La morte di Buozzi: un “giallo” con tre interrogativi

-di VALENTINA BOMBARDIERI-

Su quel che determinò il doloroso epilogo del 4 giugno 1944, cioè l’eccidio della Storta, l’uccisione da parte dei nazisti in fuga di Bruno Buozzi e altri tredici antifascisti, incombono ancora tre interrogativi a settantatré anni di distanza. Per carità, della vicenda si sa più o meno tutto però al quadro mancano alcuni dettagli. Tanto per cominciare, bisogna dire che a quella strage si può tranquillamente applicare la teoria sulla banalità del male elaborata da Hannah Arendt in occasione del processo ad Adolf Eichmann. Perché se per la terribile carneficina delle Fosse Ardeatine può essere, strumentalmente, evocato l’odioso e spietato rapporto di causa-effetto con l’attentato di via Rasella, per La Storta il medesimo rapporto non può essere richiamato per il semplice fatto che non esiste. Fu una strage gratuita. Una gratuità a dir poco inquietante.

La sera del 3 giugno 1944 da via Tasso, la famigerata prigione nazista, partirono diversi camion. Uno solo, però, interruppe la sua corsa nella tenuta Grazioli, facendo “scendere” vivo il suo carico umano, per ripartire poi dopo averlo lasciato senza vita in un fosso, vittima di una esecuzione nella “tecnica” simile a quella adottata alle Ardeatine (il camion era comandato proprio da un “Ss” che in quella occasione si era distinto nel ruolo di carnefice, facendo evidentemente tesoro della crudele lezione lì mandata a memoria). Proprio il camion che ospitava Buozzi e gli altri tredici antifascisti era quello più di altri atteso al nord per volere di Benito Mussolini che sperava di convincere Buozzi, per riconquistare consensi nelle fabbriche ribollenti di rabbia anti-nazista e anti-fascista, a dare lustro e copertura politica alla “conversione” sociale (il “ritorno alle origini”) della Repubblica di Salò. Non solo: probabilmente, ormai rassegnato alla sconfitta, il duce puntava a costruirsi degli interlocutori “comprensivi” ben sapendo che di lì a poco l’Italia gli avrebbe presentato il conto. Conosceva Buozzi, vecchio compagno di partito dei tempi socialisti (lo aveva pure violentemente contestato da sinistra per poi blandirlo anni dopo, come capo del nascente fascismo, in occasione dell’occupazione delle fabbriche).

Tre interrogativi, dunque. Il primo: perché Buozzi non cercò un “asilo” più sicuro? Molti leader di primo piano (tra i quali Pietro Nenni) erano stati ospitati in Laterano. Lui preferì affidare la sua salvezza a case “amiche”. Visto che era in corso la trattativa sulla ricostituzione del sindacato unitario, voleva godere di maggiore libertà di azione? Si sa, ad esempio, che respinse l’idea di trasferirsi al Sud, oltre le linee, nell’Italia liberata. Certo è che la sua scelta ha avuto un epilogo drammatico. Quelli successivi a via Rasella e alle Fosse Ardeatine furono giorni terribili, diversi sindacalisti vennero arrestati, tra i quali anche Giulio Pastore.

Il secondo: chi lo tradì? Perché è evidente che è stato tradito. Sul tema sono state elaborate diverse teorie, alcune anche di carattere strumentale. Erich Priebke, ad esempio, nella sua autobiografia ha parlato di una persona vicina a Buozzi, un sindacalista insospettabile. Illazioni di provenienza americana hanno provato a indirizzare la ricerca verso gli ambienti comunisti e, addirittura,  verso Di Vittorio. Era un periodo di acque torbide, in cui nuotavano personaggi non sempre cristallini come, ad esempio, Ulisse Ducci, antifascista ma con frequentazioni solide con gli ambienti dell’Ovra (dietro pagamento si dichiarò pronto a “consegnare” Buozzi e Nenni). Ma alla fine l’interesse si è concentrato su due personaggi: il ragionier Domenico De Ritiis, uomo piuttosto addentro agli ambienti socialisti, il cui nome fu poi ritrovato negli elenchi dell’Ovra e al quale Mauro Canali, che ha studiato la materia in maniera approfondita, ha dedicato una certa attenzione, e la staffetta Franz Muller, molto attiva nella zona di Trastevere.

Terzo interrogativo: chi comandò la strage? Tanto per cominciare bisogna ricostruire il carattere convulso di quelle ore. Il 3 giugno le truppe alleate sono ormai a un tiro di schioppo da Roma. I generali nazisti, a quel punto, rendono operativi i piani di una fuga che può avere una sola direttrice: il nord. Ma non si possono prendere tutte le strade a disposizione perché quelle che costeggiano il mare sono più esposte ai bombardamenti. Risultato: via Cassia diventa l’arteria preferita, trafficata più della Cristoforo Colombo dopo la chiusura degli uffici dell’Eur. Su quella strada i nazisti sistemarono il quartier generale che gestiva una fuga molto disordinata. È stato sostenuto che Priebke fosse presente nel momento in cui i due “Ss” che “gestivano” il camion, Kahrau e Pustowka, fecero fuoco su Buozzi e i suoi tredici compagni. Dunque, l’eccidio sarebbe stato ordinato da lui. Ma l’accusato si è sempre difeso sostenendo che in quei giorni era a Dachau. Rimandare la responsabilità della decisione a Priebke e a Kappler è inevitabile: d’altro canto, se non furono responsabili materialmente lo furono moralmente. Certo è che quel camion era il più malandato tra quelli che partirono da via Tasso, tanto malandato da far sollevare l’ipotesi che la “banalità del male” abbia trovato alimento proprio nella necessità di accelerare la fuga liberandosi di un carico “ingombrante”. Nel processo per le Fosse Ardeatine, Kappler sostenne che a un certo punto di quel mezzo vennero perse le tracce e che Kahrau che lo comandava si fece vivo soltanto cinque, sei giorni dopo da Firenze dove era arrivato solo a bordo di un’auto. Il camion non c’era più.

Valentina Bombardieri

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