Non si dice. Trentin e l’affetto per Di Vittorio

 

-di GIORGIO BENVENUTO e SANDRO ROAZZI-

Non ho ancora completamente eliminato la sensazione di angoscia e di dolore che la morte di Di Vittorio mi ha provocato”. Scriveva così, in una lettera privata alla sorella, Bruno Trentin. La lettera in un bel francese è contenuta nel volume “Bruno Trentin, dalla guerra partigiana al Parlamento europeo” di Sante Cruciani. Mentre la…vulgata metropolitana descrive il recente libro sui diari del periodo in cui Trentin fu Segretario Generale della Cgil come una summa implacabile di giudizi sferzanti e spesso terribili, a quanto pare, su protagonisti della vita politica e sociale in gran parte della sinistra, vale la pena di riscoprire anche questo Bruno Trentin inedito e sorprendente. Del resto anche il libro per ora sembra essere… quasi inedito.

Sorprendente è quella lettera soprattutto in quanto è forse il più bell’encomio che Di Vittorio abbia mai avuto. Assolutamente estraneo ai conformismi di nomenclatura: come uomo prima che come dirigente sindacale, mentre del comunista non vi è traccia.

Dio sa – scrive Trentin – quanto io abbia conosciuto i suoi limiti e le sue debolezze (faiblesses)… ma sento sempre più quello che questo uomo ha rappresentato per me nella formazione dell’uomo politico e… d’homme tout cout”.

Il perché è una manifestazione di ammirazione e, quasi, di affetto: “Sento la sua forza, il suo ottimismo intellettuale sempre provocatore come una delle cose più ricche che mi ha trasformato in questi ultimi anni…”.

E quell’uomo dalla mentalità “de paysan meridionale” era però in grado di leggere la realtà economica e sociale come pochi, vedendo nella società capitalista italiana non un demone da esorcizzare ma la “ricchezza che poteva essere prodotta, piuttosto che la povertà che esisteva”. Del resto come Segretario della Cgil ebbe il coraggio di firmare migliaia di accordi di licenziamenti sulla fine degli anni ’40 per permettere alle industrie diventate macerie di risorgere e dare nuovo lavoro, sfidando impopolarità ed opposizioni che hanno poi come nascosto in tempi successivi questa decisione amara ma necessaria come se fosse stato un incidente di percorso e non il primo passo verso l’Italia moderna e industriale.

Di Vittorio per Trentin ha dunque scelto un suo percorso molto personale, verrebbe da dire come quello che lui poi intraprese: “Egli voleva disperatamente, da autodidatta, essere un uomo del suo tempo; era meravigliato alle nuove macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di auto… Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil di essere escluso; di non giocare un ruolo, riconosciuto, nello sviluppo della società contemporanea”. Parole che suonano come lezione anche in grado di offrire spunti per il lavoro sindacale… sempre che le considerazioni politiche siano sorrette da un propulsore che Trentin non cita ma che si comprende dal suo ragionamento: la passione. Ed in particolare la passione degli autodidatti che animò molti dei protagonisti della rinascita sindacale nel secondo dopoguerra in una lotta tenace per superare l’handicap di aver dovuto lavorare quando si doveva andare a scuola.

Di Vittorio ha saputo essere l’uomo del passato ed al tempo stesso l’uomo di transizione” nel periodo compreso fra “la fin d’une epoque, celle un peu populiste et romantique de l’après guerre, e le debut d’une”.

Quindi non uomo per tutte le stagioni, modello che evidentemente negli anni della sua massima responsabilità avvertirà con evidente avversione, ma un uomo che conservando la memoria preparava il nuovo.

Delle riflessioni e dei sentimenti espressi in questa lettera c’è molto del Trentin che poi abbiamo conosciuto, uomo non facile certo ma anche dotato di convincimenti profondi. Forse proprio la stima che teneva dentro di sé per uomini come Di Vittorio gli avrà accresciuto l’amarezza per quel che vedeva e non condivideva.

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