Il libro e la data: quando la scala mobile c’era e divideva

 

Da 1984 il 14 febbraio non è più solo la festa degli innamorati, ma anche l’anniversario di un “divorzio”. Al tavolo del governo che per raffreddare l’inflazione proponeva un taglio di 4 punti di scala mobile (che poi divennero tre perché la scadenza del provvedimento venne dimezzata), i sindacati si divisero: da un lato la Cisl e la Uil che con due diverse lettere (ma identiche nel contenuto) “autorizzarono” Bettino Craxi al varo del decreto; dall’altro la Cgil che attraverso la componente maggioritaria comunista diede mandato a Luciano Lama di rispondere con un secco rifiuto. I socialisti della confederazione, guidati da Ottaviano Del Turco, si dissociarono e l’anno successivo, in occasione del referendum abrogativo promosso dal Pci, fecero campagna elettorale per la conferma del provvedimento.

Il divorzio di San Valentino” è il titolo del libro che uno dei protagonisti di quella vicenda, Giorgio Benvenuto, allora segretario generale della Uil (oggi presidente della Fondazione Pietro Nenni e della Fondazione Bruno Buozzi) insieme ad Antonio Maglie, ha scritto alcuni anni fa e che oggi viene ripresentato in una nuova edizione, arricchita con un saggio di Antonio Agosta sui risultati di quel referendum, e con l’aggiunta di un paio di capitoli e documenti nuovi (ad esempio sulla vicenda Fiat che culminò con la marcia dei quarantamila). A portarlo in libreria ha provveduto Bibliotheka Edizioni.

-di GIORGIO BENVENUTO E ANTONIO MAGLIE*-

Il 14 febbraio 1984 il governo presieduto dal segretario del Psi, Bettino Craxi, varò un decreto che portò al taglio di quattro punti di contingenza. L’obiettivo era quello di riportare sotto controllo un’inflazione che in Italia aveva raggiunto livelli quasi sudamericani, sfondando, qualche anno prima, addirittura la soglia psicologica (ma anche economica) del venti per cento. Quel decreto scatenò una vera e propria guerra a sinistra. Da un lato i socialisti al governo, dall’altro i comunisti all’opposizione. In mezzo, il sindacato, la Uil, la Cisl ma, soprattutto, la Cgil che più degli altri si ritrovava nell’occhio del ciclone per la posizione inflessibile assunta dal segretario generale del Pci, Enrico Berlinguer. Cosa fu quel decreto? Per i critici (cioè i comunisti) un atto di imperio, il prodotto più chiaro della deriva autoritaria del governo Craxi, un intervento senza precedenti. Soprattutto per un motivo: per la prima volta, una scelta di politica economica era stata adottata a prescindere dal consenso (e dal dissenso) del Pci. Ma, soprattutto, i comunisti che sino a un decennio prima avevano consegnato, essendo all’opposizione dal 1947 ed essendo vittime della “conventio ad excludendum” determinata dalla divisione del mondo in due blocchi e dalla Guerra Fredda, la delega alla Cgil a trattare con l’esecutivo queste materie, dopo essere entrati nella maggioranza con i governi della «non sfiducia» e di solidarietà nazionale, avevano deciso che quella delega non poteva più esistere.

Insomma, se prima non si poteva governare contro il Pci, adesso non si poteva governare senza il Pci e quel “succedaneo” rappresentato dalla Cgil non poteva bastare più come ai tempi di Palmiro Togliatti e Luigi Longo. La vicenda così sintetizzata sembra riguardare un piccolo pezzo della storia d’Italia. In realtà tra la sua genesi e il suo epilogo intercorrono la bellezza di dieci anni. Perché tutto comincia con il famoso accordo sul punto unico di contingenza, cioè con la creazione di un meccanismo che affidava in misura crescente agli automatismi l’aumento dei salari finendo per determinare un appiattimento e per non valorizzare adeguatamente le professionalità. Era il 1975 e la soluzione prese, ingiustamente, il nome di accordo «Lama-Agnelli» (ingiustamente perché Lama firmò pur non condividendo appieno il meccanismo: l’ispiratore vero fu Pierre Carniti). L’epilogo si colloca precisamente nel 1985 quando un referendum convocato su iniziativa del Pci che raccolse le firme, confermò, invece, il decreto dando torto ai promotori. Fu un piccolo pezzo di storia dentro, però, una più vasta vicenda economico-finanziaria. Perché, se come qualcuno disse, la scala mobile pretendeva di curare il diabete (cioè l’aumento dei prezzi) con massicce dosi di zucchero (terapia evidentemente inappropriata), bisogna anche aggiungere che contro quel meccanismo in parecchi “tramarono”, per ammissione degli stessi congiurati. Nino Andreatta, ad esempio. Ai governi di Bettino Craxi è stata attribuita la responsabilità di aver fatto impennare il debito pubblico dal 58 per cento del Pil del 1980 al 124 per cento del 1994. Ma il colpo di acceleratore, in realtà, lo diede nel 1981 il Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, che, con l’avallo del governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, decise di non acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti. Più tardi, molto più tardi, il ministro motivò la sua scelta anche con l’intenzione di lanciare un attacco decisivo al «demenziale rafforzamento della scala mobile».

E’ stato forse il decennio più controverso della recente storia d’Italia perché nulla in quel lasso di tempo è stato risparmiato al Paese: gli Anni di Piombo con il punto culminante del Caso Moro, lo stragismo di destra con gli ottantacinque morti della stazione di Bologna; la scoperta della Loggia P2; il rovinoso terremoto in Irpinia; politicamente si passò dai governi sostenuti da tutti i partiti di quello che all’epoca veniva definito Arco Costituzionale (fuori restavano solo i «nostalgici» del Movimento Sociale Italiano) al pentapartito a guida laica (Giovanni Spadolini) e socialista (Bettino Craxi); il primo Presidente della Repubblica «interventista» (Sandro Pertini che intuì come in una situazione politica che impediva l’alternativa, la paralisi poteva essere limitata con l’alternanza); a livello sindacale, la fallita svolta dell’Eur, la Marcia dei Quarantamila e, infine, la rottura di San Valentino e il referendum. E poi il contesto economico nazionale e internazionale: la sospensione della quotazione della lira nel 1976 e la richiesta di un prestito alla Germania che ce lo accordò dietro una sontuosa garanzia in oro; la vittoria del Pci alle elezioni del ’76 e il contemporaneo deprezzamento della lira con un utile in termini di competitività delle aziende che fece aumentare il Pil del 6,6 per cento; quindi nel ’79 un nuovo choc petrolifero dopo quello del ’73 con l’impennata dell’inflazione verso quota 20 per cento e la proposta di predeterminazione degli scatti di scala mobile messa a punto da Ezio Tarantelli.

