-di VALENTINA BOMBARDIERI-
«La mamma piangeva quando siamo arrivati, aveva pianto altre volte e altre volte la paura che uno di noi quattro fosse in pericolo ci aveva assalito all’improvviso. Bastava un ritardo, pochi minuti, e la mamma si metteva a camminare su e giù per la cucina torcendosi le mani e gridando: “Me lo hanno preso, questa volta me lo hanno preso”, o il papà ci cercava disperato per i campi o noi guardavamo fuori dalla finestra “in pensiero” con gli occhi tristi dei cuccioli orfani, perché i nostri genitori non erano ancora spuntati dalla curva della strada, “Perché, perché ritardano?”.
Queste le parole di Aldo Zargani nel suo libro “La mia infanzia nell’Aldiqua 1938-1945”. Era un bambino, ora è un uomo sopravvissuto alle persecuzioni razziali e alla Shoa. Oggi, più di sempre nel giorno della Memoria, ci regala le sue parole quelle di un uomo a cui non hanno rubato l’infanzia “ma a cui sono stati regalati dieci anni di coscienza in più”.
Aldo Zargani, lei nasce nel 1933 a Torino in una famiglia ebraica. Con la promulgazione delle leggi razziali fasciste nel 1938 comincia un periodo difficile per la sua famiglia.
Nel 1938 con le leggi razziali volute dal Governo fascista e firmate da Sua Maestà il Re d’Italia Vittorio Emanuele III contro lo Statuto Albertino, contro qualsiasi tradizione italiana io non potei più andare a scuola pubblica. Così anche mio fratello, più piccolo di me. E mio padre che era un violinista non poté più suonare. È iniziato un periodo di miseria e di umiliazione. Noi vivevamo a Torino, scappammo da lì. Sono stato poi con mio fratello per un anno in un collegio dei Salesiani. Dal 1938 fino al 1943 non erano in pericolo le nostre vite, ero un bambino che leggeva giornali pieni di insulti agli ebrei. I giornali umoristici erano i miei preferiti. Ma erano tutti pieni di offese. Anche i giornalini per bambini lo erano, c’era Superman che combatteva contro gang composte da cinesi comandate da ebrei. Non avevo rifugio nei diletti dell’infanzia. Noi ebrei venivamo umiliati e basta.
Nel 1995 si decide a raccontare la sua esperienza di sopravvivenza da bambino nel libro “Per violino solo. La mia infanzia nell’Aldiqua 1938-1945” (Bologna: il Mulino). È il primo libro che tratta della persecuzioni razziali vista dagli occhi di un bambino, non deportato però ad Auschwitz. Era il periodo felice dell’infanzia rovinato da un periodo di paura.
Le persecuzioni non erano il solo flagello che eravamo costretti a sopportare. C’era l’Italia dei bombardamenti, dei razionamenti. Era l’Italia da cui volevamo scappare. Erano le persecuzioni viste dagli occhi da un bambino ma nessuno mi ha rubato l’infanzia. Mi sono stati regalati dieci anni di coscienza in più. I bambini fanno una vita spensierata. Io non l’ho potuta avere e ho demonizzato tutto quello che mi è successo. Ho avuto una ferita insanabile dalle persecuzioni e poi dalla Shoa, ma ho avuto anche un insegnamento, prezioso per il resto della mia vita.
Qual è il ricordo che conserva più nitido di quel periodo?
Il ricordo dei miei cugini che sono stati uccisi ad Auschwitz. Avevano la mia stessa età e sono stati deportati, perché sono stati catturati. Era una casualità quella di essere prelevati dopo il 1943 ed era difficile salvarsi. Furono presi e messi sul treno per sette giorni, al loro arrivo li aspettava la camera a gas. Mi ricordo gli ultimi giorni passati con loro e con i miei zii. Me li ricordo e mi chiedo sempre perché è toccato a loro mentre io ho avuto una vita così lunga. Perché io e non loro? Gli hanno rubato la vita che gli spettava per una serie di cose, che oserei chiamare scemenze. Scemenze che vedo ancora oggi, nei populismi e in quelle frasi che sento di nuovo circolare dopo tanto tempo quando si parla di sovranità e nazionalismi. Sono stati uccisi e le cause sono nostro dovere decifrarle per il resto dei nostri giorni.
Vi è sicuramente l’esigenza di comprendere storicamente la Shoah. Il tema é molto complesso, appartiene agli storici. Lei l’ha vissuta sulla sua pelle, che spiegazione quindi si è dato.
