-di PIERLUIGI PIETRICOLA-
Che immagine si ha dell’Umanesimo? Affidandoci alla memoria scolastica, quella d’un periodo con uomini simili a topi di biblioteca, dediti solo allo studio e alla lettura dei classici, sempre chini su incunaboli riemersi dopo secoli di oscurantismo e restituiti alla comunità. Ma l’Umanesimo non fu epoca di stasi, periodo pacato di riscoperte. Bensì un’intensa fase storico-culturale di rinascite e rivoluzioni – per parafrasare un titolo di Eugenio Garin. L’ultimo libro di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, riassume pienamente il senso di questa epoca, così nota e altrettanto sconosciuta. Perché inquieta la mente degli umanisti? Perché non si posero mai di fronte ai classici con spirito di venerazione, di pura idolatria. Certo: v’era ammirazione per le grandi opere dell’epoche passate. Ma proprio per questo venivano studiate con l’intento di penetrarle in modo disincantato, senza nutrire illusioni. L’umanista era colui che studiava il classico per divenire classico egli stesso. Leon Battista Alberti, Pico Della Mirandola, Leonardo da Vinci, Lorenzo Valla (per citarne solo alcuni, ma fra i maggiori): tutti tesero a produrre classicamente. Ma ciò detto, perché menti inquiete quelle di questi uomini? Epoca tragica fu l’Umanesimo, tutt’altro che pacifica. Drammatica transizione fra un assetto sociale e culturale – il Medioevo –, dominato da una certa rigidità, ad una in cui non vi è più nessun cielo, nessun Dio, nessun aristotelico motore immobile a governare il mondo. Vi è l’uomo, con tutti i suoi valori, le sue incertezze, i suoi dubbi e le sue speranze. L’uomo come centro, perno attorno cui tutto prende vita e forma. Questo antropocentrismo dell’Umanesimo nulla ha di retorico nell’analisi che ne fa Cacciari. Al contrario, esso si tinge di sfumature stimolanti ma ancora più tragiche. Perché se è l’individuo libero ad essere al centro del mondo, lo è in tutte le sue possibilità: positive e negative. Costui può scegliere il bene come il male, la salvazione come la perdizione. E l’umanista di cui si discorre è mente inquieta proprio per questo: perché è ben consapevole di trovarsi a un bivio e può individualmente scegliere quale via percorrere – se quella del bene o quella del male. In un certo senso – anche se per sola affinità tematica – è la scelta, consapevole, che fa lo shakespeariano Riccardo III all’inizio del dramma omonimo quando, consapevole d’essere brutto e deforme e coi cani che gli abbaiano addosso e vogliono morderlo appena lo incontrano, sceglie la via del male: perché altro non può fare. Questa consapevolezza, tale disincanto privo di illusioni e false immagini, questo sguardo così impietoso ma realistico senza mai cadere nel banale e nel piattume, rende l’uomo umanista altamente tragico in quanto pienamente consapevole. E della consapevolezza l’umanista fa la sua cifra caratteristica nello studio dei classici. Lo si diceva poc’anzi: divenire classico, comporre e creare classicamente. Prendere esempio dalle grandi opere, studiarle, farle proprie, impararle anche – e soprattutto – a memoria per sviscerarle nei minimi particolari. Perché? Per divenire classici a propria volta e creare classicamente. In tale contesto va collocata la pratica umanistica della filologia, intesa come ricerca dell’etimo per avere del linguaggio che si usa – scritto ed orale – piena coscienza. Non si può parlare a vanvera, scrivere senza sapere. Necessario e imprescindibile è apprendere il significato originario, letterale, dei verba. Poi, su questo, s’innesteranno le varie interpretazioni (allegorica e analogica). Ma è il significato letterale a dare il via al pensiero, come rettamente esso deve essere praticato. Non diversamente. Solo così il nesso tra filologia e filosofia trova autentico fondamento. Di questi e molti altri temi La mente inquieta tratta. Riallacciandosi alle illuminanti ricerche di Eugenio Garin, portandole al loro massimo compimento storico-filosofico (esperimento mai più tentato dopo Garin), Massimo Cacciari ci invita a ripensare l’Umanesimo. Ma come? (qui sta la novitas del libro) Come gli umanisti si posero di fronte alle opere da loro riscoperte e predilette: classicamente. Mai venerare un genio, confrontarsi con le sue creazioni in uno stato di pura ebetudine. Ma far proprio il suo stile, il suo pensiero: assimilarne i tratti e i contenuti per poi essere noi, in prima persona, a poter riprodurre classicamente qualcosa di nostro, sapendo ben mettere in versi, suoni o figura pensieri degno d’esser pensati. Lezione da apprendere e considerare questa di cui Cacciari ci fa dono: oltre che per rifondare Arte e Pensiero, anche per riconoscere e individuare il vero genio, sapendolo distinguere da tanto ciarpame che ottunde menti non preparate e ormai diseducate a un sano esercizio critico.
Che epoca è questa se non quella del ritrovato razzismo, dopo i segni tremendi del nazifascismo, così pieni di anti tutto, in questa agonizzante Europa?