Le letture, ovviamente, anche a tanti anni di distanza restano diverse. Fausto Bertinotti, all’epoca leader della corrente della Cgil “Essere sindacato”, fino all’85 leader dell’organizzazione piemontese e poi segretario confederale, è il portavoce ancora oggi di un’altra versione dei fatti. Fatti che partono dal ’68-’69 quando irrompono sulla scena sociale lo studente massa e l’operaio comune. Una fase da lui definita “come l’ultima prova in cui il Novecento continua la sua corsa non considerando il capitalismo come la tappa finale”. Un sussulto “con il piombo nelle ali”, cioè la fine traumatica della Primavera di Praga e dell’idea di una riforma dei sistemi dell’Est. Un ’68 che in Italia dura molto più che in Francia perché il sindacato accetta di farsi contaminare da quel movimento e facendosi contaminare vara l’unica riforma sociale di questo paese, il sindacato dei consigli dove vige la democrazia diretta, consolidando in quel periodo grandi conquiste: lo stato sociale, lo Statuto dei lavoratori che consente alla “democrazia di varcare i cancelli delle fabbriche”, la crescita dei salari (nel ’75 sono i più alti d’Europa).

Ma queste conquiste rappresentano un momento di crisi per il processo di accumulazione. Di qui la controffensiva favorita anche da un clima mutato con l’avvento in Gran Bretagna di Margareth Thatcher e negli Usa di Ronald Reagan che con due vertenze simbolo (i minatori e i controllori di volo) spiegano che è finita la fase della contrattazione. In Italia la situazione di blocco fa emergere proposte di compromesso, quello “storico” di Berlinguer e quello più elaborato e complesso di Aldo Moro. Si allinea su questa strada anche il sindacato con la proposta dell’Eur che a parere di Bertinotti trova la perfetta illustrazione in una immagine delle organizzazioni dei lavoratori fornita da Bruno Manghi: “Decrescere crescendo”: il sindacato cede potere contrattuale per irrobustire la sua posizione istituzionale. In questa ricostruzione bertinottiana la conclusione è semplice: la concertazione interpretata come uno strumento perennemente valido conduce il sindacato alla disfatta. La scala mobile finisce sotto accusa. Nel sindacato la democrazia viene meno, torna a crescere il ruolo delle Confederazioni. Il tutto accompagnato da una accentuazione autoritaria con Craxi che “interpreta questo nuovo corso”. Una spinta che comincia allora ma prosegue, sottolinea Bertinotti, sino ai giorni nostri. Il conflitto viene messo in mora, il salario deve rispettare le compatibilità economiche, le decisioni devono essere veloci. A questa deriva si oppone “quel che resta di un popolo”. E si oppone Berlinguer nel momento in cui comprende che la partita è persa e che la controparte chiede una mutazione genetica per favorire l’ integrazione nel sistema. A quel punto, il segretario del Pci si chiama fuori “torna alle radici con una certa indifferenza per il risultato ma in ragione di un primato etico-morale” della memoria. La sintesi finale è: “Meglio una sconfitta combattendo per le ragioni per cui sei nato, piuttosto che la rinuncia a farlo per essere riconosciuti da una società a cui si chiede di essere integrati”. Per Bertinotti “le ragioni di quella battaglia furono falsificate”. Perché? Perché quell’accordo non ha aperto spazi alla contrattazione aziendale né ha aumentato il potere contrattuale del sindacato: “Lo scambio è stato iniquo”.

Al di là delle polemiche e delle differenti interpretazioni e ricostruzioni, quel decreto fu, però, lo strumento attuativo di un accordo sindacale a cui una parte (l’ala comunista della Cgil) non aderì. Ma è incontestabile che il provvedimento sia stato il prodotto di un negoziato lungo, complesso, difficile, che ha determinato una divisione con indubbie conseguenze sull’evoluzione dei rapporti tra le Confederazioni. Tutta l’impalcatura unitaria che era nata con le lotte dell’Autunno Caldo (dalla Federazione Lavoratori Metalmeccanici alla Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil) venne giù come un castello di carta, investita dallo tsunami degli interessi di parte, soprattutto politici. Sembrava una rottura irrimediabile. Invece, non fu un addio perché le Confederazioni, dopo aver celebrato un paio di feste del lavoro separatamente, ritrovarono le ragioni (o almeno una parte) dell’unità d’azione nelle cose da fare, negli interessi da difendere, nelle battaglie da combattere (ad esempio, quella per un fisco giusto).

La vicenda è stata in qualche maniera rimossa perché rappresenta per tutti, per i sindacati e soprattutto i partiti di sinistra, un nervo scoperto. Ma lo è anche per la Confindustria che in quella vicenda usò la stessa «doppiezza» che di solito veniva contestata ai comunisti. A volte, d’altro canto, gli estremi si toccano. E, come dice la fisica, gli analoghi si respingono perché quel sanguinoso duello tra partiti che facevano idealmente riferimento ai lavoratori è quanto di più incongruo la storia italiana potesse mettere in scena. In questi anni, in realtà, sull’argomento molto è stato detto e molto è stato scritto. Ma le varie testimonianze si sono disperse in mille rivoli senza mai trovare l’alveo di un fiume unitario di analisi. Ora che le passioni si sono placate, che molti dei protagonisti non ci sono più e che il panorama politico italiano non riconosce più nessuno dei partiti dell’epoca, provare a meditare su quel che avvenne può essere utile. Non tanto per uno sforzo mnemonico, quanto per provare a fornire risposte a un futuro che appare oggi decisamente più complesso di quanto non fosse allora. I problemi che diedero vita a quella sorta di “guerra dei mondi” sono diventati elementi stabili di un lascito ereditario che viene trasmesso da una generazione all’altra di italiani.

E come le ricchezze accumulandosi nel tempo diventano sempre più consistenti, allo stesso modo i nodi della nostra società sono diventati sempre più intricati. I quesiti odierni sono così complessi che lo scontro di allora finisce per ispirare una certa tenerezza: per fronteggiare la tempesta in un bicchiere d’acqua, abbiamo perso di vista la bufera perfetta che già montava fuori dalla nostra porta e che avrebbe portato di lì a poco al crollo del Muro di Berlino, alla disintegrazione dell’Urss, alla fine del mondo diviso in blocchi e del famoso “equilibrio del terrore”, il terrore atomico si intende.

