Il vero lato dell’economia: la calibratura della Politica Monetaria

-di FRANCO CAVALLARI-

Nella situazione di incertezza riguardante le prospettive di Finanza Pubblica collegate all’attuazione degli esorbitanti programmi politici delle principali forze politiche, si ha quasi l’impressione che alcuni tecnici delle istituzioni si premurino di fare l’eco alle comprensibili esternazioni del Ministro dell’Economia volte a tranquillizzare i mercati in merito al problema della gestione futura del nostro Debito pubblico.

Su questa linea sembra situarsi il convegno organizzato l’11 aprile scorso a Roma dal BANCO BPM e dalla Banca Akros riguardante “Le evoluzioni del mercato Italia nella prospettiva della normalizzazione delle politiche monetarie”. La relazione di base, presentata a titolo personale dal Dott. Stefano Siviero, Capo del Servizio Congiuntura della Banca d’Italia, ha analizzato attraverso una simulazione la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico italiano.

Lo studio in parola prende le mosse da un esame della situazione economica attuale, delineando un quadro economico abbastanza realistico: la ritrovata stabilità macroeconomica; il miglioramento della nostra posizione netta sull’estero; l’erogazione del credito in aumento da diversi mesi; le buone prospettive del PIL dell’Eurozona; l’inflazione sotto controllo che converge verso l’obiettivo del 2%; tutti elementi positivi in gran parte condivisibili.

Il punto critico è nelle conclusioni, che vorrebbero essere rassicuranti ma che risultano, invece, non poco inquietanti:L’aumento dei tassi non è di per sé un fattore di rischio, poiché il debito pubblico (in rapporto al PIL nominale) si ridurrebbe anche in presenza di un (forte) aumento dei rendimenti sui titoli di Stato. In altri termini, si afferma che il (forte) rialzo dei tassi di interesse derivante dalla ricalibratura della Politica monetaria della BCE potrà essere gestito senza il timore di eccessivi contraccolpi negativi per la nostra economia, purché si continui a percorrere il sentiero della crescita e del credibile aggiustamento dei conti pubblici.

Le ottimistiche conclusioni sopra descritte sono il frutto di un’elaborata proiezione di lungo periodo, che si fonda su alcune ipotesi di lungo periodo: l’espansione del reddito ad un ritmo annuale medio dell’1,5%; un rendimento dei titoli di Stato convergente verso un tasso reale del 2,50%; un avanzo primario di almeno il 3% del PIL.

Al riguardo, rileviamo che le tre ipotesi assunte, in base alle quali la simulazione proietta dopo 20 anni un rapporto Debito/PIL intorno al 60%, presentano criticità non trascurabili. La prima ipotesi, ossia la crescita del PIL dell’1,5% annuo, è in apparenza abbastanza ragionevole; essa rappresenta, al contrario, il tasso di crescita massimo immaginabile per un sistema, non diciamo bloccato, ma che viaggia con il freno a mano tirato. Freno costituito, oltre che dalla sottrazione dalla Spesa pubblica utile ai fini dello sviluppo, sia dell’avanzo primario, sia degli interessi sul debito pregresso, anche e soprattutto dai mille nodi strutturali irrisolti. Una catena di elementi negativi inseriti in un contesto generale di forze politiche affette da un diffuso sentimento avverso all’establishment”, prive di idee valide ai fini del modello di sviluppo ed incapaci di trovare un orientamento preciso, se non quello di elargire promesse irrealizzabili e destabilizzanti.

V’è inoltre da tener presente l’esperienza storica del nostro Paese, che segnala nel volgere di un ventennio il verificarsi mediamente di almeno 3 crisi di stagnazione ciclica; battute d’arresto in grado di disperdere risorse, valutabili complessivamente intorno a 10-12 punti di PIL, in euro attuali circa 10 Mld l’anno.

Anche la seconda ipotesi, che considera il rendimento medio dei titoli di Stato convergenti verso un tasso reale del 2,50%, appare abbastanza ottimista: nonostante il netto miglioramento in termini di allungamento delle scadenze registrato negli ultimi anni dalla qualità del debito pubblico, rileviamo che già al momento attuale, pur in presenza della massiccia liquidità fornita al mercato dalla BCE, il costo del debito pubblico italiano rasenta l’1% in termini reali (3% in termini correnti). Alcuni analisti del mercato finanziario valutano che il venir meno della liquidità del QE, farebbe lievitare i tassi di interesse reale di almeno 4-4,5 punti percentuali rispetto ai tassi del mercato attuale. Tradotto in euro 2018, ciò assorbirebbe, fin dal 1° anno, un differenziale di risorse superiore a 25 Mld rispetto ai risultati della simulazione.

