-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Con una delle sue ormai “storiche” virate, il fondatore di “Repubblica” ha lanciato strali contro l’idea politica di un “solo uomo al comando”. Come diceva Renato a Cochi in un celebre sketch: “bene, bravo, sette più”, visto che la tendenza alla oligarchizzazione della politica in Italia era stata giustificata dallo stesso Scalfari, con i suoi lunghi “sermoni” domenicali sulle colonne di “Repubblica” e, tra gli altri, dall’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano che, a proposito di Brexit e voto sul referendum costituzionale, affermò perentorio “il popolo non può decidere su tutto”.
Sono riaffiorate così, le analisi sull’elitismo in politica come quelle di Gaetano Mosca, che nel suo celebre saggio “Che cosa è la mafia”, scritto all’inizio del ‘900 quasi con poteri divinatori, metteva in guardia contro i rischi di degenerazione tirannica: poiché ogni classe politica tende a degenerare in oligarchia e minoranza organizzata, che persegue suoi interessi separati soffocando la vita civile, segnata da corruzione e favoritismi. Quanta attualità nelle analisi del grande scienziato siciliano della politica!
Secondo il costituzionalista Michele Ainis è in corso un’ulteriore involuzione della politica in Italia, verso la “capocrazia”, come dimostrerebbe l’analisi dell’organizzazione interna dei maggiori partiti, con il Movimento 5 Stelle, mix di autocrazia e digitalizzazione; Forza Italia partito-azienda e, quindi, del proprietario per definizione; la Lega con uno statuto che attribuisce “ogni e qualsivoglia attività” al segretario federale; il Pd nel quale il segretario è anche (a prescindere, avrebbe detto il principe de Curtis, in arte Totò!) candidato alla premiership e così anche i cartelli elettorali minori spacciati per forze politiche, tutti paradigmi di una politica “liquida” nella mai nata Seconda Repubblica basata su partiti “personali”.
Si dirà che Max Weber teorizzava che i leader politici affermati hanno “l’autorità carismatica”, un “potere legittimato sulla base delle eccezionali qualità personali di un capo o la dimostrazione di straordinario acume e successo, che ispirano lealtà ed obbedienza tra i seguaci”, così come è avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra, con personalità politiche come De Gasperi, Nenni, Togliatti, Saragat, La Malfa, Parri, Einaudi e poi Fanfani, Moro, Andreotti, Malagodi e, nella destra neofascista, Almirante, sino a Craxi e Berlinguer e sindacali quali Di Vittorio, Lama, Benvenuto, Trentin, Carniti, solo per citare esponenti di una classe autenticamente dirigente, nella temperie ideologica della Prima Repubblica ma espressiva di una politica valoriale e di salda formazione culturale.
Ma nella politica italiana non si intravedono queste qualità, anzi, al contrario, domina l’autoreferenzialità. Si guardi alle elezioni regionali in Sicilia, dove la competizione è avvenuta solo per la conquista della poltrona di Palazzo d’Orleans, senza alcun confronto programmatico a partire dai temi che interessano il Popolo di un’Isola bellissima e sfortunata: lavoro, sviluppo economico e civile, emigrazione giovanile e immigrazione di massa, sostegno alle imprese, riduzione delle tasse, pensioni dignitose, solo per citarne alcuni.
Per la classe politica italiana vale tutt’oggi l’invettiva di Cicerone: “fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?”.