Questo libro non è un’ esercitazione memorialistica. Certo, ci sono le memorie anche perché uno dei due autori, Giorgio Benvenuto, è stato di quelle vicende uno dei principali protagonisti, le ha vissute dall’inizio alla fine. Non è un libro di storia ma di ricostruzione storica nel senso che prova a descrivere gli avvenimenti facendo parlare chi li ha vissuti (chi non c’è più ha lasciato libri, interviste, discorsi). Non possiamo garantire sull’oggettività. Possiamo, però, garantire sull’onestà intellettuale che è un punto di riferimento più sicuro. Spesso si è detto e scritto che la storia, alla fine, la fanno i vincitori pertanto non può che essere di parte. Ai vinti resta, invece, come diceva Jorge Luis Borges (che in realtà si riferiva ai colonizzatori e ai colonizzati) la «vendetta» di «civilizzare» i vincitori. Vorremmo che questo sguardo retrospettivo venisse utilizzato per capire quel che siamo perché, in realtà, non siamo cambiati, siamo sempre gli stessi, con le nostre virtù. Purtroppo anche con il nostro notevole carico di vizi. Gaetano Arfè, nel raccontare ai giovani cosa fu il Partito d’Azione, parlando di Ferruccio Parri, ricordava: «Con la malinconica e sottilmente amara ironia che gli era propria mi disse una volta: “Io sono un conservatore disperato perché non trovo molto che meriti di essere conservato”». La “carenza” denunciata da Parri nel tempo non è stata colmata.

Mezzo secolo fa, Riccardo Lombardi, celebrando il 1° maggio a Torino, diceva: «Ricorderete il motto di Einaudi alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando identificava una forma di democrazia economica con la libertà del consumatore: era il consumatore che col suo acquisto giorno per giorno deponeva un bollettino di voto democratico… La situazione oggi è diversa. Sotto l’impulso di due elementi fondamentali che hanno caratterizzato la società moderna nel secolo scorso e soprattutto nel secolo in cui viviamo, vale a dire la democrazia politica e la forma sindacale, il vecchio capitalismo che tendeva esclusivamente all’accumulazione, si è modificato, è stato costretto dalla pressione dei sindacati, che hanno contestato la riduzione dei salari, e dalla democrazia politica che ha immesso nel corpo sociale la pratica ormai generalizzata delle spese sociali, a lasciare la presa su una quota sempre più rilevante di reddito destinata all’investimento e a trasferirla ai consumi». La situazione, mezzo secolo dopo, ha provveduto a smentire il generoso ottimismo di Lombardi. Nel 1974 le diseguaglianze nella distribuzione del reddito nel nostro paese calarono del 10 per cento. L’Ocse invece ci spiega oggi che negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2011, il 10 per cento più povero della popolazione italiana ha subito un calo del 4 per cento del reddito, il 10 per cento più ricco solo dell’uno e che il tasso di povertà nel 2013 rispetto al 2007 è salito di quattro punti, un’enormità.

L’accumulazione dei tempi di Lombardi, quella legata all’attività industriale, quella “produttivista” si è bloccata venendo sostituita dall’accumulazione finanziaria che ha prodotto effetti perversi a livello di occupazione e distribuzione della ricchezza per completare, poi, l’opera deflagrando nella crisi più grave che gli uomini di questo secolo e, probabilmente, anche del secolo scorso, abbiano mai conosciuto. Impegnati a discutere su quattro punti di contingenza, i partiti italiani non riuscirono a cogliere la trasformazione in atto, una trasformazione che, come dice Luciano Gallino (e come conferma Joseph Stiglitz), ha determinato inaridimento dei diritti e compressione dei salari utilizzando due semplicissime leve: globalizzazione e delocalizzazione; trasformando la terza rivoluzione industriale, quella della comunicazione, nel cavallo di Troia di un capitalismo sempre più diseguale. In quel lontano 1984 si parlava di difesa del salario reale attraverso la lotta all’inflazione. Adesso, invece, bisognerebbe parlare di recupero del potere d’acquisto. Perché, di fatto, i salari sono fermi più o meno da vent’anni e le lancette del potere d’acquisto per i lavoratori dipendenti nel nostro Paese sono tornate indietro di un quarto di secolo: non è certo colpa del destino cinico e baro se la domanda interna non cresce o cresce poco. Negli anni in cui i salari non aumentavano, con il credito alla famiglie (generosamente dispensato dalle banche) si “curava” in qualche maniera il nanismo. Ma era un palliativo non una terapia, era l’aspirina non l’ormone della crescita. Ora che il vaso di Pandora si è rotto, il problema è davanti a tutti: con questi salari, la domanda interna boccheggia. E non può fare altro. Il fatto è che tutto quello che sta accadendo non era imprevedibile.

Fra il 1976 (cioè un anno dopo il famoso accordo sul punto unico) e il 2006 (cioè l’ultimo anno prima della bolla immobiliare esplosa nel 2007 e deflagrata in tutta la sua potenza nel 2008) nei paesi Ocse la quota di Pil destinata ai salari è crollata dal 67 al 57 per cento. In Italia è crollata un po’ di più: dal 68 al 53. Sono stati introdotti i contratti a tutele crescenti ma nel frattempo nuotiamo in un mare di voucher da dieci euro lordi (7,50 netti): nel 2015 ne sono stati venduti 115,1 milioni, il 66 per cento in più rispetto al 2014, per remunerare 1,4 milioni di connazionali. A livello di lavoratori poveri non siamo sulle grandezze della Germania (20 per cento del totale degli occupati) ma siamo sempre attestati su un poco sostenibile 17 per cento. Abbiamo ormai circa quattro milioni di lavoratori precari che in media guadagnano il venti, trenta per cento in meno dei colleghi non precari che pure non nuotano nell’oro. Abbiamo quasi tre milioni e mezzo di disoccupati e se a questo esercito aggiungiamo i connazionali che hanno rinunciato a cercare lavoro arriviamo a sei milioni di persone costrette a girarsi i pollici. Le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dicono che nei prossimi dieci anni se non vogliamo che il mondo esploda sulla bomba sociale della disoccupazione, bisognerà creare qualcosa come un miliardo e duecento milioni di posti: dove crearli e come crearli è un rebus di complicatissima soluzione. Trent’anni fa il mondo (il nostro piccolo mondo) sembrava ruotare intorno a quattro punti di contingenza, ai decimali che la Confindustria non voleva pagare, al recupero del “taglio” che i comunisti (anche quelli della Cgil) reclamavano a gran voce. Adesso, la questione è decisamente più ampia. Da un lato una disuguaglianza che non rappresenta soltanto una offesa alla dignità umana ma che finisce per essere un morbo che può uccidere la società occidentale nella forma e nella dimensione in cui l’abbiamo conosciuta negli ultimi cinquanta, sessant’anni; dall’altro una disoccupazione che chiede soluzioni ma finisce per scontrarsi con una società che non crea posti di lavoro ma distrugge lavori.

La sfida oggi è più alta e rischiosa. Anche affascinante. Ma occorre uno sforzo di creatività notevole e una proposta politica che rifuggendo dalla retorica riesca a offrire una “visione di Futuro”, l’immagine di un mondo se non nuovo, almeno rinnovato. L’inflazione era il Problema; in trent’anni la realtà si è capovolta: oggi la deflazione è uno dei problemi, uno dei più gravi, tanto da mobilitare l’impegno della Bce per combatterla. La decrescita può essere anche “conviviale” o “felice” come ci dice Serge Latouche, nel frattempo, però, si vedono in giro pochi disoccupati che brindano all’evento della mancanza di lavoro (e di sostentamento) stappando bottiglie di Dom Perignon. Siamo il Paese con i salari netti più bassi, la tassazione più alta e gli orari di lavoro più lunghi (di trecento ore rispetto alla media europea, di quattrocento rispetto a quelli tedeschi).

