di PIERLUIGI PIETRICOLA
Trent’anni fa ci lasciava Sergio Leone. Personaggio affascinante, a tratti ilare e autorevole. Al vederlo incuteva un non so che di riverenziale e di timore. I suoi film hanno sempre diviso le opinioni. Da un lato i critici colti lo hanno disprezzato, ritenendo le sue opere prodotti minori, malfatti e destinati ad essere presto dimenticati. A far da controcanto, vi era il successo decretato dal pubblico. Un film di Leone annunciato sui grandi schermi, radunava subito folle di persone ai botteghini per avere un biglietto e riuscire – prima degli altri – a godere l’ultima opera del Maestro. A ricordare colui che – giustamente – deve essere ritenuto un genio della cinematografia, oltre ai suoi capolavori, vi è un libro da poco uscito per le edizioni de Il Saggiatore: C’era una volta il cinema. I miei film, la mia vita. Si tratta di una lunga conversazione con Noël Simsolo nella quale il grande regista ripercorre le vicende legate alla sua biografia – privata e professionale. Il tono è quello cui tutti – pubblico e addetti ai lavori – sono abituati: di una persona mai incline al narcisismo o alle magnificazioni del proprio ego. Dalle sue stesse parole, è un mondo ad emergere e del quale il protagonista – Sergio Leone – finisce per essere un elemento ulteriore chiamato ad arricchirlo. Così come per la vita, anche l’opera filmica doveva essere un’armonia, nella quale ciascuno strumento era tenuto ad accordarsi col brano da eseguire. Nulla avrebbe potuto o dovuto discostarsi dal disegno d’insieme. Leone era attento a tutto, anche a come un oggetto si sarebbe dovuto posizionare e a come inquadrarlo per farne emergere l’aspetto simbolico. Ciò può indurre i più ingenui a credere che un film così concepito – con molti primi piani – abbia un ritmo lento. In realtà tale tecnica, perfezionata come mai in precedenza, contribuì a dare al cinema quella peculiarità propria dell’arte migliore: la sospensione del tempo intesa come successione cronologica di istanti. Non fu certo Leone il primo a comprendere tale caratteristica: basterà riguardare – traendone gusto sublime – i capolavori di Charlie Chaplin o anche delle comiche di Stan Laurel e Oliver Hardy per verificare come l’attenzione al particolare, che ben s’innesta sull’insieme del film, contribuisca a rendere questi lavori straordinariamente vicini a noi in termini di poetica artistica. Va per altro notato che, metaforicamente, il dettaglio e lo sguardo che su di esso vi si posa, costituiscono un’educazione da non sottovalutare per la vita quotidiana, poiché è nei particolari che sovente si scorgono gli orizzonti migliori e autenticamente rivelatori.
Fin qui molto si è detto su Leone, ma nulla di originale che il pubblico già non conoscesse. L’aspetto umano del grande regista, invece, sono pochi ad averlo saggiato – direttamente o tramite altrui narrazioni. Questo libro contribuisce anche a svelare tale dimensione. Su tutti valgano due episodi: il primo lo abbiamo sentito raccontare direttamente da un suo discepolo – Carlo Verdone –, mentre il secondo è il co-autore del volume di cui si tratta a ricordarlo. Cominciamo dal primo. Verdone era all’inizio della sua carriera. Grazie a Leone che ebbe fiducia in lui, riuscì a realizzare il suo primo film – Un sacco bello. La sera prima delle riprese, mentre era in casa a tentare di far mente locale su come vivere al meglio i momenti che lo avrebbero atteso l’indomani, d’improvviso Verdone udì squillare il citofono. Era Sergio Leone, venuto apposta per trascorrere qualche ora insieme al giovane amico e discepolo, ben sapendo quali sentimenti possono agitarsi nell’animo di un regista al suo esordio così travagliandolo. Furono momenti indimenticabili, di vera amicizia e di rara sincerità. Alla fine di una suggestiva passeggiata per il Lungotevere, nel salutarsi il maestro disse all’allievo: “Domani non verrà la macchina della produzione a prenderti. Verrò io”. Ciò detto, i due si augurarono la buonanotte. Ed ecco il secondo episodio. Simsolo e Leone si trovavano a Parigi. I due passeggiavano nei pressi della stazione Saint-Lazare. D’un tratto, il grande regista volle entrare in un bistrot dalle parvenze squallide per bere un caffè. Nel vedere un cameriere passare fra i tavoli portando un vassoio con sopra disgustosi panini e mal cucinate patatine fritte, Leone le ordinò (per sé e Simsolo) senza esitare. Mangiò poco di tutto lasciando gran parte nel piatto. Una volta usciti, Simsolo chiese a Leone perché prendere simili schifezze quando, di lì a qualche ora, avrebbero potuto gustare un’ottima cena. “Per ricordarmi che per molto tempo sono stato povero”, gli venne risposto dal grande regista. Non servono ulteriori commenti per far propria la lezione di un vero maestro: nell’arte e, ancor più, nella vita.