-di GIORGIO BENVENUTO e SANDRO ROAZZI-
Se ne sono andati in 800 mila, ma la maggioranza non era costituita da stranieri. La recessione ha ricordato all’Italia antiche abitudini come quella di emigrare. Oggi, anche alla faccia del Jobs act che pure qualche utilità ha avuto (ma non lascia… eredi), se ne vanno le… competenze, ma se ne vanno sul serio. Quasi 500 mila negli anni della crisi, secondo i consulenti del lavoro. Ed è scontato che il flusso più numeroso, 380 mila, sia stato da sud a nord.
Di recente il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, ha insistito sul fatto che si debbano abbassare le tasse alle imprese, altro che riforma dell’IRPEF. Qualcuno ha persino trovato nelle parole del Ministro accenti eretici rispetto a Renzi. E Calenda si… pronuncia Confindustria. Ma davvero è questa la via per frenare l’emorragia silenziosa che spopola di risorse umane e giovani il sud? Meglio dubitare. Intanto ci si dovrebbe chiedere perché è stata rimossa la questione meridionale. In secondo luogo perché è spesso rimasta sola la società civile nel contendere territorio e attività economiche alla criminalità nelle regioni meridionali. In terzo luogo come mai le politiche attive del lavoro e gli investimenti (pubblici ma anche privati, viste le agevolazioni a raffica dispensate) si evocano con solennità ma non si fanno. Secondo l’Istat le diseguaglianze di reddito si stanno riducendo. Verrebbe da dire che allora emigrare in realtà e’ più un hobby che una esigenza indifferibile. Ma sappiamo che non è così. In realtà la fuga dai deserti del lavoro è tuttora obbligata. E la parodia del federalismo fiscale adottata non ha funzionato. Inoltre ci sono pure le ristrutturazioni e gli stenti della domanda interna a desertificare ulteriormente. Basta pensare a vicende come quella di Taranto. Mancano i progetti, manca il dialogo sociale vero. E manca il ritorno della politica a cimentarsi con i problemi generali del Paese. Il destino del Sud resta uno di questi.