Memoria (3): il coraggio di Vivà, la figlia di Nenni

-di ANTONIO TEDESCO-

A tutt’oggi gli storici non sono riusciti a spiegare perché mai duecentotrenta donne prigioniere politiche francesi, il 24 gennaio del 1943 vennero caricate sul convoglio “31.000” (una sorta di treno per bestiame), in una stazione vicino Parigi, per essere poi deportate nel campo di sterminio di Auschwitz.

Non sono le uniche francesi ad aver popolato il “campo dell’esecuzione lenta” ma certamente sono state le sole francesi “politiche” presenti ad Auschwitz. Tra di loro anche due italiane: Alice Viterbo, una brava e famosa cantante lirica, che aveva una gamba di legno, e Vittoria Nenni, detta Vivà, figlia del noto leader socialista italiano Pietro Nenni, che con la famiglia viveva in esilio in Francia dal 1926 dopo la promulgazione delle leggi “fascistissime”. Duecentotrenta donne in tutto, un gruppo assai variegato: madri, mogli, giovani e anziane; più della metà erano sposate e tante già vedove, con i mariti fucilati dai tedeschi. Molte avevano lasciano a casa figli piccoli. Poco più della metà (centodiciannove) erano militanti comuniste, dodici golliste, mentre le restanti non avevano una precisa collocazione politico-ideologica ma si erano arruolate, con grande coraggio e fede, nella dura lotta contro la barbarie e l’oppressione nazifascista.

Questa è la loro storia.

Nel giugno del 1940 Hitler decise di dare una svolta alla guerra con la Francia e l’esercito tedesco attraversò il confine francese. Dopo aver occupato la Cecoslovacchia, la Polonia, il Belgio, il Lussemburgo e l’Olanda, bastarono solo sei settimane ai tedeschi per sbarazzarsi della fievole resistenza di quello che era considerato uno degli eserciti più valorosi e meglio equipaggiati al mondo. La Francia improvvisamente si ritrovò con i nazisti che occupavano gran parte delle regioni del nord. Parigi, dopo il bombardamento del 3 giugno, il 14 venne completamente occupata. I tedeschi entrarono nella capitale francese dalla Porte de la Villette alle 5:30 del mattino e a mezzogiorno la svastica sventolava già sul Senato, sulla Camera dei Deputati, sulla porta dei grandi alberghi. Vetture munite di altoparlanti giravano per Parigi ordinando agli abitanti di restare in casa e di obbedire alle truppe di occupazione. Il coprifuoco venne fissato alle 23:00. L’indomani gli orologi della città vennero portati avanti di un’ora per adeguarsi all’ora di Berlino. Parigi piombò nell’incubo, diventando una città tetra, dove il silenzio dell’attesa per quello che sarebbe successo, era spezzato dal suono dei panzer e dai tamburi di una banda che suonava una marcetta passando sotto l’Arco di Trionfo il tutto immortalato da una cinepresa. Pochi giorni dopo apparvero sui muri dei manifesti che invitavano i francesi a collaborare con i tedeschi: “FRANCESI, FIDATEVI DEI TEDESCHI!”. Il 17 giugno 1940 il Primo Ministro francese Reynaud passò il potere al maresciallo Pétain che concluse l’armistizio con la Germania il 24 giugno e si insediò con il nuovo governo nella città di Vichy (Alvernia), situata nella parte del Paese formalmente non occupata dai tedeschi. Pétain, cattolico conservatore, vide nell’occupazione tedesca un’opportunità per instaurare un regime “prerivoluzionario”, autoritario, paternalistico e filotedesco.

Se nei primi mesi di occupazione le truppe tedesche si erano sentite relativamente al sicuro, non subendo attacchi o perdite di uomini, nell’estate del 1941 clandestinamente stava prendendo corpo una fitta rete capace di far girare le informazioni, volantini e fogli di propaganda antinazista. Alcune tipografie parigine diventarono il centro nevralgico della resistenza. Di giorno stampavano materiale non compromettente e la notte producevano riviste, opuscoli, giornali che inneggiavano alla Resistenza contro l’invasore. Per distribuire questo materiale si utilizzavano dei corrieri “insospettabili”, donne eleganti che tutto sembravano fuorché rivoluzionarie: erano le “Tecniche del movimento” della Resistenza parigina.

Quello che la Resistenza e soprattutto le donne impegnate nella lotta volevano contrastare era l’indifferenza e la puzza di complicità, cioè il collaborazionismo. Mentre la maggioranza dei francesi assisteva impotente al campeggiare della svastica sui monumenti più importanti della città, mentre il regime mostrava il suo volto più nero e iniziavano le discriminazioni contro gli ebrei e i patrioti venivano torturati, alcune donne coraggiose alzarono la testa.