Stiglitz spiega da tempo che il Pil non è un misuratore affidabile del benessere: se produci e vendi armi il Prodotto Interno Lordo aumenta, ma può considerarsi baciata dal benessere una società che si regge sull’equilibrio del terrore o sui profitti delle guerre? E, comunque, il disagio accanto alle conseguenze sul conto in banca (o sul “rosso” in banca), produce contraccolpi sui rapporti umani, sulle relazioni interpersonali, sui “modelli di vita”. La sintesi di questa crisi più ampia l’ha offerta Pierre Carniti: «La società del lavoro si è trasformata nella società del consumo, l’ordine dell’egoismo individuale ha avuto il sopravvento sull’ordine della solidarietà». Concetto che riecheggia in qualche misura un pezzo di quella teoria della liquidità elaborata da Zygmunt Bauman: la nostra Polis non è più abitata da cittadini responsabili ma da consumatori soddisfatti. Questi ultimi sono quelli che appaiono nelle pubblicità di mulini più o meno bianchi, sulle copertine delle riviste patinate, negli studi televisivi; che hanno trasformato Internet in un grande e freddo supermercato, consumo per il consumo senza nemmeno il fastidio del confronto interpersonale. Si finisce per esistere se si è “oggetti del consumo” o “esempi di consumo”, modelli di “uno stile di vita” tanto accattivante quanto improbabile da raggiungere per chi può contare solo su un reddito fisso. Riecheggia come una profezia insoddisfatta quel “diversamente ricchi” che tanti (ormai troppi) anni fa prospettava Riccardo Lombardi. Non è l’uomo che ha cambiato l’ordine dei bisogni, ma i bisogni che hanno precipitato l’uomo nel disordine e nella insoddisfazione. San Valentino è, nella sostanza, la foto ingiallita di un album di ricordi. Ma può sempre essere un momento concreto della nostra vita se si trasforma nello stimolo per andare oltre le apparenze, per provare a recuperare quel che si nasconde sotto la superficie. San Valentino può essere utile alla sinistra italiana per riflettere su se stessa, sulla sua atipicità, sul rifiuto di aderire (nella sua totalità) a quell’ideologia socialdemocratica che è il riferimento strutturale dei partiti progressisti in Europa. Con la conseguenza che ancora oggi la sinistra in Italia non ha una identità di tipo “continentale” e non consente a chi ad essa fa riferimento, come disse negli ultimi anni della sua vita Bruno Trentin, di poter «morire socialisti».

Il sindacato italiano da quella storia uscì cambiato nei suoi connotati. Diviso e anche impaurito. Poteva essere l’occasione per costruire le regole di una vera, consapevole concertazione; al contrario abbiamo assistito alla regressione di governi che l’hanno rifiutata alla radice per produrre, a livello economico, risultati disastrosi; abbiamo partiti (anche di recente conio) e autorevoli personalità politiche che pensano che dei sindacati in una società moderna si possa tranquillamente fare a meno, evocando da un lato forme (false) di democrazia diretta attraverso il web e dall’altro sistemi partecipativi sul modello tedesco che delle organizzazioni dei lavoratori proprio non possono fare a meno. Eppure, in una fase drammatica (una delle tante, si potrebbe dire) che questo Paese ha attraversato, Carlo Azeglio Ciampi, da capo del Governo, ci ha spiegato che se ci sono delle regole, la concertazione come strumento di condivisione delle responsabilità e di ampliamento del consenso (non come consociativismo che si esalta e si è esaltato spesso in Italia nello scambio sottobanco), può essere lo strumento più efficace per raggiungere il traguardo.

Per quanto i sindacati abbiano giocato in difesa, qualcosa di buono, però, da quella vicenda è venuto fuori: un aggiornamento delle strategie determinato dalla consapevolezza che il mondo del lavoro era cambiato, che non ci si poteva più attardare nell’esaltazione di un operaio-massa che non c’era più, che la classe aveva recinti più ampi perché se per classe, come dicono i sociologi, si intende una comunità di destino, ora il destino è comune a gran parte dei salariati e nella società i bisogni di un professore delle medie superiori non sono diversi da quelli di un operaio siderurgico titolare di una busta-paga più o meno analoga. L’elencazione delle richieste è semplice, molto più complessa la loro soddisfazione: una società capace di redistribuire più equamente il benessere, un fisco capace di chiedere a tutti il dovuto (riattivando semmai quei meccanismi progressivi che il liberismo negli ultimi trentacinque anni ha manomesso) per evitare che i costi del vivere insieme si scarichino sui soliti noti (producendo effetti letali proprio su quella distribuzione della ricchezza e dei benefici sottraendo “alimento” finanziario ai servizi collettivi, sanità, istruzione, scuola, eccetera), una sicurezza sanitaria e sociale diffusa, un accesso alla conoscenza garantito e capace di valorizzare le qualità e i meriti. Già allora, in quel 1984, tutto appariva più ampio, così ampio da travolgere limiti e confini. Era la società il luogo in cui cercare una sintesi perché il luogo di lavoro, la mitologica fabbrica dell’Autunno Caldo, non bastava più.

Un problema che si pone ancora oggi. Come si raggiunge il vasto arcipelago dei “non garantiti”? Come si offre l’indicazione di un destino comune a quel fiume impetuoso che si disperde nella società in mille rivoli fatto di precari, titolari di tipologie contrattuali atipiche, di regolamentazioni flessibili? Come si protegge questa sconfinata umanità giovanile che rischia di essere stritolata dalle regole spietate e funeste di un liberismo trasformato nell’unica ideologia sovranazionale sopravvissuta al crollo di tutte le ideologie?

Resta, oggi come allora, la società il luogo in cui cercare le risposte; è il cittadino che chiede tutele nelle sue diverse vesti, non solo in quelle di lavoratore. Una riflessione che è diventata patrimonio di tutto il sindacato anche se forse non ha avuto adeguati sviluppi. Basterebbe rileggere quel che scriveva Bruno Trentin, agli inizi del 1988, rievocando la figura di Giuseppe Di Vittorio in un breve saggio pubblicato su Rassegna Sindacale: «Si tratta di piantare qui la radice di un patto di solidarietà, la ridefinizione di nuovi diritti universali di cittadinanza come diritti al lavoro, all’informazione, alla formazione permanente, alle pari opportunità, alla sicurezza, alla salute e alla tutela dell’ambiente. E si tratta di riconquistare dei diritti universali che non possiamo definire come in passato; o riconsiderare solo alla luce del fatto che intorno alla piccola impresa si sta creando un’area dilagante di negazione dei diritti. Ha un senso, infatti, proporre oggi l’obiettivo dei lavoratori delle piccole imprese, ignorando il grandissimo problema di ripensare anche nella grande e media impresa i diritti di cittadinanza effettivi dei giovani e delle donne? E’ possibile ignorare che nel momento in cui affrontiamo questi problemi si pone appunto l’esigenza di una riunificazione complessiva intorno ad alcuni diritti universali nella pubblica amministrazione, nel settore privato, nel settore dell’impresa minore? Mi domando, cioè, se non siamo di fronte all’esigenza di ridefinire una nuova carta dei diritti per tutti, che davvero identifichi nuovi diritti universali indisponibili».

