Attentato in Nuova Zelanda: quando l’odio incontra le armi

– di GIULIA CLARIZIA-

L’odio genera violenza. La violenza genera odio. Quello che è successo qualche giorno fa in Nuova Zelanda fa tragicamente parte di questo circolo vizioso.

Un uomo sceglie una delle molteplici armi che ha a disposizione. Scende dall’auto. Entra in una moschea. Spara. Spara molte volte, contro esseri umani innocenti. Spara anche contro i loro corpi già a terra, immobili. Tutto questo in un video postato sui social in diretta, ripreso dallo stesso attentatore.

In un attimo il video fa il giro del mondo. Le immagini, decontestualizzate, potrebbero sembrare tratte da un qualsiasi videogioco. Invece è una dura, folle realtà.

Il fanatismo dietro questo attentato fa impressione. La video-camera posizionata per riprendere ogni istante, e quei nomi scritti in bianco sul mitragliatore per inneggiare a chi ha compiuto simili gesti in precedenza. Così l’australiano Brenton Tarrant si aggiunge alla lista dei suprematisti bianchi che si sono macchiati di sangue con una fierezza sconcertante.

L’ideologia alla base di tali atti di violenza ebbe origine negli Stati Uniti facendo riferimento alla supremazia bianca rispetto agli afro-americani.

Negli ultimi anni, e soprattutto dopo l’11 settembre, le comunità musulmane sono entrate nel mirino di questi gruppi di estrema destra.

Purificare la razza bianca contro l’immigrazione islamica e il multiculturalismo. Questo l’obiettivo dell’uomo che qualche giorno fa ha ucciso 49 persone, dopo aver pubblicato in rete un manifesto ideologico intitolato “La grande sostituzione”.

Fra i suoi modelli Anders Breivik, l’attentatore della strage di Utoya del 2011, in Norvegia. L’uomo uccise 77 persone che si erano riunite sull’isola per un campus organizzato dalla giovanile del Partito Laburista norvegese, che promuoveva una società aperta e multiculturale. In tribunale, Breivik disse con fierezza di aver compiuto il gesto per lanciare un messaggio contro i danni che il partito stava portando alla società.

Fra i nomi a cui Tarrant si è volutamente collegato c’è l’italiano Luca Traini, che lo scorso anno a Macerata sparò contro alcune persone di colore. Sebbene quest’ultimo abbia pubblicamente preso le distanze da ciò che è accaduto in Nuova Zelanda, nulla cancella il fatto che si è creata una vera e propria catena di odio e violenza. Senza contare che i terroristi dell’ISIS hanno risposto invocando vendetta. Una guerra fra folli in cui a rimetterci è chi vorrebbe vivere in maniera pacifica, facendo della diversità culturale un elemento di ricchezza e non di condanna.

Dovrebbero pensarci due volte quei politici che su questi sentimenti hanno costruito la propria campagna elettorale. In Italia, Salvini twitta parole di solidarietà per le vittime, schernendo con incredibile egocentrismo chi sostiene sia “sempre” colpa sua. Il presidente statunitense Donald Trump prende le distanze dal suprematismo bianco. Coda di paglia?

Non serve necessariamente premere un grilletto per essere coinvolti. È chiaro che gli attentati dei sostenitori del “potere bianco” non sono un fenomeno appena nato. Tuttavia, nel momento in cui la politica si appropria delle idee che questi gruppi violenti portano avanti, come quella dell’invasione straniera da cui la “società bianca” deve difendersi, si soffia sul braciere dell’odio provocando dolorosi incendi.

Fra le parole di odio e la violenza fisica il passo può essere più breve di quanto si pensi. Pensiamoci bene prima di armare la società civile.

giuliaclarizia

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