Vittoria Nenni(Vivà), insieme a Danielle Casanova, Betty Langlois, Carmen Serre, Cécile Charua, Maï Politzer, Charlotte Delbo, Georgette Rostaing, Simone Sampaix, e tante altre, trasportavano messaggi, proteggevano i ribelli, aiutavano a passare la linea di confine, nascondevano gli ebrei e ingannavano i nazisti. Erano pronte a tutto, anche alla lotta armata e a correre ogni pericolo, perfino a morire.

La rete degli “stampatori” e delle “Tecniche del movimento” guidate dal meccanico comunista Arthur Tintelin, tra la primavera e l’estate del 1942 venne smantellata dalla polizia francese dello spietato David. Le donne ad una ad una vennero tradotte nel forte di Romaville. Vittoria Nenni perse quasi subito il marito fucilato sul Monte Valerien l’11 agosto. Stessa sorte toccò a molte altre donne resistenti che si ritrovarono improvvisamente vedove. Chiamata nel proprio ufficio dal comandante del carcere, a Vivà venne offerta la possibilità, rinunciando alla cittadinanza francese, acquisita nello sposare Henri Daubeuf e facendo valere quella italiana, di scontare il carcere in Italia. Vivà senza alcuna esitazione rifiutò. Non voleva servirsi di quel privilegio per avere un trattamento migliore di quello riservato alle compagne francesi. Come un tempo aveva convinto il marito Henri a mettersi a lavorare per la resistenza, dicendo che Pietro Nenni lo avrebbe fatto, ora respinse l’offerta dei tedeschi, sostenendo che il padre non l’avrebbe accettato: «Papà si sarebbe vergognato della mia debolezza».

Vivà si era legata romanticamente alle sue amiche e riteneva di doverne seguire la sorte. Non ha mai avuto una parola di rammarico e di rimpianto perché, in fondo, ha sempre pensato che sarebbe tornata.

Dopo pochi mesi di prigionia le donne vennero deportate ad Auschwitz, Il complesso di campi di concentramento era il più grande realizzato dal regime nazista. Esso comprendeva tre strutture principali, tutte destinate inizialmente ai prigionieri selezionati per i lavori forzati.

Quando le donne giunsero nel campo erano scolvolte. Non avevano mai visto tanto orrore. Vittoria Nenni, provata dal massacrante viaggio, aveva l’impressione fisica di essere entrata in una tomba; osservava intorpidita e con grande inquietudine i reticolati che cingevano il campo percorsi da corrente elettrica. Con un filo di voce confessava alle compagne il proprio timore: «Non usciremo più!». Dopo aver marciato per alcuni chilometri giunsero al campo di Birkenau (uno dei tre campi della struttura, il cui nome in tedesco significa “Boschetto di betulle”) e avviate subito al “rito di iniziazione”: doccia, rasatura dei capelli e marchiatura.

Le donne vivevano giornate terribili nel gelo della Polonia: sveglia alle tre, ore con i piedi nella neve per l’appello e dodici ore di lavoro nelle paludi. Solo una brodaglia a mezzogiorno e del pane secco con margarita la sera. Quello che teneva in vita molte donne era l’amicizia, la solidarietà, l’unità. Da sole non avrebbero potuto salvarsi. Alcune resistevano perchè desideravano raccontare, da sopravvissute, l’incubo peggiore che l’umanità abbia mai conosciuto. Le più anziane e le più fragili morivano subito.

Il 10 febbraio del 1943 le donne vennero costrette a fare un’assurda corsa nel gelo, in mezzo a due file di SS che puntualmente le picchiavano con pesanti manganelli e fruste gridando: «Schnell! Schnell!». Nessuna pietà per chi cadeva. L’Italiana Alice Viterbo cadde quasi subito nella neve impedita nella corsa dalla gamba di legno e venne bloccata da una SS. Al ritorno nelle baracche le prigioniere iniziarono a contarsi, disperate: «Chi c’è? Dov’è Vivà? Charlotte è tornata?». Una giornata terribile per le resistenti: la folle corsa nella neve aveva provocato quattordici vittime. Vivà e Charlotte sono erano stremate ma vive; dalla finestra del blocco scrutavano qualcosa che emergeva dalla neve. Quando si avvicinarono videro che si trattava della gamba di legno di Alice Viterbo.