Questo libro coltiva la speranza di poter fornire alcuni riferimenti storici a una riflessione su quel che siamo e su quel che potremmo essere. La scala mobile oggi non è più un totem, non è più nemmeno un trofeo. E’ solo il momento di una storia che coinvolge la sinistra e il sindacato, che ha diviso, distribuito torti e ragioni, creato inimicizie o costruito nuove amicizie. Ma il fatto che gran parte dei temi economici di quella vertenza (come vedremo nei prossimi capitoli) sia ancora di estrema attualità (fatta eccezione per l’inflazione trasformatasi nel suo opposto, deflazione), è la conferma che l’Italia, pur attraversata da mille tempeste, è rimasta immobile. Anzi, si è mossa ma con il passo del gambero, all’indietro. Oggi l’inflazione non è più un problema ma c’è un’altra percentuale che inquieta il Paese e rispetto alla quale le ricette sono state solo quelle fasulle di una precarietà spinta oltre il limite del tollerabile attraverso la proliferazione di forme contrattuali, la svalutazione del lavoro e la sua trasformazione in una merce come tutte le altre da acquistare a prezzi di saldo e per giunta senza una congrua garanzia. Creatività normativa al servizio del nulla perché come dice un esperto di queste cose, Tiziano Treu, alla resa dei conti sono sufficienti quattro tipologie di contratti: tempo indeterminato, tempo determinato, part time e apprendistato. E ancora: la flessibilità può essere governata e controllata attraverso il negoziato tra le parti ma deve poter contare su un paracadute. Bisogna, insomma, ripensare la flessibilità per disboscare la giungla contrattuale e fornire certezze a quella che si candida a essere la “generazione perduta”; bisogna rivedere il welfare perché da un lato non è accettabile che si spendano tanti soldi per non fare lavorare la gente (meglio investirli per creare opportunità di impiego) e dall’altro è intollerabile che chi più degli altri è esposto al rischio di temporanei periodi di disoccupazione (e i precari lo sono) non possa al momento contare su sostegni economici che attenuino il disagio. Se il liberismo sfrenato ha portato il suo attacco al cuore dello Stato sociale, il riformismo deve puntare a rilanciare lo stato sociale rivendendone l’articolazione, adeguandolo a un mondo produttivo che non è più quello di mezzo secolo fa fondato sull’industria, ripulendolo dalle incrostazioni burocratiche, rendendolo più semplice e accessibile (per chi è in difficoltà), creando le condizioni per l’eliminazione degli sprechi. Soprattutto facendo pagare chi più ha e chi ha più lucrato in questi anni.

E poi bisogna smetterla di alimentare questa inutile, improponibile, autodistruttiva guerra generazionale che viene giocata attaccando pensioni e, soprattutto, pensionati, non per aiutare i giovani a trovare un futuro, ma per realizzare una delle ossessioni (l’altra è l’annientamento del servizio sanitario nazionale) dell’ultraliberismo trionfante, cioè l’abolizione di una vecchiaia dignitosa e al riparo dalle incertezze, per quanto possibile. Ossessioni che non hanno motivazioni semplicemente ideologiche, fondandosi, al contrario, su interessi estremamente venali, economici, meglio ancora, finanziari: trasferire al privato il lauto affare della previdenza sociale, per lucrare profitti più che per garantire protezioni. Al di là delle distorsioni del sistema che vanno individuate con serietà (non con demagogia e populismo) e “curate”, la stragrande maggioranza di chi va in pensione non si appropria indebitamente di un privilegio ma esercita legittimamente un diritto che non solo ha conquistato con decenni di lavoro, ma anche “acquistato” versando (e facendo versare ai datori di lavoro) congrui contributi. Siamo quasi un mondo a parte. Perché se in diversi paesi dell’Unione Europea i pensionati godono di condizioni fiscali di favore, in Italia vengono annichiliti da un trattamento apertamente sfavorevole (come testimoniano le varie leggi finanziarie o di stabilità varate negli ultimi anni) che li porta a versare nelle casse statali più di quanto non versi un lavoratore in attività. Un esempio di vero e proprio “accanimento impositivo”.

Eppure la tutela previdenziale è un elemento fondamentale del “modello sociale europeo”, è un pezzo del dna della sinistra di governo. Ma anche della destra di governo visto che i primi esperimenti in materia risalgono addirittura a Otto von Bismarck e che il nuovo welfare britannico nacque da una “illuminazione” di Winston Churchill e da un rapporto dell’economista conservatore, William Beveridge. Pensare che si creino posti di lavoro “perseguitando” gli anziani, spingendoli sempre di più verso la soglia della povertà, declassandoli a soggetti inutili, passivi e parassitari, alimentando risentimenti generazionali, è sbagliato non solo per elementari motivi etici, ma anche per questioni prettamente pratiche: se la mamma dei bischeri è sempre incinta, di conseguenza bischeri si può essere a sessanta come a vent’anni, l’utilità sociale, insomma, non ha nulla a che vedere con i dati anagrafici indicati sulla carta di identità; se l’Italia ha attutito gli effetti perversi della crisi il merito è di un welfare familiare che consente agli ultratrentenni senza “posto fisso” di poter usufruire di un tetto e di un vitto garantito da mamma e papà (e questo discorso vale soprattutto per i precari che, al contrario, dallo Stato, lo stesso Stato che sembra avere in odio i pensionati, sono abbandonati); se il disagio sociale non si è trasformato in rivolta sociale la ragione va ricercata nel fatto che i licenziamenti di massa per motivi economici (ben oltre quelli individuali prefigurati da Elsa Fornero) sono stati, in diversi casi, rivestiti con l’abito più elegante dei prepensionamenti “volontari” o delle dimissioni anticipate e agevolate con uno “scivolo” economico in prossimità del raggiungimento dell’età pensionabile (gli uni e le altre sollecitati più dai datori di lavoro che dai lavoratori). Peraltro l’abbinamento di crescita demografica bassa e allungamento della vita, renderà sempre più urgente il problema della riutilizzazione e della valorizzazione degli ultracinquantenni che in Italia sono oltre ventiquattro milioni, come aveva profetizzato Jeremy Rifkin a metà degli anni Novanta.

