Ma la vera vertenza Ilva-Taranto comincia ora

-di ANTONIO MAGLIE-

Luigi Di Maio con quella sua tendenza a considerare la politica sempre la prosecuzione di un post su Facebook o, meglio ancora, di un tweet, ha benedetto l’accordo sull’Ilva affermando che è stata raggiunta l’intesa “migliore nelle condizioni peggiori”. Dubitiamo che per Taranto in questa lunga, annosa e drammatica vicenda, possano esistere soluzioni migliori, almeno in una valutazione aprioristica come può essere quella attuale. Il tempo e, soprattutto, le azioni concrete (non solo della politica) definiranno la qualità delle soluzioni. Di sicuro ci sono le condizioni peggiori che non riguardano il vissuto intorno al tavolo di una sala climatizzata di via Veneto a Roma, ma la vita quotidiana in un tinello di una delle tante case dei Tamburi, da quelle più vecchie costruite dall’Iacp a quelle più nuove nate con l’edilizia in cooperativa. C’è un dato che andrebbe sempre tenuto presente in questa vicenda: in ballo non c’era soltanto la salvezza di 13.500 posti di lavoro (per 10.700 già acquisita), ma quella di una comunità di poco meno di duecentomila abitanti; la difficile convivenza tra una città che corre dai Tamburi e dal Paolo VI sino all’incrocio tra Viale Magna Grecia e Viale Ionio per estendersi sino a Capo San Vito, e uno stabilimento che occupa un’area tre volte il centro urbano a cui fa riferimento.

Dettagli che, al di là delle parole, in larga misura sfuggono a chi si è sistemato intorno a quel tavolo (fatte le ovvie eccezioni che dipendono dai contatti quotidiani o quasi con quella realtà). E che andrebbero illustrati con ampia dovizia di particolari ai nuovi proprietari, Arcelor-Mittal, accompagnati da un partner italiano (Marcegaglia) che, a onor del vero, in città ha lasciato un pessimo e fugace ricordo (una scia di disoccupati). Bisognerebbe accompagnarli, i nuovi proprietari in un giro turistico, ma non nei vicoli dell’Acropoli per metterli nelle condizioni di ammirare gli ipogei, la Basilica di San Cataldo o la chiesa di San Domenico, ma in quel quartiere diviso dallo stabilimento da una strada: un quartiere in cui predomina il rosa prodotto dal deposito delle polveri, lo stesso colore che ha trasformato i bianchi marmi delle tombe di un cimitero associato allo stabilimento da una paradossale e terribile contiguità (l’unico segno di attenzione sociale, i Riva lo diedero con l’installazione a San Brunone di alcune fontanelle). In quel quartiere vivono in simbiosi due volti della città: i fumi e le polveri da un lato; il fascino del paesaggio marino offerto dal Mar Piccolo, dai ristoranti lussuosi, dai resort, dalle masserie restaurate lungo la circummarpiccolo.

Non ci sono condizioni migliori o peggiori ma solo condizioni storiche, cioè quelle che la gente vive quotidianamente e rispetto alle quali troppe amnesie, troppi ritardi, troppe assenze si sono registrate in questi decenni. Di Maio dice che il precedente governo in sei anni non ha fatto nulla. In realtà la questione Ilva nasce prima e potrebbe a buon titolo essere inserita nel vasto libro delle fallimentari privatizzazioni e liberalizzazioni italiane. E andando ancora più indietro, nel facile ottimismo di una politica meridionalistica basata sulle cattedrali nel deserto a cui, peraltro, ha fatto seguito una ancora più devastante corsa alla desertificazione produttiva. La storia comincia con le illusioni e l’ottimismo creati dall’insediamento di una fabbrica quasi “donata” da Aldo Moro e dal nascente centro-sinistra. L’ubriacante soddisfazione di essere ormai la “Milano del Sud”, la città meridionale che aveva cancellato l’emigrazione, che in un Natale di cinquant’anni fa ospitava il Papa che poi officiava la messa all’ombra dell’altoforno e del treno-nastri. Questa volta non ci saranno targhe cementificate nelle mura della più famosa chiesa cittadina, quella da cui nella Settimana Santa esce la processione dei Misteri accompagnata dalla “nazzicata” dei Perdoni.

Un lungo abbandono e una ricca teoria di tradimenti. Una partita che ognuno ha giocato sino all’ultimo senza tenere presente la vastità umana del problema (circa duecentomila persone). Carlo Calenda ha trattato la cosa come se in ballo vi fosse un suo personalissimo interesse; Di Maio è parso preoccupato soprattutto di non esacerbare gli animi divisi dei suoi militanti e dei suoi elettori; persino il sindacato negli anni ha pensato troppo a quel che accadeva in fabbrica e decisamente poco a quel che accadeva fuori, venendo in qualche maniera meno alla sua funzione di collante sociale. E senza un collante la città si è divisa, frantumata, crogiolata contemporaneamente nella disillusione e nell’illusione. Ognuno ha recitato la sua parte, compreso un presidente della Regione che avrebbe forse dovuto lavorare un po’ di più sui problemi ambientali che a Taranto nascono per questioni di sua più stretta pertinenza. La realtà è che in questa storia, a parte i nuovi proprietari che hanno fatto i loro affari, non ci sono vincitori ma probabilmente solo vinti. Un romanzo verghiano, verismo allo stato puro, con qualche divagazione nella commedia degli inganni. Ecco perché la vera vertenza Ilva-Taranto comincia ora.

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