-di GIULIA CLARIZIA-
L’avvento della rivoluzione d’ottobre e del marxismo-leninismo aveva portato alla nascita della Terza Internazionale socialista. In occasione del secondo congresso del Comintern presieduto da Zinov’ev, venne stabilito il primato della strategia rivoluzionaria e la conseguente necessità di espellere dai partiti socialisti tutti i minimalisti che prediligevano una strategia graduale e riformista. I partiti da quel momento in poi, si sarebbero dovuti chiamare “comunisti”.
In Italia, a sostegno delle decisioni sovietiche si schierarono i gruppi più estremisti del PSI. In primo luogo, vi era quello di Amadeo Bordiga, che con la sua rivista Soviet fondata nel 1919 si era fatto leader della corrente astensionista, contraria alla competizione elettorale e all’attività parlamentare. Poi erano presenti Antonio Gramsci e Umberto Terracini, che insieme ad Angelo Tasca e Palmiro Togliatti avevano fondato la rivista Ordine Nuovo. Questi, ispirandosi ai soviet, volevano fondare una piattaforma politica basata sui consigli operai. Inoltre a infoltire le fila dei sostenitori dell’internazionale vi era gran parte della Federazione Giovanile Socialista Italiana diretta da Luigi Polano. Tutti loro ad Imola diedero vita alla frazione comunista del PSI e prepararono una mozione da presentare al XVII congresso del Partito Socialista Italiano che si sarebbe tenuto a Livorno il 21 del 1921. Essi chiedevano l’espulsione dell’ala riformista di Filippo Turati, dichiarandosi pronti a staccarsi e formare un nuovo partito nel caso in cui la mozione non fosse stata approvata. Ed è quello che accadde.
La linea che prevalse all’interno del partito era infatti quella dei “comunisti unitari” guidati da Giacinto Menotti Serrati, che, pur essendo favorevole all’adesione alla III internazionale, proponeva almeno il momentaneo mantenimento del nome “socialista” del partito.
Amadeo Bordiga, a quel punto, tra gli applausi dei suoi “comunisti puri” prese la parola: “I delegati che hanno votato la mozione della frazione comunista abbandonino la sala e sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale”.
Ecco dunque che si verificò probabilmente la più grande spaccatura della sinistra italiana. Il nuovo partito, si poneva come obiettivo principale l’”abbattimento violento del potere borghese” (art. 1 dello statuto), mirando ad una rivoluzione immediata in nome del proletariato.
Il partito si dotò di un comitato centrale e un comitato esecutivo. Del primo faceva parte Antonio Gramsci, che il giorno successivo, il 22 gennaio 1921, avrebbe festeggiato il suo trentesimo compleanno. Egli era destinato a diventare uno dei più grandi intellettuali del XX secolo. Il suo Ordine Nuovo divenne uno dei quotidiani del partito, insieme al Lavoratore di Trieste e al Comunista di Roma, e poi, nel 1924, all‘Unità.
Gramsci, al contrario di Bordiga che concepiva unicamente la dittatura del proletariato, era aperto a delle prospettive democratiche e alla collaborazione con forze emergenti come il progressismo liberale di Piero Gobetti. La sua linea di apertura prevalse necessariamente quando il neonato partito si trovò a dover fronteggiare un grande pericolo: l’ascesa del fascismo.
In occasione del IV congresso dell’Internazionale infatti, venne rilevata la necessità di unirsi ai socialisti internazionalisti di Menotti Serrati.
Di lì a poco poi, Bordiga ed altri leader del partito vennero arrestati: Gramsci ne rimaneva quindi il leader indiscusso.
Messo al bando nel 1926, anche il PCI iniziò il suo periodo di clandestinità, per arrivare dopo la seconda guerra mondiale ad essere il più grande partito comunista dell’Europa Occidentale. In generale, il PCI si dimostrò nel corso degli anni un partito disposto a seguire le regole del gioco democratico, nonostante la sua matrice rivoluzionaria e anti-sistema. Sono esempi della sua apertura la svolta di Salerno del 1944, quando Togliatti tornato da Mosca annunciò la disponibilità del suo partito a formare un governo di Unità Nazionale per sconfiggere il fascismo, e il Compromesso Storico di Berlinguer, visto, però, dai giovani di sinistra di quegli anni come la rinuncia a perseguire equilibri alternativi alla Dc.
La crisi del “modello comunista” (realizzato) e il crollo del Muro di Berlino accentuarono la crisi di un partito che pur avendo da tempo dichiarata “esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre” e avendo accentuato lo “strappo” con Mosca (significativa la scelta di Berlinger di preferire l’ombrello protettivo della Nato), non realizzò mai, però, l’ultima svolta, la Bad Godesberg all’italiana con l’adesione ai principi-guida della sinistra occidentale. Il modello sovietico perse ogni valore con la disintegrazione dell’Urss e la fine di quel mondo che faceva leva sulla logica dei Blocchi e degli accordi di Yalta. Il PCI, per sua natura, non poteva sopravvivervi, nonostante la Bolognina di Achille Occhetto e i numerosi cambi di nome.