-di Edoardo Crisafulli-
Rinnovarsi o perire, diceva Nenni. Coerentemente con questa massima, i socialisti si sono sempre ingegnati nel rielaborare le loro coordinate culturali. Il partito all’avanguardia ha una cultura politica in movimento, fluida come un magma: guai se si solidifica in dogmi, luoghi comuni, certezze assolute. Già negli anni Ottanta si profilava la sfida: come armonizzare antichi ideali con un processo di modernizzazione che investe con forza dirompente la società, l’economia, la cultura? La politica della DC e del PCI, schiava di categorie consunte, segnava il passo. Ecco che i socialisti tracciano nuovi solchi e utilizzano tecniche di semina innovative, in un terreno abituato a una agricoltura tradizionale. La conferenza programmatica del PSI, svoltasi a Rimini nel 1982, volò sulle ali della creatività e del dinamismo. Claudio Martelli, nella sua memorabile relazione, ebbe il coraggio dell’autocritica: “La verità nuda e cruda è che dopo la stagione del [primo] centrosinistra, la sinistra italiana, noi compresi, non ha più avuto una strategia dell’intervento sociale che non fosse puro assistenzialismo.” È, questa, un attacco velato alla dittatura dei diritti, concepiti oltretutto in un’ottica superata dai tempi. L’assistenzialismo infatti riconosce i diritti sotto forma di mancia ai poveri: è pane per i denti dei plebei; i cittadini della polis democratica hanno ben altre esigenze. Ed è pane indigesto: lo smerciano i politicanti per il voto di scambio – panem et circenses dicevano, appunto, i maestri del clientelismo.
Martelli prende le mosse da un’analisi aggiornata della società italiana. La sociologia marxiana delle classi sociali è ormai “pietrificata”: gran parte dei lavoratori è impiegata nel terziario avanzato e si è ingrossato altresì il “popolo delle partite IVA”. La sinistra egemone non se ne è accorta, è ancora in preda ai fumi dell’ideologia (il mito della centralità operaia, il legame con l’URSS ecc.), e quindi attinge a una teoria dei bisogni semplicistica, ottocentesca. Il riformismo socialista fa rinsavire dall’ubriacatura marx-leninista. Chi rappresenta i ceti professionali emergenti, gli imprenditori di successo del Made in Italy, la miriade di aziende famigliari, gli artigiani che veicolano l’estro italiano – in breve: il ceto medio produttivo, che si è dilatato dagli anni del boom economico? Non di certo la sinistra tradizionale, che guarda con sospetto alla piccola borghesia: un tempo collusa con il fascismo, essa ancor oggi coverebbe impulsi regressivi, reazionari.
E chi dà voce ai nuovi emarginati, che non figurano nel Capitale di Karl Marx? In questo bizzarro Paese in movimento che è l’Italia, continua Martelli, c’è chi ha compiuto un formidabile balzo in avanti e c’è chi è rimasto indietro. Ecco che spuntano nuove povertà che si sommano a quelle vecchie, ancora persistenti. Non c’è solo l’operaio, alienato dalla catena di montaggio. Ci sono altre figure: i reietti della società contemporanea non sono i poveri in senso tradizionale (i denutriti, i disoccupati), bensì gli esclusi “dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute”. Parliamo di persone che, pur essendo in grado di mettere il pane in tavola, arrancano o sopravvivono malamente nella società della competizione feroce. “Penso ai carcerati, agli alcolizzati, ai tossicodipendenti, ai malati, ai disabili, agli anziani, ai minimi pensionabili senza una famiglia che se li prenda in cura, ai bambini appunto, alle donne e agli uomini che sono soli e non vorrebbero essere soli, ai giovani e alle ragazze che bussano al mercato del lavoro e non riescono a varcarne la soglia, che cercano una casa per sposarsi e devono rinviare il matrimonio, che sono esclusi dalla cultura e dal benessere.” Cittadini dimezzati, insomma. L’alienazione sul luogo di lavoro si affianca a nuove forme di povertà – spirituale, affettiva, culturale, materiale – che amplificano il dolore insito nella condizione umana e paralizzano o deprimono la volontà di riscatto.
Martelli non parla di doveri: li dà per scontati. E, all’apparenza, parla il linguaggio arcaico dei diritti assoluti. Ma, a leggere bene, il lessico e la grammatica del PSI stanno subendo una metamorfosi. In una società frammentata, pulviscolare convivono gruppi sociali disparati. La sinistra deve imparare a orientarsi in una nuova costellazione: l’interclassismo. L’attenzione del PSI si concentra su due tipologie di cittadini, che necessitano entrambe di maggiori tutele: quelli che lavorano nei settori più dinamici dell’economia, e danno perciò un contributo decisivo alla ricchezza e al progresso della nazione, e quelli che, rimasti alla base della piramide sociale, non esprimono appieno le loro potenzialità. La meritocrazia – finora estranea all’universo simbolico della sinistra – è linfa vitale tanto per gli uni quanto per gli altri. L’intervento sociale a pioggia favorisce solo politiche rozze e improduttive.
