Anna Frank, l’Olimpico e un morbo che infetta il Paese

-di ANTONIO MAGLIE-

La vicenda degli adesivi di Anna Frank con la maglia della Roma che gli autori (cioè un gruppo ultras sotto diversi aspetti,anche politici, della Lazio, hanno affisso nella curva Sud aperta, in maniera molto originale, al prezzo di un euro a poltroncina a tifosi che non sarebbero dovuti entrare allo stadio) ha riaperto un dibattito ipocrita. Siamo razzisti? Siamo anti-semiti? Ovviamente, prevale la risposta negativa: italiani come sempre nei secoli, brava gente, nonostante qualche macchia scura sulla nostra coscienza storica, che so gli stermini del generale fascista Rodolfo Graziani in Libia o le leggi razziali volute da Mussolini in ossequio al suo alleato Hitler e che portarono alla persecuzione di tantissimi ebrei nostri connazionali, molti dei quali avviati verso tristemente famosi campi di sterminio. Ma si sa, italiani brava gente e, per giunta, dalla memoria cortissima. C’è chi, per interesse, come il presidente della Lazio, Claudio Lotito, dice che in fondo gli autori sono solo quattro ragazzini a caccia di visibilità. Il fatto è che le cose non stanno così e che il problema esploso tanto rumorosamente, è la spia di un malessere più generale.

Diciamolo con chiarezza: i razzisti sono tra di noi e gli antisemiti anche. E sarebbe sciocco pensare che la loro presenza si limiti agli stadi. Gli stadi sono il palcoscenico, la “vetrina”. Quel che spesso sfugge ai raffinati interpreti della realtà italiana è che il calcio, nella sua apparente banalità, è nel nostro Paese più cha altrove, una sorta di laboratorio socio-politico che anticipa i fenomeni e, nel momento in cui assumono caratteri più generali, li accompagnano. Il leghismo nella sua forma originaria anti-meridionalistica e secessionistica cominciò a emergere nelle curve degli stadi del Nord agli inizi degli anni Ottanta con invocazioni rivolte al Vesuvio invitato a “lavare” con il fuoco i napoletani, veri e propri archetipi dell’uomo meridionale. È dalla fine degli anni Novanta che si parla di saldature politiche tra i gruppi di destra nel nome di “Eupalla” (sostantivo caro a Gianni Brera); i saluti fascisti, le croci celtiche, l’urlo “duce, duce” spesso accompagnano le esibizioni che si svolgono sul terreno di gioco insieme ai “buuuh” nei confronti dei giocatori di colore e a un campionario di insulti che anni fa indussero il calciatore, all’epoca del Milan, Kevin Prince Boateng, a interrompere una partita (era un’amichevole e il dettaglio aggiunge solo degrado culturale a degrado).

Lo stadio anticipa, non inventa. Molte delle rivolte che si sono verificate nelle periferie di diverse città italiane (a cui hanno partecipato attivamente anche gli “eroi da curva” mescolati agli agitatori di professione di noti gruppi di destra) o in piccoli centri e attribuite al fastidio determinato da una immigrazione possente per flussi e sregolata per modi, non è che siano state alimentate da pulsioni solidaristiche, semmai sono state arricchite da insofferenze razziali. Se tutto questo veniva in qualche maniera, sino a una ventina di anni fa, occultato da quella che alcuni, spregiativamente, consideravano una logica politically correct e che altro non era, invece, che la tenuta di alcuni valori ancora abbastanza radicati nell’animo nazionale, adesso si manifesta con chiarezza: in uno stadio, in una metropolitana o in in quartiere dormitorio, poco importa. L’impasto tra una predicazione politica che demagogicamente raccatta consensi scaricando sugli altri, sui “diversi” da noi, sui non “italiani” (elevati a simboli di una purezza razziale che non abbiamo mai avuto) la responsabilità delle nostra sofferenze e lo sdoganamento di posizioni che ai principi democratici si sono avvicinate solo parzialmente o per nulla, sta producendo un cortocircuito che potrebbe avere sulla nostra vita di comunità un impatto devastante.

L’idea che il nazismo e il fascismo (con il corollario di razzismo e antisemitismo) sia roba vecchia, da noiosi libri di storia perché ormai son passati più di settant’anni da allora e le cose non possono ripetersi, affascina ampi settori delle giovani generazioni; la democrazia con i suoi principi di convivenza pacifica e rispetto degli altri, di chiunque altro, viene considerata un dato ormai acclarato; l’antifascismo che è stato un sentimento essenziale per la tenuta di questo Paese in momenti durissimi (gli Anni di Piombo, ad esempio) viene oggi vissuto come un reperto archeologico, qualcosa che semmai si conserva in un museo ma di cui nella vita quotidiana si può fare tranquillamente a meno. È in questo vuoto terribile che si inseriscono episodi come quelli dell’Olimpico e che vanno decisamente al di là del recinto specifico (in questo caso, quello calcistico) in cui si manifestano. Il fatto è che mancano i maestri mentre purtroppo abbondano i “pessimi maestri”.

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