-di GIULIA CLARIZIA-
“Ce n’est qu’un debut … continuons le combat.” (Non è che un inizio…continuiamo la lotta), recitava un motto del movimento di protesta studentesco che caratterizzò il così detto “maggio francese” del 1968.
Sono passati cinquant’anni da quando ebbe inizio. Il 3 maggio, una manifestazione pacifica di circa 400 studenti riunitisi nel cortile della Sorbona venne aggressivamente sgomberata dalla polizia, provocando negli studenti reazioni tali da far partire uno scontro.
Le proteste proseguirono per tutto il mese, alimentate dalla carica che si era accumulata nei mesi precedenti. Infatti, come è noto, dagli Stati Uniti all’Europa si stava diffondendo una forte insofferenza dovuta a motivi ideologici, politici e sociali. La guerra in Vietnam, le ancora troppo marcate gerarchie sociali, la rigidezza dei costumi, il sovraffollamento nelle università, la scarsa considerazione dei diritti degli studenti. Questi alcuni dei principali fattori che avevano portato studenti delle due sponde dell’oceano a scendere in piazza e ad occupare le facoltà.
Queste proteste condividevano la stessa miccia e dialogavano tra loro. In particolare, il 68 francese viene preso a modello dai colleghi italiani. Si solidarizzava, si condividevano gli slogan e le letture filosofiche che ispiravano le idee.
Eppure, i due movimenti si distinsero molto per quanto riguarda l’uso della violenza e la loro durata nel tempo.
Nella Francia di De Gaulle, le proteste ebbero vita breve. Un mese. Un mese in cui si credette che stesse arrivando la rivoluzione (di nuovo). Si costruivano le barricate in memoria dell’antica gloria del 1789, non di rado si parlava di violenza. Lo spirito di protesta contagiò anche gli operai che proclamarono uno sciopero generale che paralizzò il paese. Il dibattito accendeva non solo le università e le fabbriche, ma tutte le strade. Dall’altra parte c’era però l’intransigenza di De Gaulle e lo scetticismo del partito comunista francese e del suo sindacato, la CGT. Erano in molti coloro che vedevano il movimento come un capriccio infantile, in cui studenti di famiglia borghese, che non avevano mai visto una fabbrica, parlavano di proletariato e rivoluzione.
Quando si andò al voto anticipato, vinsero i gaullisti e si avviò un processo di normalizzazione per cui le proteste rientrarono.
In Italia, come probabilmente molti ricordano bene, la situazione fu diversa perché la spinta propulsiva del ’68 durò per un decennio. Si dice che gli italiani presero sul serio il gioco dei colleghi francesi. Questi ultimi parlavano di violenza rivoluzionaria ma di fatto non la usarono mai se non in maniera blanda. Nessuno morì in Francia. In Italia lo scontro si radicalizzò e i livelli di violenza crebbero fino ad arrivare in alcuni casi a uccidere. Ciò fu dovuto a diversi fattori, tra cui la tradizione culturalmente radicata di sfiducia nei confronti dello stato, il forte legame che si instaurò tra gli studenti e i lavoratori, il complicato panorama di organizzazioni extra-parlamentari che emersero in quel periodo, e dunque la volontà di diventare il gruppo egemone all’interno di questa complicata costellazione e la radicalizzazione dello scontro tra gruppi di estrema destra ed estrema sinistra. Così, mentre per i cugini d’oltralpe si parla solo di “maggio francese”, il nostro 68 è arrivato fino al 77, con una nuova esplosione di proteste in cui (purtroppo) in alcuni casi dalle Molotov si era passati alle pistole[1].
[1] Fonte: I. Sommier, La violence politique et son deuil, l’après 68 en France et en Italie, Presses universitaires de Rennes, Rennes, 2008.