–di FRANCO LOTITO-
Da tempo aveva scelto di essere sepolto nel piccolo cimitero di San Patrignano, vicino alla comunità fondata da Vincenzo Muccioli per il recupero dei giovani tossicodipendenti, che tanto aveva amato e dove amava rifugiarsi tutte le volte che poteva. Gian Marco Moratti ora riposa lì sulle colline riminesi.
Era nato a Genova 81 anni fa e mentre frequentava gli studi per prendere la laurea in Legge e Giurisprudenza, suo padre – Angelo – era alacremente al lavoro per costruire quella che poi è diventata l’azienda-leader nel settore della raffinazione del petrolio. L’Italia dei primi anni ’60 è un Paese che cresce impetuosamente in cui il nome dei Moratti fa presto ad entrare in risonanza con quelli di Enrico Mattei che sta dando all’ENI le dimensioni di un colosso internazionale nel campo della ricerca e dell’estrazione di petrolio, e di Vittorio Valletta che fa della FIAT il soggetto industriale dominante dell’economia nazionale.
La Saras che viene costruita a Sarroch in Sardegna nel 1962 e l’Inter dei grandi successi calcistici degli anni sessanta sono i due gioielli più preziosi di cui la famiglia Moratti è proprietaria. Mentre le raffinerie di Moratti girano a pieno ritmo e provvedono a soddisfare senza problemi il fabbisogno di carburante per un parco-vetture nazionale che negli anni ’60 sta letteralmente esplodendo, la squadra di Facchetti, Mazzola ed Elenio Herrera vince scudetti e coppe internazionali.
I Moratti sono una famiglia unita, ricca e potente; così la vuole Angelo, il suo patriarca ed a Gian Marco, il suo primogenito ne trasmette i caratteri, i valori, il controllo della grande ricchezza patrimoniale ed il comando dell’azienda e delle attività che l’hanno generata.
Gian Marco Moratti ha 45 anni quando muore suo padre, lasciando nelle sue mani le redini di tutto. E’ il 1981. Imprenditore ricchissimo, eppure figura sobria e riservata nel paesaggio di un capitalismo troppo spesso incline ad una mondanità chiassosa ed esibizionista. Sempre lontano dai riflettori della ribalta mediatica, coltivava il suo impegno umanitario sforzandosi di guardare verso chi aveva bisogno di sostegno e solidarietà umana. Due anni prima egli ha modo di incontrare Vincenzo Muccioli. Se ne fa promotrice la sua seconda moglie, Letizia, che negli anni successivi avrà ruoli di primo piano nella vita politica come ministro della Repubblica, come presidente della RAI e come sindaco della città di Milano.
Quell’incontro con il fondatore della comunità salderà subito un rapporto di stima profonda reciproca dalla quale Gian Marco ricaverà la spinta per materializzare il suo impegno sociale. Insieme a Letizia, comincia a frequentare San Patrignano e la sostiene economicamente. Ma di quella comunità di giovani che lottano contro la schiavitù della droga, se ne innamora, al punto da trascorrervi quasi tutto il tempo che gli lascia libero il suo impegno manageriale. Con quei giovani passa le sue giornate, siede a tavola con loro, confutando così esemplarmente i pregiudizi sanitari nei confronti delle malattie da immunodeficienza che spessissimo fanno tragica compagnia alla tossicodipendenza. Un testimone d’eccezione come Giorgio Benvenuto – anch’egli convinto sostenitore della filosofia del “recupero” e frequentatore della Comunità di Vincenzo Muccioli – rivela la naturale modestia del personaggio. Non di rado è egli stesso, insieme alla moglie a servire a tavola.
Per il “petroliere” e per il “sindacalista” San Patrignano diventa il luogo di un dialogo sui valori che mette sullo sfondo i rispettivi ruoli di rappresentanza. Ancora negli anni ’80 l’impresa e il lavoro sono i protagonisti di una dialettica che occupa pressoché per intero il discorso politico sulla società e l’economia. Ma San Patrignano sembra essere lì a testimoniare l’esistenza di uno spazio nel quale prendono corpo i nodi di una cittadinanza piagata da nuove sofferenze di cui l’esplosione del fenomeno della droga ne costituisce una drammatica manifestazione. Moratti lo fa sostenendo generosamente e discretamente l’avventura di Vincenzo Muccioli; e il mondo del lavoro?
Forse è quel contesto che suggerisce al Segretario Generale della UIL i primi elementi di un nuovo approccio al ruolo generale di cui il sindacato deve farsi carico spostando il baricentro della sua azione di tutela dal luogo di lavoro alla cittadinanza. E’ il 1985 e Gian Marco e Letizia Moratti diventano testimoni discreti di una iniziativa sindacale inedita.
La categoria dei lavoratori della Sanità della UIL, con l’adesione entusiastica di Giorgio Benvenuto, decide di celebrare il suo congresso nazionale a San Patrignano, insieme alla comunità di Muccioli. In altra parte del Blog ne da un ricordo appassionato Carlo Fiordaliso, che della categoria, all’epoca, era Segretario generale.
Anche questo era San Patrignano per Gian Marco Moratti: luogo di incontro, di dialogo, di prossimità agli sconfitti di una società che cominciava a plasmare i suoi valori sull’aspettativa di una competizione sociale esasperata che abbrutiva la realtà fino a suggerire ai più deboli la via di fuga della droga. Appena poteva era lì che si rifugiava, lontano dai riflettori e dalla ribalta mediatica che lasciava volentieri al suo fratello più piccolo. In una delle rare interviste rilasciate alla stampa ebbe a dire: “Ho parlato il meno possibile ed ho vissuto bene”.
Si può dire che la sua esperienza di vita si è mossa lungo i lati di un triangolo ideale ai cui vertici egli collocava le sue tre grandi passioni: l’azienda, che ha saputo tenere saldamente nelle mani della famiglia, l’Inter che aveva affidato alla presidenza del fratello e l’impegno sociale, di cui San Patrignano ne era l’espressione più alta. Andava a Sarroch in Sardegna per favorire lo sviluppo delle raffinerie della Saras; era a Milano per curare gli interessi ed il patrimonio della famiglia e per tifare per la sua Inter. Ma ha scelto il piccolo cimitero sulle colline riminesi come ultima dimora, perché forse era lì, in mezzo alla sofferenza di quei giovani umiliati dalla tossicodipendenza, che ritrovava, il senso della realtà.