Sull’aborto e quel manifesto “pro vita”: riflessioni di una giovane donna

-di GIULIA CLARIZIA-

Qualche giorno fa a Roma si è riacceso il dibattito in merito all’aborto a causa di un manifesto del movimento Pro Vita esposto in via Gregorio VII.

Come è noto, il manifesto raffigurante l’immagine di un feto di 11 settimane è stato fatto rimuovere da Roma Capitale dopo le numerose proteste di chi si è sentita offesa o turbata dall’immagine e dal suo contenuto verbale.

Infatti, il manifesto dava alcune informazioni riguardo la condizione del feto in quello stadio, cioè il fatto di avere gli organi formati, il cuore che batte e la capacità di ciucciarsi il pollice, e aggiungeva “Ora sei qui perché la tua mamma non ti ha abortito”.

La controparte ha accusato la giunta capitolina di aver violato la libertà di espressione. Peccato che il Regolamento in materia di pubbliche affissioni del Comune di Roma vieti “esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto di diritti e libertà individuali”. I Pro Vita si difendono appellandosi alla verità scientifica del contenuto del manifesto.

Ad una prima e superficiale riflessione, ammetto di aver pensato che effettivamente, finché le informazioni date sono veritiere, in fondo, nel darle, non c’è niente di male. Ho trovato quindi di cattivo gusto lo slogan finale, ma non mi sono sentita turbata dall’immagine e dalle sue didascalie.

Poi ho riflettuto sul serio. A me queste cose non turbano perché non ci sono passata. Non ho mai abortito, né mi sono dovuta mai porre il problema di prendere una decisione di questo tipo.

Al contrario, sono davvero qui perché “mamma non mi ha abortita”. Al secondo mese di gravidanza, a mia madre è stato consigliato l’aborto a seguito di una grave crisi emorragica che avrebbe potuto metterla in pericolo. Conserva ancora la ricetta della prescrizione della terapia abortiva in una scatola. E io invece sono qui. È una bella storia, ma è bella perché è stata il frutto di una scelta.

Quello che i signori e le signore di Pro Vita dimenticano, è che esistono donne che soffrono a causa di una decisione presa dolorosamente ma che -attenzione- non sono “pentite”.

Quanto alla verità scientifica: è vero che immagini del genere sono riscontrabili tranquillamente sui libri di testo, o in rete, o esposte in alcuni musei (ricordo la mostra Body World, dove erano presenti svariati feti nei diversi stadi della gravidanza), ma c’è modo e modo, luogo e luogo.

Stando a queste motivazioni, potremmo affiggere un bel manifesto raffigurante un grosso membro maschile con scritto “Sei qui perché questo ha funzionato bene!”. Scientifico al 100%, non metterebbe in discussione le scelte di nessuno, eppure sarebbe impensabile perché contro il buon costume. Invece infilare il dito nella piaga di una donna che magari ha dovuto abortire per non dare alla luce un figlio che voleva, ma che sarebbe nato con gravissimi problemi, secondo alcuni non solo è legittimo, ma anche un’opera di bene.

C’è chi potrebbe obiettare che un conto è l’aborto terapeutico, un conto l’aborto preso per motivi di altra natura psicologica e personale. Eppure, anche per quanto riguarda il primo caso, trovare un ospedale a Roma che non si dichiari obiettore di coscienza è un’impresa. Quand’anche lo si trova, capita che le pazienti siano trattate in maniera sbrigativa e inadeguata. Semplice mala sanità?

La realtà è che viviamo in una società di saccenti egoisti in cui molti si sentono legittimati a sentenziare sulle condizioni altrui. Sarà anche bello difendere la vita, per carità, ma non facendo violenza psicologica o volendo privare gli altri della libertà di scelta. Anche se poi, se pensiamo che negli Stati Uniti ci sono persone che assalgono le donne che entrano nell’unico centro per aborti presente sull’intero territorio di uno stato come il Mississippi, noi siamo a cavallo.

 

giuliaclarizia

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