Con il passare del tempo i ricordi e il dolore si sono progressivamente accentuati, anche se sembra paradossale. La gioia per la fine della guerra e la sensazione del bene che aveva trionfato faceva sì che questi morti sembrassero caduti per una causa e avrebbe dovuto rendere la cosa sopportabile. L’insopportabile è venuto dopo. Tutte quelle persone sono morte per nulla, per una seria di deliri di una classe sociale e di tutta l’Europa che ha sopportato che venisse compiuta questa infamia. Salvo quelli che si sono sacrificati e ci hanno aiutato, coloro che io ho fatto entrare nel mio romanzo e anche nel giardino dei giusti a Gerusalemme.
Alla fine del suo libro parla dell’esigenza di raccontare la sua storia per liberarsi dal peso di quella terribile esperienza e trasmettere il ricordo da nonno a nipote.
Racconto questa storia per liberarmi dal peso di questa esperienza ma posso assicurare che l’effetto è momentaneo. Io non ho molta fiducia nella memoria collettiva, nonostante io la ritenga indispensabile. Non però da parte di chi ha subito questi affronti, per noi sono cicatrici indelebili. La memoria collettiva è indispensabile da parte di tutti gli altri. Non è più una questione di colpevolezza. Ormai nessuno è più colpevole e la gran parte non lo è neanche stata. È necessario riflettere su questi avvenimenti che però è inutile che vengano solo da chi questi avvenimenti li ha subiti. Noi sappiamo cosa significano, gli altri che non lo sanno devono impararlo. Con questo non voglio dire che debbano soffrire ma debbono capire. Questa per me è una storia da raccontare come racconto tutte le altre storie della mia vita. È paradossale ma il resto della mia vita è stato normalissimo, ho vissuto un infanzia incredibile, ho rischiato la morte e me ne rendevo contro, vivevo nel terrore però la vita mi ha restituito quello che mi ha preso. Ho un matrimonio andato benissimo, una figlia e una nipote. Sono stato fortunato ed è sicuramente anche un dono che ho ricevuto dal mio Paese. Io mi sento italiano oltre che ebreo e mi sento fratello di tutti coloro che sono stati perseguitati. Ho conosciuto Pietro Nenni, lui ha avuto una figlia che è morta ad Auschwitz. Così come sento un sentimento di fratellanza con gli zingari, con gli armeni e anche nei confronti del popolo tedesco. Popolo che è riuscito ad uscire dalla morsa della colpevolezza, rendendosi conto nella maggioranza, tralasciando poi i neonazisti, di cosa era successo. Per esempio il figlio di Hans Frank, il terrificante assassino della Polonia, odia il padre. Sicuramente questo non corrisponde al Cristianesimo che è una religione di perdono ma io mi sento molto più fratello di Niklas Frank che di chi non ricorda. Non perdono neanche io suo padre e quindi sono suo fratello. Il non perdono che crea fratellanza. Questo è solo uno dei contrasti che vengono fuori parlando di questo periodo storico e della mia esperienza.
Lei vive l’ultimo anno della guerra in zona partigiana
Si e ho visto con i mie occhi la fine della guerra, grazie ai miei genitori che ci avevano salvato portandoci e mi hanno concesso di vedere in faccia il futuro, che ormai abbiamo dietro le spalle. Ho vissuto l’uguaglianza delle donne, la democrazia, lo Stato con il welfare. Valori embrionali nelle bande partigiane.
Valori che lei ritrova ancora nella società di oggi?
Trovo che c’è ancora in corso un combattimento che non finirà mai. Prosegue attraverso fasi di sconfitta, di vittoria e di delirio retorico. Noi siamo figli della Resistenza, che ha avuto anche i suoi difetti. Figli di un mondo da studiare.
Cosa si sente di dire ai giovani?
Questa è sicuramente la domanda più difficile di tutti. Una volta chiesi a dei ragazzi se sapevano che odore avevano i tedeschi. Gli spiegai che avevano l’odore del sapone da bucato. Mentre gli americani profumano di brillantina e chewing-gum e gli inglesi di sigarette Virginia. Come si fanno a ricordare gli odori? L’essere vissuti in quel periodo non può essere ricordato da nessuno, se non da chi ha subito questo periodo. Motivo per cui ho scelto di scrivere romanzi e non memorie, perché credo che nei romanzi attraverso la creatività riesco a rendere qualcosa del mondo che non è più. Il passato è sempre morto. Posso insegnare come ho fatto per tanti anni. Bisogna però scoprire quali sono le cause di questa mostruosità unica, bisogna conoscerle. Questo lavoro deve essere fatto più dagli altri che dagli ebrei. È un lavoro degli storici. A noi piace studiare l’astrologia, le stelle che distano quattro miliardi di anni. La Shoa è una stella vera e dista da noi poco più di ottant’anni. Dobbiamo sapere come si è formata, conoscere la struttura e capirne l’origine, capire perché fu accettata da tanta gente.