Giorgio Bocca, o del giornalismo come profezia

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Era il 2001 quando s’iniziò a parlare di globalizzazione. Andavo a scuola. Facevo l’ultimo anno di liceo. Ricordo che gli insegnanti organizzavano incontri a tema sull’argomento, dei quali io e i miei compagni comprendevamo pochissimo. Ricordo anche questa cosa: di new-economy non ne sentii discorrere. Per niente nel corso di questi incontri. Poco in tv o sui giornali.

Giorni fa, mi è capitato di rivedere una vecchia intervista fatta a Giorgio Bocca proprio nel 2001. Riguardava un suo libro appena pubblicato per Mondadori: Pandemonio. Il miraggio della new-economy. Il grande giornalista lamentava il fatto che di quel suo lavoro si fosse parlato pochissimo. Perché? Per via della scomodità dell’argomento affrontato. O per meglio dire: del taglio con cui lo trattò. Basta leggere la quarta di copertina per comprendere meglio: “La new economy è forse il più grande miraggio che sia mai stato proiettato sul pianeta: un mercato inesistente per bisogni inesistenti”.

Sul contenuto del libro sorvolo. È bene che ciascuno lo legga per comprendere, a distanza di anni e in un periodo in cui siamo dentro una realtà fino al collo, come certe derive si sarebbero potute evitare. Il testo è reperibile con difficoltà, essendo fuori commercio. Ma grazie ad Amazon o ad una buona biblioteca, c’è da star sicuri che qualche copia venga fuori senza difficoltà.

Libro importante, questo di Bocca. Non solo per il tema affrontato. Ma soprattutto perché evidenzia una delle doti del buon giornalista: capacità di analisi dei fatti, trascendendo i propri interessi del momento, per intuire ciò che accadrà.

È risaputo che Giorgio Bocca di estrazione sociale era borghese. Lui stesso si definiva tale, e senza vergogna. Così come, pur essendo di sinistra, non lesinava rimproveri alla sua parte politica quando ce n’era bisogno. Si può chiamare, questo comportamento, obiettività? Assolutamente no.

Il primo ad esserne cosciente è proprio il giornalista. Però costui può scegliere se raccontare un fatto con onestà o ipocritamente. Se non parlarne affatto, o accennarvi in modo vago o distorto. Già scegliere fra queste chiavi, denota un certo tipo di morale e di condotta da parte del giornalista.

Il quale deve possedere anche una certa dote profetica. Osservare la realtà quotidiana è un mestiere che a pochi riesce. È un privilegio da saper esercitare, con umiltà e accortezza. Occorre saper analizzare i fatti di cui si viene a conoscenza con imparzialità, prescindendo dalle proprie convinzioni, dai propri dubbi, dalle simpatie o antipatie che si nutrono per alcune idee o uomini che le incarnano. Più che la verità, dalle colonne di un giornale deve emergere la prospettiva con cui la si osserva.

È questa dote che Bocca ha sempre messo in campo nei suoi settant’anni di attività giornalistica. Ne scaturì uno stile, di scrittura e comportamentale, spicciolo, semplice, schietto e talvolta rude. Le sue frasi non erano mai elaborate o tornite. Ma concise, precise e dirette.

Tutte qualità che permisero a Bocca di saper intuire dove certe tendenze avrebbero condotto la società italiana. In che modo gli animi ne sarebbero stati negativamente influenzati. Come e perché sarebbe stato necessario fermare alcuni fenomeni sul nascere.

Grande lezione, ormai ingiustamente ignorata. Leggendo gli articoli di alcuni giornalisti, vien da chiedersi: perché scrivono? Cosa pretendono di raccontare? Frasi sconnesse l’una con l’altra, parole che veicolano idee che non poggiano su fatti.

La vera crisi del giornalismo non è nella diminuzione di vendite della carta stampata – non solo, almeno. Credo, piuttosto, che sia in una voluta miopia dei vari cronachisti che si disinteressano dei fatti e non hanno cura di renderli familiari alla gente comune.

Per questo farebbe bene rileggere Bocca. In particolare il suo Pandemonio. Per pretendere, noi lettori affamati di quotidiani, che il giornalismo torni a gettare luce su una realtà – presente e futura – divenuta nebulosa e informe da ormai troppo tempo.   


pierlu83

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