-di FRANCO LOTITO-
Dopo giri e giravolte; passi indietro, passi avanti e passi di lato, alla fine è finita dove, in definitiva doveva finire. Salvini e Di Maio – che un post-moderno Pasquino aveva grafitato teneramente avvinti in un murales apparso sui muri della Città eterna, alla fine hanno coronato quel sogno che coltivavano fin dal giorno in cui si promisero reciprocamente spartendosi le presidenze di Camera e Senato.
Ce l’hanno messa tutta, a partire dai 75 giorni necessari per allestire un “contratto” impavidamente intriso di faciloneria populista: Salvini impegnato a convincere un Berlusconi nei panni di “Rebecca la prima moglie”, che malgrado la liaison con l’odiato penta stellato, nulla sarebbe cambiato tra loro due. Dall’altra parte Di Maio, affaccendato a chiarire al suo Movimento che nella scatola di sardine ci sono qualche centinaio di poltrone da occupare. Nel nome della rivoluzione a cinque stelle, s’intende. Adesso però finalmente insieme a Palazzo Chigi.
A quanto pare nessuno dei due prenderà per sé la poltrona più importante: quella di capo del governo. Per loro dovrebbe farlo un maggiordomo appositamente chiamato dalle retrovie al quale spetterebbe il compito di tenere in ordine la scrivania in attesa delle opportune disposizioni, presiedere con la dovuta compunzione le riunioni del Consiglio dei Ministri, inaugurare mostre e fiere, partecipare a “Porta a porta” ed altre onerose incombenze di rappresentanza.
Negli ambienti bene informati c’è chi si chiede se la coppia sia unita da sincero amore. In effetti li tiene insieme un “contratto”, cioè lo strumento giuridico che per definizione si rende necessario quando le parti in causa non si fidano l’una dell’altra, essendo i rispettivi interessi tendenzialmente in conflitto. Per questo il documento viene aperto da una premessa normativa formalmente sottoscritta. Dopo di ché l’impostazione generale appare come un’antologia di rivendicazioni distillate dalle promesse fatte durante la campagna elettorale sulle quali Lega e Cinque Stelle si dichiarano impegnate ad ottenerne la realizzazione.
Il testo del accordo negoziale (di questo si tratta!)che nel corso di questo week end viene sottoposto al giudizio dei gazebo e della piattaforma Rousseau, ha subìto significative modifiche in corso d’opera. Rispetto a quella pubblicata qualche giorno fa da “Huffington Post”, la stesura più recente appare meno rozza, anche se l’ispirazione di fondo rimane immutata.
Nelle 40 pagine della stesura definitiva c’è un po’ di tutto. C’è meno Europa, insieme alla riconferma della fedeltà atlantica; in cambio c’è più Russia (Putin se ne è prontamente dichiarato compiaciuto); ci sono più pensionati per effetto del superamento della “Fornero” (e sia pure, non è giusto che l’aspettativa della pensione insegua continuamente l’allungamento dell’aspettativa di vita), in cambio non c’è una parola una parola sulla drammatica crisi demografica (se le culle continueranno a restare vuote ancora per una generazione il Paese non avrà futuro). Ci sono meno tasse, specie per i più ricchi (c’è il problema delle coperture finanziarie, ma è un dettaglio), in cambio c’è più deficit di bilancio (ecco risolto il dettaglio!). Il Debito non è un problema, basta ignorarlo. Immigrazione alla sbarra insieme alle famigerate ONG che spudoratamente vanno a salvarli in mare aperto. E ci sono più armi.
Grandi notizie per il mercato del lavoro: torneranno i voucher! In cambio, del reddito di cittadinanza se ne parlerà più avanti, forse nel 2019, con buona pace dell’elettore penta–stellato di Gravina di Puglia che il 55 marzo si era affrettato presso gli uffici del Patronato per riempire l’apposito modulo di richiesta. C’è il “conflitto di interessi”, ma Berlusconi può stare tranquillo, il capitolo che ne parla è acqua fresca.
Per la verità ci sono persino cose intelligenti e condivisibili, come i capitoli dedicati all’Ambiente e l’economia circolare (ben fatto), i Beni culturali e la tutela dell’acqua come bene comune.
Così si accinge a nascere un governo penta-leghista,euro-antipatizzante, pop-sovranista, nazional-securitario e tendenzialmente xenofobo. Insomma un governo di destra, un inedito per la storia politica del nostro Paese. Naturalmente ha il diritto della prova perché glielo hanno conferito gli elettori. Ciò non toglie che le premesse che lo sostengono legittimino una serissima preoccupazione.
Se questa è l’offerta politica, c’è da chiedersi se le clamorose diseguaglianze che separano il Nord dal Sud del Paese possano mai essere colmate – o quantomeno mitigate – senza un progetto di convergenza economica e sociale; se l’impronta corporativa che caratterizza le scelte in materia di spesa pubblica sia quella giusta per un’economia che arranca per effetto della caduta di investimenti in Ricerca, innovazione e politiche di sviluppo.
C’è da interrogarsi su quale futuro viene prospettato alle giovani generazioni che entrano nel mondo del lavoro dalla porta di servizio del precariato se la risposta alle loro aspettative di sicurezza e stabilità del lavoro è quella dei voucher. E c’è di che allarmarsi seriamente se la risposta alla domanda di sicurezza dei cittadini sarà quella di dire loro: “armatevi e fate fuoco”.
Infine un ultimo interrogativo che interpella l’elettorato democratico e progressista. Gran parte del consenso elettorale che è andato ad ingrossare le fila penta-stellate era costituito da voti di sinistra. Ora quei voti, Di Maio li ha portati in dote per formare un governo di destra insieme a Salvini. Era questo lo sbocco desiderato?