Perché le cose non stanno propriamente come dice Serge Latouche per sostenere le sue tesi sulla “decrescita serena”, mettendo insieme, a tratti un po’ caoticamente, ecologismo (che solleva, peraltro, questioni fondatissime), vizi del berlusconismo, religione del produttivismo, populismo, «spostamento delle classi medie dalla solidarietà all’egoismo» (cosa pure avvenuta), il golpe contro Allende, Max Weber e Claude Lévy-Strauss: l’attacco al welfare è precedente, non ha nulla a che vedere con la “crescita per la crescita” ma, semmai, con la necessità di quell’uno per cento dell’umanità di piegare lo sviluppo al proprio tornaconto massimizzandone i benefici economici (e, in buona misura, anche i danni ecologici: il caso Taranto, ad esempio), di regolare i conti con quelle categorie (i lavoratori soprattutto) che negli anni Sessanta e Settanta, prima ancora del reddito avevano spostato poteri, diritti e garanzie e, infine, con una predicazione politico-ideologica (amplificata dalla grancassa mediatica e dall’impegno instancabile di potenti think tank sovranazionali) che ha consentito all’élite privilegiata di guadagnare sia quando le vacche erano grasse per molti (ma quasi mai per tutti), sia quando le vacche sono diventate magre per la stragrande maggioranza della popolazione di questo pianeta. Il che significa, che se anche si decidesse di decrescere felicemente, ci sarebbe sempre qualcuno che, al contrario, ingrasserebbe trionfalmente. Il problema non è decrescere più o meno convivialmente ma crescere più eticamente, cioè nel rispetto di tutti, evitando di lasciare indietro chi è più lento o ha potuto contare su un minor numero di opportunità o si è improvvisamente ritrovato in condizioni complicate (la legge Fornero resta un piccolo ma luminosissimo esempio), evitando cioè di trasformare l’uomo in un rifiuto da rottamare o da smaltire, anche senza raccolta differenziata.

Proprio le società in crisi sottolineano la necessità e la conseguente modernità del welfare, l’irrinunciabilità sociale non solo in quanto strumento di difesa nei confronti delle difficoltà improvvise della vita ma soprattutto come mezzo per evitare che il baratro nella distribuzione del reddito scavato negli ultimi trent’anni diventi sempre più ampio e profondo. Abbiamo bisogno di “salvagenti” perché manca la certezza dell’approdo, di scialuppe di salvataggio perché il sistema nel suo complesso appare prossimo al naufragio. Una condizione che riguarda tanto i giovani quanto gli anziani che hanno perciò robusti motivi per sostituire quel deformante e inconcludente scontro generazionale in una più utile alleanza sociale.

Tutto si confonde e nulla si comprende. Illuminante da questo punto di vista quel che ha scritto l’economista francese, Bernard Maris (una delle vittime dell’attentato parigino compiuto dai terroristi islamici nella redazione di Charlie-Hebdo), nel suo “Antimanuale d’Economia”: «Per il salariato non c’è la fine del lavoro, come sembrerebbe indicare la diminuzione tendenziale delle ore lavorate, ma piuttosto il lavoro senza fine, la precarietà, l’isolamento, lo stress, la paura e la certezza di perdere rapidamente il lavoro».

La questione è, allora, un’ altra: come affrontare il problema di una crescita che spinga effettivamente l’occupazione in un Paese in cui i senza lavoro sono più dell’undici per cento, in una fase in cui le ristrutturazioni e la modernizzazione dei processi produttivi stanno determinando non solo la perdita di posti ma la perdita di lavori? Come si ribalta un rigorismo perverso che semina incertezze creando un circolo vizioso che precipita i deboli sempre di più nella povertà? Basta la rincorsa ai capitali stranieri attraverso l’abbattimento dei diritti dei lavoratori quando anche la Cina dimostra che la crescita è solida solo quando si fonda soprattutto sugli investimenti nazionali? Possiamo ancora fare a meno di quello stato innovatore (e, quindi, imprenditore) evocato da Mariana Mazzucato, in un Paese che fa pochissima ricerca e innovazione e che ha fissato sul Garigliano una sorta di linea gotica economica al di sopra della quale c’è un’Italia comunque prospera (in Trentino il prodotto pro-capite supera i 34 mila euro) e al di sotto della quale c’è un’altra Italia (il prodotto pro-capite della Calabria è largamente al di sotto della metà di quello del Trentino) biblicamente condannata all’indigenza? A questo punto potrebbe essere utile ispirarsi a quel che disse Riccardo Lombardi in una lunga intervista raccolta dallo storico Carlo Vallauri nel 1976: «Io pongo il problema in termini provocatori: una società deve arrivare al punto in cui deve stabilire che il lavoro è la variabile indipendente. Oggi l’occupazione, il salario, tutto viene giudicato ed organizzato in funzione della compatibilità con alcuni elementi: la bilancia dei pagamenti, la moneta, il profitto. Bisogna invertire i criteri, fare della piena occupazione la variabile indipendente; saranno le altre variabili a doversi rendere compatibili con la piena occupazione». Lombardi non ha mai rinunciato nella sua vita all’utopia e in quelle parole, da lui stesso definite provocatorie, c’era evidentemente tanta utopia. In un mondo globale le variabili sono ormai innumerevoli e metterle tutte al servizio di una sola appare complicato. Ma ciò non toglie che questa spinta utopistica possa essere il motore di una nuova politica, in cui la crescita si associ al lavoro, al reddito e non alla rendita.

A San Valentino il sindacato si divise anche se poi riuscì a ritrovarsi; oggi il sindacato deve porsi l’obiettivo di riunificare il Paese che non è più diviso solo tra ricchi e meno ricchi, tra Nord e Sud, ma tra chi ha una prospettiva di vita e chi non ce l’ha, tra chi spera e chi si dispera, tra chi ha lavoro e chi ha perso il lavoro con la prospettiva di non trovarne un altro, tra chi cerca e chi non cerca più perché tanto è inutile e trova altre strade che soprattutto al Sud spesso coincidono con quelle delle organizzazioni criminali. Non esistono Uomini della Provvidenza né bacchette magiche. Le risposte ai problemi obbligano a un livello più elevato di elaborazione e di organizzazione politica. Anche perché il modello di società che sta aumentando le disuguaglianze e stritolando i più deboli risponde a un semplice principio: redistribuire la ricchezza dal basso verso l’alto, dai meno abbienti ai più ricchi. E’ la nuova lotta di classe combattuta dai ceti agiati titolari di interessi forti e resistenti ai danni di quelli più disagiati; insomma, una rivisitazione della vecchia legge della giungla.

