-di VALENTINA BOMBARDIERI-
La tecnologia rivoluzionerà il lavoro, ancora di più di quanto abbia già fatto. Interessante lo studio condotto da Epson, nel febbraio 2017. Sono stati presi in esame settemila lavoratori in cinque Paesi Europei (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna) per cercare di capire come ci si sta preparando e si risponde alla rivoluzione 2.0.
Più della metà dei dipendenti europei (il 57% degli europei e il 62% degli italiani) che lavorano nella sanità, formazione, retail e produzione, ritiene che la tecnologia rivoluzionerà settori e modelli aziendali. Per il 6% degli intervistati in Europa (il 4 in Italia) la propria mansione non esisterà più in futuro. Infatti per il 75% dei lavoratori europei (e il 78% degli italiani) ritiene che l’utilizzo di nuove tecnologie potrebbe comportare una riduzione del numero di dipendenti nell’azienda.
L’88% dei lavoratori italiani intervistati si è dichiarato ottimista rispetto a questa rivoluzione hi-tech, molti di più rispetto al 72% dei lavoratori europei. Il 63% degli italiani è anche disposto ad aggiornare le proprie conoscenze per poter svolgere nuove mansioni.
Nell’ultimo decennio sia negli Stati Uniti che in Europa la crescita della produttività è fortemente rallentata. Eppure questa nuova ondata di innovazioni tecnologiche dovrebbe riflettersi in un aumento della produttività totale dell’economia, ma ciò non sta avvenendo: i dati non segnalano alcuna impennata lega alla diffusione delle nuove tecnologie.
L’introduzione di macchine sempre più sofisticate consente una sempre più agevole sostituzione di porzioni crescenti di forza lavoro con la tecnologia, soprattutto per quel di operai e impiegati con mansioni relativamente semplici. Abbiamo assistito alla scomparsa o al forte ridimensionamento delle agenzie di viaggio, dei venditori di enciclopedie, dei vecchi tipografi, ecc. D’altro canto abbiamo però visto aumentare la richiesta di nuove figure professionali come gli informatici.
Dalla ricerca emerge che a temere di più la perdita del proprio posto di lavoro a causa delle nuove tecnologie sono i giovani e i top manager. Secondo alcune stime otto milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti e 15 milioni in Gran Bretagna sono a rischio a causa dell’automazione
Risulta innegabile quindi che le nuove tecnologie abbiano effetti sull’occupazione nonostante i tempi di diffusione siano poco chiari. Infatti la sostituzione del lavoro umano da parte dei computer è in corso da almeno vent’anni e la sostituzione del lavoro umano da parte delle macchine da due secoli e tutte le predizione sulla “fine del lavoro” si sono rivelate in parte infondate.
A queste preoccupazioni ha cercato di trovare una soluzione Bill Gates, fondatore di Microsoft. I robot che svolgono lavori umani dovrebbero pagare le tasse, questa la sua idea. “Al momento se un lavoratore umano guadagna 50.000 dollari lavorando in una fabbrica, il suo reddito è tassato. Se un robot svolge lo stesso lavoro dovrebbe essere tassato allo stesso livello”.
Un robot, in media, si ripaga in 5-6 anni, ha una produttività e una resa qualitativa molto più alta del lavoro umano che tende a sostituire, costi di gestione e manutenzione più alti. Una tassa da pagare al momento è decisamente sostenibile o quantomeno non tale da fermare la decisione sull’investimento. L’ipotesi di Bill Gates non rallenterà di certo l’innovazione industriale così come i posti sostituibili non saranno salvaguardati.
La tecnologia cambia la società nel suo complesso e prepara la strada a nuove innovazioni, azzera certo alcune postazioni di lavoro umano, distrugge non posti di lavoro ma funzioni di lavoro e crea lo spazio perché nuovi impieghi si affermino.
Questa rivoluzione rappresenta quindi un male per la società? The Economist ha cercato una risposta a questa domanda e ha invitato i singoli stati ad aumentare la flessibilità dei rispettivi mercati del lavoro e, contemporaneamente, ha raccomandato ai lavoratori di migliorare capacità e resa individuali. Non sarebbe possibile negare che le rivoluzioni tecnologiche siano positive: migliorano la produttività e incrementano il benessere, a condizione però che vengano gestiti i grandi sconvolgimenti sociali ed economici che provocano.