Razzismo 3.0

-di PIERLUIGI PIETRICOLA-

Sono sempre stato convinto che l’antisemitismo sia una sottocategoria di un fenomeno maggiore: il razzismo. Sul perché gli antisemiti, storicamente, si comportino nel modo che conosciamo, esistono pagine autorevoli alle quali si potrà fare utile riferimento: da Sartre al recente testo Negri, froci, giudei & co. L’eterna guerra contro l’altro di Gian Antonio Stella. Non vale, quindi, la pena di ripercorrere idee ed opinioni già egregiamente espresse. Potrebbe, però, risultare interessante chiedersi: come mai nel XXI secolo fenomeni di feroce razzismo conoscono una recrudescenza come quella che ci viene quotidianamente raccontata? Personalmente non ho una sola risposta. E nulla di quello che dirò ha valore definitivo (e credo, quasi con certezza, neppure originale). Diciamo che si tratta di considerazioni che metto su carta, nella speranza che qualcuno – più autorevole ed esperto di me – le raccolga ed argomenti meglio di come posso fare io. 1) Si è razzisti, o lo si diviene, per costruire una propria personalità. È un’idea ben argomentata in un saggio di Umberto Eco, Costruire il nemico. Non sempre gli individui sono in grado di costruire da soli una loro soggettività. Si tratta di avere un ideale da realizzare, un progetto cui dar forma e sul quale basare le proprie scelte – di vita e non solo. Tutto questo richiede un solido retroterra culturale – in senso antropologico – sul quale si innestano: preparazione, valori, morale, etica. Colui che costruisce se stesso in tali termini, man mano che gli anni avanzano, diviene sempre più complesso e variegato. Ad ogni fatto non troverà mai una singola spiegazione che lo motivi, ma più di una. Costui sa che per ogni fenomeno vi è una concomitanza di cause a sottenderlo, tutte degne di rispetto. Ma, soprattutto, questa persona sa bene che non esistono, nel mondo in cui viviamo, valori e principi che valgono in assoluto. A un dipresso e rozzamente: non vi è un’unica verità, o La Verità. Al contrario, vi sono singole verità da porre in relazione coi fatti che occorrono o accadono al soggetto che li vive e li osserva. Che questo lo si voglia chiamare relativismo ha poca importanza. Quanto appena detto, non è che il terreno su cui poggia e cresce una convivenza fra individui la cui personalità è il risultato di scelte, scoperte ed esperienze di vita vissuta (sotto ogni profilo). Ma chi non è in grado di vivere così, che fa? Rozzamente, costruisce – per sé e la comunità in cui vive – un nemico contro il quale scagliarsi. E chi sarà questo avversario? Lo straniero innanzitutto. A seguire: chi non condivide un certo pensiero, chi non segue o si adegua alla doxa: chiunque che, in poche parole, non si assimila ad un non bene precisato andamento collettivo. Eliminare questo nemico o, nei casi migliori, disprezzarlo, ingiuriarlo, metterlo alla berlina contribuisce alla costruzione di una personalità. 2) In un contesto globale, dove si diviene tutti più vicini grazie alla rete e agli strumenti di cui essa ci dota, le particolarità individuali rischiano di assottigliarsi fin quasi a scomparire. In realtà questa mi pare una sciocchezza, ma la maggior parte delle persone ne sono più che convinte. E allora il modo più rozzo e banale di rivendicare una singolarità nel magma di una società liquida, per usare la sdoganatissima terminologia di Bauman, è quello di disprezzare qualcuno, e di farlo fino al punto estremo: la sua eliminazione. Ciò che consentirà di emergere, anche se per brevissimo tempo, dal quel caos informe che è la vita globale. In quest’ultimo senso, allora, l’essere razzista – e di conseguenza antisemita – è un modo come un altro (attualmente quello più in voga e accessibile a chiunque) per rivendicare il proprio io, per far risuonare la propria voce nella speranza che una insignificante singolarità riesca a distinguersi dalla cosiddetta anonima società globale. Conquista brevissima, perché la rapidità a cui le comunicazione di massa – e massificanti – ci hanno abituati, a tali minuscole singolarità possono prestare scarsa attenzione. Il tempo necessario di catturare l’attenzione dei più ingenui. Non appena muta il polo di interesse, quelle sciocche individualità espresse in maniera così banale, piomberanno di nuovo nell’anonimato. Come uscire da tutto questo? Avendo sempre trovato nei libri, così come nella storia, le soluzioni migliori, mi permetto di suggerire la lettura di un testo di qualche anno fa: Ama il prossimo tuo di Massimo Cacciari ed Enzo Bianchi. Senza riprendere i retorici stilemi argomentativi buoni per un catechismo banale e dogmatizzante, questo agile volumetto spiega il senso della parola prossimo. Chi è il mio prossimo? Colui che è simile a me? Che è identico in tutto e per tutto a ciò che io sono? Che ha i miei stessi interessi, le medesime propensioni, uguali prospettive? Sarebbe fin troppo facile. Il prossimo non è un soggetto esterno, bensì quel me stesso che, in un atto di com-prensione e com-passione, si fa autenticamente prossimo a colui che rappresenta l’esatta opposta polarità, in termini di valori, idee, desideri, modi di sentire, e via discorrendo. Meditarvi sopra, ne varrebbe la pena.

pierlu83

Rispondi