Lavoro, partecipazione, rappresentatività: Odissea verso l’in-differenza

– di MARCO BIAGIOTTI –

 

L’antefatto. Il 25 giugno scorso la Commissione Affari Costituzionali del Senato ha approvato il disegno di legge costituzionale Calderoli per la soppressione del CNEL. Hanno votato compatti a favore sia i senatori appartenenti ai gruppi politici della maggioranza, che quelli dei gruppi di opposizione. Tutti insieme, quei gruppi politici rappresentano non meno di 20 milioni di elettori. Due giorni dopo, le principali organizzazioni dei sindacati e degli imprenditori hanno affermato, in un documento congiunto, che la decisione della Commissione restringe gli spazi di democrazia nel nostro Paese. Firmato: CGIL, CISL, UIL, Confindustria, CIA, Confagricoltura, Confartigianato, CNA, Casartigiani, Confcommercio, Confesercenti, Confetra, Confitarma, ACLI, ARCI, MCL e Compagnia delle Opere. Vale a dire, associazioni che nel complesso rappresentano le istanze di quasi 10 milioni di lavoratori e di circa 3,5 milioni di imprese grandi medie e piccole. Un contrasto così flagrante non passa inosservato. E ai comuni mortali, come noi, sorge spontaneo domandarsi se nel 2019 la politica conservi qualche barlume di collegamento con il mondo al di fuori delle aule parlamentari e viceversa. Politica e società civile sono monadi che si muovono per aggregazioni sempre più vaste, dentro le quali le appartenenze sembrano progressivamente svanire. Ma le monadi si parlano tra loro, qualche volta? E se si parlano, absit iniuria verbis, di che accidenti parlano?  

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C’è una nave ferma all’ingresso del porto della democrazia sociale ed economica del nostro Paese, che da anni chiede inutilmente di entrare. Non appartiene a misteriose organizzazioni internazionali di volontari che sfidano le autocrazie sovraniste, non trasporta testimoni di guerre remote che nessuno vuole sulla coscienza, ma il suo carico è ugualmente scomodo. Talmente scomodo, che l’intero blocco politico nazionale, unanime e compatto, prevede una sola opzione: l’affondamento. Di 930 parlamentari democraticamente eletti dai cittadini italiani, non ce n’è uno che sia mai salito a bordo per un selfie di solidarietà. Che mai trasporteranno su quella nave?

Siamo abituati all’invadenza della politica, ma ultimamente è diventato più faticoso seguirne le metamorfosi adiabatiche. Questa è l’era della iper-politica, la quale riempie di sé ogni cosa in modo sempre più pervasivo. Da mera prassi di gestione del potere, la iper-politica sta sempre più evolvendo verso un modello di filosofia esistenziale a tutto campo, una monade che esiste in funzione autoreferenziale e si alimenta della propria iper-immagine riflessa in ogni centile di vita individuale e collettiva. Imponendo ai suoi sacerdoti di scomunicare tutto ciò che sfugge al perimetro della propria iper-ortodossia conclamata. Tutto ciò che esula dalle strutture di pensiero della iper-politica è classificato come non ortodosso e, conseguentemente, eliminato. Nel registro delle navi da colare a picco sono segnati tutti i vascelli che la iper-politica non riesce a tracciare con i suoi radar iper-dialettici e a indirizzare con i suoi algoritmi di iper-controllo etico, non importa la bandiera di quale nazione abbiano issato al vento. Anzi, non importa se abbiano issato una qualsiasi bandiera. Anzi, non importa se abbiano issato addirittura la bandiera della Costituzione italiana.

Quando navi del genere compaiono all’imboccatura dei porti, la loro stessa presenza è portatrice di un pericolo, perché sono lo specchio liquido nel quale la iper-politica potrebbe essere costretta a guardarsi. E a non riconoscersi. Possiamo permetterci il lusso di una crisi di identità su così vasta scala? Facciamo un esempio banale. Prendiamo la democrazia. Nell’era della iper-politica, la democrazia è un valore intriso di sacralità, che comporta scelte di campo nette. Nella democrazia si crede o non si crede. I territori neutri non compaiono sulla mappa della democrazia, perché la iper-politica è anche (soprattutto?) storia 4.0 e la storia insegna che i chiaroscuri generano mostri. La fede nella democrazia comporta una religione e un canone, la cui interpretazione non è disponibile a chiunque. Esiste una disciplina che abilita all’interpretazione del canone, così come esiste un esercizio che autorizza l’intermediazione tra i credenti e l’oggetto della fede. L’intermediazione è ammessa solo se certificata, altrimenti è apostasia. La iper-politica sa che esistono le terre di mezzo e non le lascia mai vuote, anzi le presidia con attenzione.

Facciamo un altro esempio: lo sviluppo. Nell’era della iper-politica lo sviluppo si definisce attraverso reti neuronali di sintomatologie. Ogni sintomo rivela una dinamica e l’ordine in cui si dispongono le varie dinamiche disegna l’infografica della felicità sociale diffusa. Il lavoro è sintomo di benessere. La conoscenza è sintomo di progresso. Il benessere è sintomo di crescita. La produttività è sintomo di benessere. La crescita è sintomo di lavoro. Il lavoro è sintomo di equità, e così via. La iper-politica produce e possiede, per usucapione, le technicalities per rilevare sintomatologie, misurare dinamiche e prevedere effetti. In base ai quali, la iper-politica è in grado di progettare lo sviluppo di una comunità in un determinato momento storico o area geografica. In altre parole, la iper-politica progetta l’intensità e la durata della felicità collettiva.