Dopo due mesi e mezzo di internamento il numero delle donne francesi sopravvissute si ridusse ad ottanta. Il tifo ne aveva uccise oltre cento, le altre invece erano morte nelle camere a gas, di dissenteria, di congelamento, di polmonite o sbranate dai cani. Resistevano quelle più forti, non troppo vecchie, né troppo giovani. Mai e Danielle erano morte mentre Vivà e Charlotte erano ancora vive. Vivà era coraggiosa, forte ed intrepida. Giorno dopo giorno diventava il punto di riferimento per molte. Diceva sempre a Charlotte e alle altre amiche che bisognava “tenere la testa alta e i piedi davanti” ai Kapò, alle spietate Draxler e Toube.

Charlotte guardava con grande ammirazione Vivà e si chiedeva: «Come fa lei a trovare ancora la forza?». Ogni giorno arrivavano al campo camion e treni carichi di deportati; ebrei e zingari soprattutto. Convogli di disperati che spesso giungevano al campo mezzi morti di fame mentre i bambini venivano quasi subito uccisi nelle camere a gas. Vivà e le compagne vedevano le ciminiere eruttare fiamme circa tre quarti d’ora dopo l’arrivo di un convoglio. Dopo tanti mesi di amarezze nel mese di aprile del 1943 un inaspettato colpo di fortuna per le donne francesi. I tedeschi avevano un disperato bisogno di gomma per gli aumentati sforzi bellici e avevano deciso di adattare, per tali scopi produttivi, un vecchio edificio scolastico a Raisko a tre chilometri da Birkenau. Maria-Claude, che lavora in amministrazione, informava le compagne che i tedeschi erano alla ricerca di chimici e biologi. Vivà, Charlotte, Cécile, Carmen, Lulu ed altre compagne finsero conoscenze scientifiche e chiesero di poterci lavorare. Le condizioni per le deportate che impiegate all’interno delle fabbriche erano migliori. Avevano minori possibilità di contrarre malattie, il lavoro era meno pesante e le condizioni igieniche accettabili. Il lavoro all’interno, forse era la salvezza per Vivà. ma l’undici aprile, al momento di partire si svegliò con la febbre, un malessere generale. Erano i chiari sintomi del tifo. All’inizio venne curata da Charlotte e lottò con tutte le sue forze per guarire. Ed era pressoché guarita quando sopravvenne una complicazione forse nefritica e fu costretta ad andare all’infermeria, il “Revier” che era quasi sempre l’anticamera della stanza dei gas. Nel Revier non c’erano né medicine né bende ma solo pezzi di carta. Il Revier era temutissimò dalle detenute. Stipati tutti insieme, i malati di tubercolosi nella stessa cuccetta con chi era affetto da dissenteria o da tifo, i pazienti emanavano un fetore terribile.Vivà sembrò affrontare con determinazione la malattia pensando sempre a suo padre, che intanto era stato consegnato alla polizia italiana per scontare il carcere nel suo paese d’origine. Anche Pietro Nenni e la sua famiglia pensavano disperatamente alla loro figliola. Vivà non aveva compiuto ancora ventotto anni e i suoi riccioli sono l’ultima immagine che si ha di lei. Ha resistito fino alla fine, con coraggio e tenacia ma il 15 luglio del 1943 nell’orrida baracca, dove in punto di morte le deportate venivano gettate a mucchi, ridotta tutta una piaga, divorata dalla febbre tifoidea, gonfia le gambe per il lavoro nelle mortifere paludi, trovò l’energia di affidare all’amica Charlotte un ultimo messaggio: «Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e che non rimpiango nulla».

Dal campo di sterminio di Auschwitz delle duecentotrenta donne deportate con Vivà rimasero in vita solo in quarantanove. Si salvarono le amiche di Vittoria Christiane, Lulu, Carmen e Charlotte che, attraverso i suoi libri racconterà la tragica esperienza di quel luogo degli orrori..

Bibliografia:

  • Antonio Tedesco, Vivà, la figlia di Pietro Nenni dalla Resistenza ad Auschwitz, Bibliotheka Edizion, collana “Bussole” della Fondazione Nenni, Roma 2016

  • Caroline Moorehead, Un treno per Auschwitz, Newton Compton Editori, 2014, Roma.

  • Delbo Charlotte, Aucun de nous ne reviendra, Les Éditions de Minuit, 1965

  • Delbo Charlotte, Donne ad Auschwitz, Gaspari Editore, Udine, 2014
  • Delbo Charlotte, Le convoi du 24 janvier, Les Éditions de Minuit, 1965

Antonio Tedesco

Rispondi