-di VALENTINA BOMBARDIERI-
«Mi dispiace Paolo ma non posso mettere ragazzi di colore in sala qui in Romagna la gente è molto indietro come mentalità scusami ma non posso farti venire giù ciao». Il messaggio lo ha ricevuto da Paolo, un ragazzo milanese, dopo avere inviato via mail la copia della carta di identità necessaria per perfezionare il contratto di assunzione con una struttura alberghiera di Cervia. A inviarglielo, il “datore di lavoro” con il quale il ragazzo aveva raggiunto l’accordo per un rapporto stagionale. Il fatto risale al 18 giugno scorso. A denunciare l’accaduto è stata la Filcams-Cgil di Ravenna che sta preparando una vertenza per accompagnare in tribunale il giovane. Paolo ha ventinove anni, è nato in Brasile ma è arrivato in Italia che aveva tre anni. Ha fatto tutte le scuole nel nostro Paese ma a uno come lui Matteo Salvini e Giorgia Meloni (ma anche Silvio Berlusconi) rifiuterebbero la cittadinanza. Della stessa idea, evidentemente, deve essere anche il titolare della struttura alberghiera in questione per il quale è disdicevole far servire ai tavoli del ristorante un ragazzo di colore.
La legge 903/77 vieta la discriminazione sul lavoro e, soprattutto, il famoso articolo 3 della Costituzione sancisce un principio di eguaglianza che tutti dovremmo avvertire come inderogabile (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione si sesso, di razza, di lingua, di religione e di condizioni personali e sociali”). Il giovane vanta una certa esperienza nel settore e aveva già lavorato, nella passata stagione turistica, sulla riviera romagnola. È stato quindi “scartato” per il colore della pelle.
Una storia incredibile nei suoi aspetti negativi, ma significativa nei suoi aspetti sociali e politici: in quale misura questi comportamenti sono ispirati da una propaganda che ha trasformato lo “straniero”, il “diverso” in un pericolo? Risulta insopportabile l’idea che dopo tante battaglie a difesa dei diritti dei lavoratori, un ragazzo che intende guadagnarsi onestamente da vivere, subisca la più vergognosa delle discriminazioni, quella sul lavoro, un mondo in cui dovrebbero contare solo le capacità, le competenze, le qualità anche morali. Il tutto condito con la superficialità di un messaggino in una società in cui si è social attraverso i new media ma asociali nella vita vera, quella vissuta giorno dopo giorno.
Nel 2016, i 26 consultori hanno rilevato 199 casi di discriminazione di tipo razziale contro i 239 dell’anno precedente. Oltre un caso su due è avvenuto in luoghi pubblici, sui posti di lavoro e in una struttura di formazione scolastica. Senza considerare i casi sommersi, che non sono stati denunciati. Il motivo più citato di discriminazione è la xenofobia (94 casi), segue il razzismo nei confronti dei neri (70) e l’ostilità antimusulmana e verso le persone prevenienti da paesi arabi (48). Sei casi riguardavano ebrei.
Numeri che un po’ dovrebbero farci vergognare, non propriamente degni di un Paese civile. Ma soprattutto non è degna di un Paese civile la sottocultura che li muove, che li produce, che li consolida nel tempo. Mentre in Italia in tanti vanno in vacanza in questi giorni di caldo equatoriale, scopriamo che in vacanza non va solo il razzismo che anzi trova comoda sistemazione in un luogo in cui in tanti trascorrono il sospirato riposo estivo. Scomparse chissà dove e chissà per quanto, invece, la tolleranza e l’inclusione: c’è da sperare che dalle ferie tornino al più presto..