A questo punto Martelli lancia un’idea geniale: il circolo vizioso assistenza-emarginazione può essere spezzato in un sol modo: mediante “un’alleanza riformista fra il merito e il bisogno”. Devono far causa comune i ceti medi, ovvero i cittadini attivi – “coloro che possono agire” perché hanno particolari capacità e conoscenze ––, e gli emarginati, che sono i cittadini passivi – “coloro che devono agire” per evadere dal carcere della nullità, della passività. La sinistra riformista sconfiggerà la destra illiberale/conservatrice solo puntando a una alleanza organica fra i lavoratori delle professioni scaturite dallo sviluppo tecnologico e gli eredi dei proletari di un tempo, spesso analfabeti di ritorno.
Gettato il sasso nello stagno, s’è visto qualche timido cerchio concentrico. Poi il nulla: l’acqua, a sinistra, è tornata placida come prima. Eppure Martelli aveva sottolineato un punto importante: “Se separiamo il merito dal bisogno, il riformismo diviene o tecnocrazia o assistenzialismo”. Parole profetiche, ben possiamo dirlo trentacinque anni dopo. La sinistra egemone, chiusa nel suo torpore e nella sua pigrizia mentale, ha risposto alle povertà, antiche e nuove, proprio nel modo peggiore: propinandoci assistenzialismo e tecnocrazia, a corrente alternata. Né ha saputo sostenere e chiamare sotto la sua bandiera i ceti medi, i quali, colpiti dalla crisi, sono sempre più impauriti e frastornati. Un peccato di omissione o disattenzione, questo, che ha gettato in braccio alla destra le figure più dinamiche dell’economia.
Se si fosse data sostanza politica alla proposta del PSI, che fu bloccata dalle due Chiese dell’epoca, PCI e DC, nonché dalla resistenza passiva delle mille lobby e caste (e delle categorie più tutelate/sindacalizzate) che ingessano ancor oggi il nostro Paese, non dovremmo ripescare addirittura il discorso, scontato, sulle responsabilità del cittadino. Cos’è “il buonismo” – diritto assoluto, sciolto da ogni legame col dovere – se non il volto nobile, idealistico, dell’assistenzialismo? Chiedete, e vi sarà dato. A prescindere. Non importano né i vostri meriti, né ciò che potete dare alla comunità; contano solo i bisogni, ciò che vi spetta. In fondo, se le risorse scarseggiano possiamo pur sempre ricorrere a uno stratagemma collaudato: indebitiamo lo Stato scaricando i costi sulle generazioni future. Il diavolo però fa le pentole, non i coperchi: con la moneta unica questo escamotage non dura nemmeno lo spazio di una legislatura, non si può più utilizzare liberamente. Ogni volta che l’assistenzialismo travolge gli argini, e si spende con larghezza di maniche pur in assenza di sviluppo, ecco che sorge la necessità del governo di tecnocrati che rimette le cose in sesto con annessi e connessi di macelleria sociale (il professor Monti vi ricorda qualcosa?).
La politica delle elargizioni assistenziali non ha intaccato minimamente il potere delle corporazioni, anzi l’una è complementare all’altro. Questo è il patto sociale occulto che frena da decenni l’innovazione e il dinamismo: mance dall’alto e privilegi a iosa. Così si è formata la palude italiana: si ignorano i bisogni degli ultimi, che vanno soddisfatti con un riscatto autentico – la mobilità sociale, una cittadina piena e attiva –; e al tempo stesso si deprimono i talenti, l’innovazione, il merito. L’esercito di chi ha bisogno è aumentato a dismisura, e i manipoli del merito si sono assottigliati: troppi giovani laureati, specializzati, tecnici ecc. sono emigrati all’estero. Risultato: l’economia cresce (quando ce la fa) sbuffando, a ritmi ridicoli.
C’è di più. Ben trentacinque anni dopo la riflessione di Martelli – teniamo a mente questo lasso temporale pazzesco! – la società italiana mica è rimasta al palo, immobile. Formare un’alleanza fra merito e bisogno è ancor più complesso: “coloro che devono agire”, gli emarginati, sono in maggioranza immigrati. S’è creato quindi un gap culturale e linguistico, che ai tempi di Martelli non c’era, rispetto a “coloro che possono agire”: gli italiani nativi e cittadini (si spera) attivi. Naturalmente la recessione ha scaraventato un bel po’ di italiani nella schiera dei nuovi poveri. Sicché ci sono due rischi, collegati, da scongiurare: (a) una guerra fra poveri – italiani contro stranieri – per la ripartizione di risorse sempre più magre; (b) il coalizzarsi della maggioranza degli italiani autoctoni, i ceti più abbienti/colti e quelli a rischio di proletarizzazione, in funzione anti-immigrati. Ragion di più per rilanciar la strategia geniale teorizzata da Martelli. Altrimenti sarà la destra xenofoba a vincere, nelle urne e nei cuori. Solo una alleanza fra meriti e bisogni rinforzerà le fondamenta della comunità nazionale, consentendo l’integrazione effettiva dei nuovi italiani! Ma lo spirito di quell’alleanza va adattato ai nostri tempi: esso richiede il ritorno, sul proscenio della politica, di una coppia troppo a lungo separata: quella formata dai diritti e dai doveri del cittadino.