E a muoversi a tutela di quegli interessi è, probabilmente, un super-partito, come diceva Luciano Gallino. Spiegava il sociologo: «Quello di Davos non è ovviamente un partito nel senso usuale del termine. Tuttavia i circa tremila individui che si riuniscono ogni anno nella cittadina svizzera sotto le insegne del Forum economico mondiale… sono per vari aspetti un perfetto campione rappresentativo della classe che governa il mondo. Classe formata da capi di governo, ministri, politici di rango, dirigenti al vertice delle maggiori corporations, accademici, tra cui molti economisti e qualche politologo, rappresentanti delle maggiori società di ricerca e consulenza industrial-finanziaria. E’ stata denominata in vari modi: classe globale, classe dominante globale, classe capitalistica transnazionale, iperclasse». Poco importa il suo nome; molto di più importano le risposte. Perché, come canta Bob Dylan, «quante volte un uomo può voltare la testa fingendo di non vedere? La risposta, amico, sta soffiando nel vento». Oggi, a oltre trent’anni di distanza dal decreto di San Valentino, quella risposta che soffia nel vento ci sussurra che la società (soprattutto quella politica) sembra avere un debito con le classi lavoratrici che non ha ancora onorato.

Il Governo Craxi agganciò la ripresa, rilanciò la crescita che arrivò in quegli anni a sfondare anche la soglia del quattro per cento. Ma nulla è stato consolidato di quei successi, i sacrifici, parafrasando Bob Dylan, se li è portati il vento. Il sindacato è stato sempre più spinto in un angolo. Certo, anche per colpe proprie, ma come pure ha recentemente detto Franco Marini, uno dei protagonisti di quelle trattative, il mestiere del sindacalista adesso è molto più difficile. Allora esisteva ancora intorno alle organizzazioni dei lavoratori un consenso di massa, una attenzione che spaziava dal terreno sociale a quello culturale, che coinvolgeva un’ampia fetta della società, i partiti mostravano nei confronti dei sindacati una attenzione che derivava da una idea di società in cui resistevano ancora alcuni elementi di solidarietà. Ora le Confederazioni sono messe all’angolo, attaccate non solo dagli avversari tradizionali (le organizzazioni imprenditoriali, le controparti) ma anche dalle forze politiche che in quanto forze, alternativamente, di governo dovrebbero avere un ruolo non di “partes” ma “super partes”, quantomeno da un punto di vista formale. Oltre trent’anni fa, i sindacati e i lavoratori contribuirono a far uscire dall’angolo il Paese, pur accettando una divisione che metteva a rischio la loro forza, il loro potere contrattuale; adesso quei lavoratori andrebbero “rimborsati” per i sacrifici di allora, ricostruendo una dinamica salariale che è stata devastata nel tempo, riconoscendo che senza un barlume di solidarietà non esiste società. Ha scritto Gaetano Arfè a proposito degli uomini del Partito d’Azione: «Andrò ancora oltre dicendo che scrivo non già nelle vesti di storico, ma di chi è stato partecipe, tra gli ultimi e i più modesti, di una storia che ha avuto i colori dell’epopea e l’andamento di una chanson de geste, la storia di uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti e che del loro operare hanno lasciato un segno incancellato e incancellabile. E’ un fatto che mentre la seconda generazione, la mia, si viene anch’essa estinguendo, gruppi di giovani si vanno formando per i quali Giustizia e Libertà non è una sigla depositata negli archivi, ma un motto che indica le ragioni per le quali la vita è degna di essere vissuta».

Non è solo una questione di redistribuzione del reddito (dall’alto verso il basso, sia chiaro), è una questione più ampia: la ricostruzione delle ragioni che consentono di stare insieme, che non tocca semplicemente gli aspetti geografici (scellerata predicazione di partiti che hanno cercato per anni i consensi nella pancia di una parte del Paese, mai nella mente e ora, opportunisticamente, rivolgono le loro attenzioni elettorali verso coloro che un tempo erano oggetto di rifiuto e dileggio perché nel frattempo hanno trovato altri su cui scaricare le colpe dei mali del mondo), ma quel complesso di valori che uno storico come Giovanni De Luna ha definito “religione civile”, cioè quel patrimonio morale che consente a uno stato di non essere, come pure Klemens von Mettermich disse dell’Italia, una semplice espressione geografica, ma una robusta manifestazione istituzionale e culturale, una collettività organizzata sulla base di una esperienza, di una lingua, di una musica, di una letteratura comune anche di una sofferenza comune come fu per l’Italia l’occupazione nazista e la guerra di liberazione. Ma, purtroppo, continua ad avere ragione Ferruccio Parri quando sosteneva che la Resistenza non è riuscita a diventare l’architrave di quella religione civile di cui parla De Luna perché era stata il frutto di una “frattura” interna al Paese.

E’ difficile, però, che questo possa avvenire se in pochi stanno molto bene (troppo bene) e in tanti stanno male (troppo male). Al termine della sua lettera aperta sull’affare Dreyfus, al termine del suo “J’accuse”, Emile Zola diceva a «Monsieur le President»: «L’atto che io compio non è un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità». A quella “felicità” (collettiva), alla sua ricerca fa riferimento anche la costituzione americana. Quella italiana, poi, ha scelto addirittura il lavoro come suo fondamento essenziale. Ma oggi questo “fondamento” democratico appare nel nostro Paese sempre più degradato, indebolito, assediato, dimenticato, derelitto. Insieme al modello sociale all’interno del quale è inserito. Nel 2012 la Fondazione Friedrich Ebert (legata alla Spd) e la Fundacion Alternativas (significativa la sua “ragione sociale”: Centro di Riflessione, idee e proposte progressiste per un mutamento politico economico sociale e culturale della società) hanno redatto un rapporto (titolo: Lo stato dell’Unione Europea – Il fallimento dell’austerità) in cui vi è una proposta quasi rivoluzionaria di questi tempi. Klaus Busch in un articolo dopo aver sottolineato che i salari reali in Italia sono diminuiti dell’1,5 per cento nel 2011, dell’1,4 nel 2012 e dello 0,7 nel 2013 (in relazione a una media europea che ha fatto segnare un decremento dello 0,1 nel 2012 e un incremento dello 0,3 nel 2013), dice che, dopo i tanti obblighi che l’Europa ha imposto alle nazioni indisciplinate, non sarebbe male se adesso venisse inclusa «una clausola di progresso sociale nel trattato Ue, che a livello europeo sancisca la priorità dei diritti sociali fondamentali rispetto al mercato».

I dati e le previsioni, d’altro canto, sono impietosi. Più della metà della ricchezza globale è nelle mani dell’1 per cento della popolazione mondiale. In Italia negli anni della crisi i ricchi sono diventati sempre più ricchi: nel 2008 le prime dieci famiglie italiane detenevano un patrimonio pari a 58 miliardi mentre il 30 per cento dei connazionali più poveri (18 milioni di persone) ne controllava uno di 114 miliardi; nel 2013 il patrimonio dei dieci più agiati è salito a 98 miliardi, quello dei 18 milioni meno agiati è sceso a 93 miliardi. Piketty ha sottolineato come la distribuzione patrimoniale di oggi sia analoga a quella di un secolo fa, a conclusione del primo processo di globalizzazione, alla vigilia della Grande Guerra e molto prima dell’avvio delle politiche redistributive del New Deal e della nascita della società middle class. Siamo tornati, insomma, a quel mondo spesso evocato da Paul Krugman composto da pochi ricchi, tantissimi poveri e con un ceto medio numericamente inconsistente (soprattutto per alimentare un mercato di massa): come si possa pensare in queste condizioni di rivitalizzare la domanda interna è un rebus a dir poco irrisolvibile.