Democrazia e sviluppo. Sono valori fondanti che determinano la legittimità degli interessi sociali. Ma, come tali, non sono modificabili al di fuori di un processo strutturato. Nella declinazione della iper-politica, democrazia e sviluppo sono trattati sottoscritti e non soggetti a revisione, neanche rispetto a singole clausole, pena l’invalidazione dell’intero corpus. Nessuna clausola può essere considerata come variabile indipendente. E dal momento che la democrazia genera lo sviluppo e la democrazia è una scelta etica, anche lo sviluppo è etico. Dunque, ogni singola clausola possiede un fondamento etico, trascendente. Potremmo definirle iper-clausole. Analizzabili separatamente. Ma discutibili solo entro un perimetro di condizionalità predefinite.

Facciamo un esempio banale. Prendiamo la partecipazione. Il diritto a discutere delle scelte che hanno un’incidenza collettiva non si afferma in astratto, ma rimanda a un catalogo di contenuti specifici. A monte di ogni processo di confronto socialmente strutturato ci sono un quid e un quia, la cui perimetrazione è avocata a sé dalla iper-politica. Che nomina i soggetti abilitati a svolgere la disputa e ne presiede le sessioni. Non esiste un albo abilitante alle dispute sociali, poiché ciò presupporrebbe la ricaduta di un diritto di natura soggettiva (intriso, quindi, di un sostanziale principio di selettività) in capo ai discussant. Nella iper-terra di mezzo della rappresentatività 4.0, uno vale uno e la partecipazione alle sessioni del dialogo sociale non ammette differenze di mandato, in quanto tutte le diversità sono rappresentate nei presupposti etici della discussione. Rispetto alle quali la iper-politica assolve alla duplice funzione di testimone e di garante. E’ la sussistenza della disputa, non il mandato, a fondare il diritto di rappresentanza.

Facciamo un altro esempio: il salario. In una prospettiva iper-politica non si presumono variabili indipendenti, perché la rete di ogni sintomatologia é di tipo neuronale. Sono le interconnessioni a generare il prodotto sociale. La iper-politica lavora sulla qualità delle interconnessioni, ne rileva le discontinuità e interviene per ripristinarle. Non esistono prodotti sociali rilevabili al di fuori di un processo di analisi delle interconnessioni, di cui la iper-politica effettua ed aggiorna costantemente lo scan neurocognitivo. Per questo non ha senso, in chiave iper-politica, astrarre il salario dalle interconnessioni che designano tutti i suoi epifenomeni. La determinazione dei livelli retributivi può essere gestita come esperimento in vitro a fini didascalici e, a tal fine, esistono i contratti collettivi di lavoro. I quali, tuttavia, prescindono dalle interconnessioni, che svolgono una funzione di natura iper-economica. Così come le aggregazioni iper-partecipative non misurano il peso dei mandati di rappresentanza, quelle iper-economiche non definiscono le soglie retributive di ingresso o di uscita da alcuna specifica regione sociale. Smontando le vecchie dogane appostate lungo la linea di confine tra povertà e ricchezza, la iper-economia rimuove ogni forma di sovranismo sociale e, conseguentemente, ogni genere di autarchia sintomatologica. La povertà è interconnessa con la ricchezza, anzi è una categoria specifica della ricchezza, per questo non è scientificamente corretto determinarla come mera espressione quantica del sinallagma lavoro-retribuzione. Nella iper-politica non sono ammesse corrispondenze biunivoche tra i fattori dello sviluppo, perché la iper-crescita si misura come processo di interazione multipla tra portamenti di interesse, non come loro somma.

A ben pensarci, é proprio l’ostinata volontà di negare la scientificità dei meta-processi sociali che decreta l’incongruenza della negazione e, in definitiva, ne sancisce l’illegittimità. Non occorre esplorare a fondo le stive delle navi dei Danai per immaginare il carico di alterità che recano in dono. Per questo l’unica opzione storicamente attuabile dalla iper-politica nei loro confronti è l’affondamento. La loro scomparsa dall’orizzonte degli eventi è necessaria per svellere dalle radici la selva oscura di singolarità dialettiche che non trovano (più) rispondenze nella struttura socio-economica neuronale intorno a cui si modellano i parametri di conformità dell’iper-sviluppo. I clandestini imbarcati sulle carrette delle rappresentanze sociali potranno sbarcare in un porto sicuro, se lo desiderano e, una volta a terra, provare a reintegrarsi. Sindacati, imprenditori, volontariato: qualcuno crede ancora nelle differenze? Quel documento appena firmato tutti insieme non è, in fondo, l’affermazione di un diritto subliminale alla ricerca della totalità? Le differenze sono una categoria della storia che non rispecchia la totalità del presente. La totalità non prevede territori di caccia, riserve speciali, sedi di mediazione o confronto, criteri per attribuire ruoli di rappresentanza. Sono le differenze il carico velenoso che rende stranieri nella Pangea atemporale dell’iper-presente: è questo che la iper-politica cerca da anni di spiegare ai passeggeri della nave fantasma che sta per essere affondata.

L’avessero compreso prima di salpare, quale inutile Odissea si sarebbero risparmiati.

fondazione nenni

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