-DI MAURIZIO FANTONI MINNNELLA-
Coloro che, oggi, con ostinazione insistono sull’equazione anti-sionismo anti-ebraismo, non fanno altro che legittimare il cosiddetto “ricatto dell’Olocausto”, secondo cui a un popolo come quello ebraico che ha subito la persecuzione e lo sterminio nazisti, non si possa o si debba imputare alcuna colpa o responsabilità nella pur disastrosa condizione umana in cui versa l’intero popolo palestinese, in particolare quello residente nella Striscia di Gaza (dove attualmente convivono in uno spazio strettissimo almeno 1.800.000 persone). La questione si potrebbe perfino porre tra cittadini ebrei e non ebrei; ed è ciò che propriamente anima l’attuale politica interna di Israele, segnata dal dominio incontrastato della destra di Benjamin Netanyahu e Avigdor Lieberman, il cui inconfessato sogno è quello di uno stato ebraico (Israele, di fatto lo è già) interamente popolato da cittadini di origine ebraica. E’, infatti, la demografia, come rileva Sergio Della Pergola in un suo ben documentato studio (Israele Palestina la forza dei numeri Il conflitto Mediorientale fra demografia e politica, 2007) il timore assoluto del superamento numerico, l’ossessione strategica d’Israele, un paese democratico, evoluto, di stampo europeo, high-tech, conficcato nel cuore del mondo arabo, tra il Mar Mediterraneo e il deserto. Un magnifico paradosso: riportare indietro la Storia al mito della Terra Promessa (Eretz Israel) dentro un’epoca tecnologica e una geografia mediorientale popolata dalle tribù arabe di Palestina!. E’ il vecchio sogno sionista di Theodor Herzl (1860-1904) e di Ben Gurion (1886-1973), che ebbe un prezzo molto alto per la sua realizzazione. Oggi la presenza illegale (secondo le disposizioni dell’Onu) di colonie ebraiche (settlements) in continua crescita all’interno dei Territori Occupati (Cisgiordania), vere e proprie “metastasi” nel territorio palestinese che avrebbe dovuto costituire, un giorno non troppo lontano nel tempo, il futuro stato di Palestina, non può che accrescere la difficoltà e il disagio della sua gente e insieme, allontanarne sempre di più la speranza di realizzazione. La figura del colono, quasi sempre omologa a una politica nazionalistica di destra, non è che il cavallo di Troia d’Israele, lo strumento governativo efficace di destabilizzazione di un intero popolo, generatore di un vero e proprio regime di apartheid (non si dimentichi che Israele fu tra i pochi stati sovrani a sostenere economicamente e politicamente la politica razzista del Sudafrica!) che tutt’ora regna in molte aree della Cisgiordania. Un dato politico, questo, riconosciuto perfino dal grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua, solitamente incline a tenersi su posizioni più moderate. Vi è, dunque, una semplice differenza tra un colono israeliano in Cisgiordania e un palestinese d’Israele: mentre il primo vi è stato mandato illegalmente per creare un “focolaio” ebraico tra gli arabi, il secondo, invece, in quella terra è nato ben prima della sua stessa fondazione. Si dovrebbe, allora, parlare della questione della ridistribuzione delle risorse idriche, delle frontiere interne (check point) che condizionano, talora anche in maniera umiliante, la vita quotidiana di migliaia di persone, delle comunicazioni (esistono, infatti, strade a tre-quattro corsie riservate alle colonie e strade più modeste e scomode concesse ai palestinesi), delle prospettive di vita (decisamente più basse nelle città palestinesi, si metta a confronto l’antica Nazareth con la colonia ad essa sovrastante di Nazareth Illit) e, più in generale, dei diritti. Commette, invece, un imbarazzante errore lo stesso Yehoshua quando sostiene che a Gaza, la completa evacuazione di 21 insediamenti israeliani, avvenuta nel 2005 e voluta dall’allora presidente Ariel Sharon, fosse quasi una vittoria palestinese. Ma quale vittoria? Il fatto di trovarsi oggi, completamente accerchiati da Israele, di non potere disporre della propria libertà di spostamento all’esterno? Nella Striscia, la legittima vittoria elettorale della formazione politica islamista di Hamas, ritenuto da Israele un gruppo terrorista, pertanto perseguibile con ogni mezzo, ha, di fatto, fornito il pretesto per colpire indiscriminatamente, dal 2009, anno della cosiddetta “Operazione piombo fuso”, che costò la vita a oltre 1400 palestinesi, postazioni militari e abitazioni civili portando ovunque morte e distruzione. Oggi, nonostante Gaza sia ritenuta dalle Nazioni Unite e dagli osservatori internazionali una tragedia umanitaria, Israele prosegue indisturbata la sua politica di aggressione come dimostrano i fatti recenti. Anche l’ipotesi, da più parti sostenuta, di uno stato per due popoli nel tempo è venuta progressivamente assottigliandosi in questo moderno scontro di civiltà in cui l’una, più debole, soccombe all’altra ben altrimenti più potente e organizzata (uno stato riconosciuto contro un’entità statuale). In tale prospettiva conflittuale e di dominio incontrastato di una parte sull’altra, quale che siano i reciproci limiti e colpe, un unico stato sarebbe impossibile proprio per la sostanziale difficoltà, ma potremmo dire impossibilità (poiché attualmente, le forze che mirano alla destabilizzazione e non alla pace sono decisamente maggioritarie) da parte d’Israele di riconoscere una totale parità di diritti per entrambi i popoli. E dispiace, inoltre, constatare come in Italia, ad esempio, un’associazione come Anpi non abbia mai superato il cosiddetto tabù delle vittime e, dunque, preso le distanze dalla peggior politica israeliana, non avendo forse ben presente la differenza tra il rispetto dell’identità storica della cultura ebraica e del suo popolo vittima dell’Olocausto e una legittima quanto necessaria critica alla politica israeliana. Ci vengono, infine, incontro le parole di un altro grande scrittore israeliano David Grossman che nel sostenere che il proprio paese è una fortezza che fatica ancora a diventare una casa, scrive: “…Ma quando Israele conquista e opprime un altro popolo per cinquant’anni creando una realtà di apartheid nei territori occupati, questo posto diventa meno casa. E quando il ministro della difesa Liebermann cerca di impedire ai palestinesi sostenitori della pace di presenziare a un incontro come il nostro, Israele è meno casa. Quando cecchini israeliani uccidono decine di manifestanti palestinesi, perlopiù civili, Israele è meno casa. (…….) Israele ci ferisce…”(la Repubblica 19-4-2018).