Trent’anni dopo il problema è quello posto da Zola: restituire a chi ha pagato una parte di quella felicità perduta. Per questo riecheggiano amaramente nella mente i versi di una vecchia canzone di Woody Guthrie: «Nelle piazze della città, all’ombra del campanile, all’ufficio di collocamento, ho visto la mia gente. Mentre stavano lì affamati, io mi domandavo se questo paese fosse fatto per te e per me». Era il 1940 quando il folk singer americano, poi inevitabilmente finito nelle liste nere del senatore Joseph McCarthy, li compose: in Europa c’era la guerra e negli Usa gli ultimi “spifferi” della Grande Depressione. Oggi, probabilmente, la quantità di persone che cercano lavoro non si misura più attraverso le file agli uffici di collocamento. Ma ciò non toglie che la crisi alimentata dalla finanziarizzazione dell’economia ha prodotto migliaia, milioni di vittime innocenti, esattamente come accade in una guerra perduta. Ha scritto Gallino: «E’ evidente che da tempo il capitalismo finanziarizzato non ha di fronte a sé alcuna forma di opposizione politica in grado di contrastare con efficacia il suo dominio economico, politico e culturale».

Non è solo (o non è tanto) una questione di flebile opposizione politica perché a questa si aggiunge dell’altro che riguarda le regole fondamentali del nostro vivere insieme. Lo segnala lucidamente Luigi Ferrajoli quando, a proposito del costituzionalismo garantista, afferma: «E’ in atto una crisi profonda del paradigma costituzionale, che investe sia le forme rappresentative che la sostanza costituzionale e sta compromettendo il ruolo di governo della politica e le funzioni regolative e garantiste del diritto. Questa crisi si manifesta nello sviluppo, a livello statale ed extra – o sovrastatale, di poteri economici e finanziari privi di limiti e controlli, nella subordinazione ad essi delle funzioni politiche di governo e nell’aggressione – ad opera di una politica tanto impotente nei confronti del capitale finanziario quanto onnipotente nei confronti dei ceti sociali più deboli – all’insieme dei diritti sociali e del lavoro». Ma se di questo si tratta, allora è giunto il momento di uscire dalla narcosi e di provare a costruire una proposta di società più giusta, accogliente e coinvolgente.

Ecco perché può essere utile rileggere quanto scritto da Diego Fusaro, docente di storia della filosofia, in un bel libro su Antonio Gramsci. Si tratta di concetti che vanno ben oltre l’adesione ideologica a una corrente di pensiero politica, sebbene illustrati in conclusione del volume, in un capitolo significativamente intitolato: “Ripartire da Gramsci”. Ripartire dall’intellettuale sardo (ma non solo da lui) per riattualizzare un “ricco arsenale di passioni… contrapposte alla schiera delle odierne “passioni tristi”, per ricercare una “felicità più grande e autentica di quella oggi disponibile”, per «porre in essere un nuovo campo di lotta per attuare una vera riforma “intellettuale e morale” e creare un’egemonia alternativa rispetto a quella, sempre più opprimente, del pensiero unico planetario e del nuovo ordine mondiale”»; per abbattere quell’indifferenza che rende “fatale l’ordine delle cose”. Perché la lotta di classe non è finita ma è «semplicemente gestita unilateralmente dal capitale contro i dominati» e si è perciò trasformata in un “massacro di classe” che ha avuto come conseguenza «la rimozione forzata del senso della possibile rettifica delle ingiustizie».

Una grande sfida che i partiti hanno scelto di non cogliere accettando quasi passivamente il sovvertimento di quel principio democratico che postula la supremazia della politica rispetto all’economia, un sovvertimento che ha ceduto poteri e sovranità a soggetti e istituzioni non eletti e quindi non sottoposti al controllo del popolo elettore. Accettando, insomma, l’idea della politica come azione economica ma con altri mezzi, rinnegando di fatto il concetto stesso di governo basato sulla mediazione sociale, sul componimento di interessi contraddittori, sulla difesa di quella libertà che non a caso la nostra costituzione subordina all’abbattimento degli ostacoli (economici, di status, di condizioni, di opportunità) che ne impediscono la concreta realizzazione. Ma se la politica a questa sfida ha rinunciato accucciandosi come un docile cagnolino davanti alle gambe del super-partito di Davos, trasformando in Vangelo i diktat delle agenzie di rating sempre meno credibili e le ricette da sempre fallimentari del Fondo Monetario Internazionale, fremendo di passione al calo di qualche millesimo di punto dell’indice di borsa ma mostrando glaciale indifferenza come ha detto Papa Francesco nei confronti di chi muore di freddo e fame davanti al nostro portone, perché mai dovrebbero rinunciarvi le forze sociali, il sindacato?

Spiegava Alexis Tsipras, mentre conquistava la guida di una Grecia che ha consegnato all’Europa gli strumenti per pensare (“La memoria è lo scriba dell’anima”, ammoniva Aristotele, forse già pensando alla Merkel) e ora trattata dall’Europa come un fastidioso peso: «Non si può ritenere che faccia parte del progresso lo svilimento della persona umana e dei suoi bisogni».

Al nuovo “panpoliticismo” che predica strumentalmente un illusorio rapporto diretto con i governati (che, nella realtà, si configura come una forma ammodernata di “democrazia del Capo” o “autoritaria”, estetica vanagloriosa dell’uomo solo al comando), il sindacato ha la possibilità di contrapporre una azione come proposta socialmente unificante perché, come sottolinea Fausto Bertinotti, in questa fase “piuttosto che occuparci di decimali dovremmo occuparci della coesione sociale e della civiltà del lavoro”. Oggi più di ieri, in una società in cui i partiti intendono il governo come gestione del potere e forma di comando o, in contrapposizione, come contestazione anti-sistema (come dice Ilvo Diamanti) senza programmi alternativi, il sindacato ha la possibilità di ri-legittimarsi recuperando il senso di una azione che riguardi le cose da fare per riformare profondamente la società (il riformismo rivoluzionario di lombardiana memoria), non quelle da realizzare per dominarla o distruggerla in quel falò delle vanità che ogni sera, all’ora di cena, viene acceso nei numerosi talk show della Penisola.

Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”, con un’analisi sui risultati del referendum di Antonio Agosta; Bibliotheka Edizioni, 2016, pp. 617, euro 35,00

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