere del conoscere potrebbe derivare anche da eventuali imprestiti o influenze da filosofie orientali?

Non credo. Ficino mutua la sua concezione sulla voluptas dalla rilettura che fa di Lucrezio, Epicuro e Platone. Questa attenzione alla sfera del piacere è molto presente nella nostra filosofia. Direi che ne costituisce un tratto essenziale.

Quali sono i tuoi progetti futuri di ricerca?

Adesso mi sto occupando di realizzare un’antologia di testi di Ficino, proprio per dimostrare i suoi aspetti eterodossi così da offrire, di questo filosofo, una visione complessiva e non più parziale.

pierlu83

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