La terza ipotesi prefigura un avanzo primario del bilancio pubblico intorno al 3% del PIL, vale a dire qualcosa come 54 miliardi per i prossimi 20 anni. In proposito ricordiamo che negli ultimi 6 anni, l’avanzo primario italiano non ha superato la media annuale del 2%. Un punto di PIL in più l’anno di avanzo primario aggiungerebbe alle difficoltà attuali (che già rendono problematico scongiurare l’applicazione delle clausole di salvaguardia concernenti l’aumento dell’IVA), un onere supplementare intorno a 18 Mld l’anno.

La somma degli importi sopra evidenziati, che supera i 50 Mld l’anno (espressa in euro a prezzi 2018), è frutto di un calcolo non proprio ortodosso, ma è pur sempre indicativa della distanza che separa la realtà verosimile dalle ipotesi assunte nella simulazione. Ma prendere a base degli equilibri di prospettiva ipotesi che inglobano una lontananza di questa dimensione rispetto alla realtà verosimile induce a considerazioni fuorvianti circa la sostenibilità del debito pubblico. Per semplicità espositiva, tralasciamo di discutere le simulazioni collaterali che prevedono variazioni nelle ipotesi, le cui risultanze non aggiungono nulla di essenziale alle conclusioni precedenti.

In definitiva, non resta che sottolineare la gravità della situazione del debito pubblico italiano, un problema serio che non va drammatizzato, ma nemmeno sottovalutato. Al riguardo, è utile ricordare che se vogliamo portare il rapporto Debito/PIL dal 132% attuale, verso quozienti più ragionevoli, diciamo al 90%, occorrerà riassorbire nel giro di 20 anni (pur tenendo conto della crescita del PIL, e dell’aumento naturale delle entrate e delle spese pubbliche) un volume di debito pregresso compreso tra i 600 e i 700 Mld, vale a dire una media di 30-35 Mld l’anno che andrebbero ad aggiungersi ai disavanzi correlati agli equilibri attuali.

Il Ministro dell’economia fa il suo mestiere quando tende a tranquillizzare i mercati dichiarando:La fine del QE non ci deve spaventare, anche se ci pone nuovi obblighi;….è possibile vivere in un mondo con tassi d’interesse più alti; …. i mercati guardano con attenzione se i Paesi continuano a fare le riforme…. in un contesto di stabilità politica”. Tuttavia, è utile tener presente che esercizi tecnici un po forzati volti a tranquillizzare il mercato risultano spesso controproducenti e, comunque, rischiano di rendere opaca, all’opinione pubblica e agli osservatori politici, la percezione della complessità delle azioni di politica economica necessarie per portare a soluzione positiva alla questione.

Parliamo di azioni di politica economica articolate e lungimiranti, che abbisognano, innanzitutto, della stabilità politica cui accenna Padoan e che si situano su vari piani: dallo scioglimento di alcuni nodi strutturali del sistema economico-finanziario, alla gestione oculata dell’indebitamento da parte del Tesoro; dalla negoziazione in sede Europea di una nuova “road map” di graduale rientro del debito, alla richiesta all’Europa in tema di disavanzo del superamento del “Fiscal compact” per mezzo di ragionevoli margini di flessibilità. Fanno parte di questo complesso mix di azioni anche le iniziative necessarie per ottenere regole europee più cogenti in materia di riciclo dei surplus di bilancia dei pagamenti, come pure la proposta di strumenti europei che, in concomitanza con la ricalibratura della Politica Monetaria da parte della BCE, assumano la garanzia di una parte del debito eccessivo degli Stati membri sottoposti a vincoli.

E’ ormai chiaro anche agli altri Stati fondatori dell’Unione che il nostro Paese non può affrontare da solo il pur necessario processo di riduzione del debito. La nostra economia, per struttura, dimensione, produttività, compattezza politica di supporto, ecc. è molto diversa dal Giappone che riesce a crescere anche in presenza di un rapporto Debito/PIL del 200%. Malgrado i miglioramenti registrati negli ultimi tempi, restiamo un Paese fragile, che, fuori dall’Europa monetaria, esposto a politiche di bilancio men che rigorose, finirebbe ben presto in una serie di rovesci economici, il cui sbocco sarebbe inevitabilmente un “default” tipo Argentina.

A conforto di quanto argomentato in materia di sostenibilità del debito, constatiamo che le ottimistiche conclusioni scaturite dallo studio di cui trattiamo contrastano nettamente con l’opinione del Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde; la quale, a margine dell’incontro di primavera del Fmi tenutosi a Washington il 19 aprile scorso, ha dichiarato: il debito pubblico italiano resta il principale problema tra quelli che minacciano la stabilità economica italiana e dell’Unione Europea.”

 

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