-di MAURIZIO BALLISTRERI-
Qualche tempo or sono Eugenio Scalfari su “L’Espresso” intervenne sul tema della crisi del rapporto tra politica e cultura, dopo la fine della prima Repubblica. Il fondatore di “Repubblica”, ovviamente, affrontò il tema a modo suo, come colui che attribuisce posti e meriti nel suo personale Pantheon, che, in verità, sembra più da collezionista di figurine Panini con il solito livore antisocialista: democristiani, comunisti, repubblicani, liberali e azionisti citati quale esempio di politici attrezzati sul piano culturale, ma nessun socialista. Eppure, solo per ricordare qualche nome, Francesco De Martino, tra i più illustri accademici del diritto romano, Giuseppe Saragat, tra i più importanti studiosi di Hegel, Marx e Goethe, e ancora Riccardo Lombardi, Lelio Basso, Vittorio Foa, Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo, e, durante il “Nuovo corso”, Amato, Giugni e Martelli, sono solo alcuni esponenti del socialismo italiano portatori di un personale significativo patrimonio culturale nell’impegno politico realizzato.
In quell’articolo, comunque, Scalfari coglieva un dato incontrovertibile della politica della cosiddetta “seconda Repubblica”, la scissione con la cultura, trasformatasi in vera e propria incomunicabilità. Il ceto politico è divenuto vieppiù autosufficiente, indisponibile nei confronti di qualsiasi contributo culturale che potrebbe costituire controllo, verifica o denuncia. Una condizione a cui la crisi delle grandi ideologie che ispiravano i partiti di massa nel ‘900, ha dato un contributo decisivo.
E così all’intellettuale critico è subentrato il tecnico “usa e getta”, al quale si commissiona uno studio o una ricerca o si attribuisce un ruolo istituzionale temporaneo, ma non un impegno diretto e costante in politica. Proprio le “parentesi” dei governi tecnici subite dal paese, nelle fasi di crisi più drammatica, Ciampi, Dini e soprattutto Monti, testimoniano di questa mutazione del rapporto tra politica e competenza: la surroga tecnocratica è la prova dell’incapacità, al fondo, degli intellettuali di impegnarsi al di fuori dell’occasionalità e di una funzione “esterna”, che si configura come speculare all’autoreferenzialità di una politica senza cultura e programmaticamente fungibile attorno al “mito” del mercato. Politica e cultura incapaci, insomma, di comunicare e di dare corpo da una sintesi virtuosa ed efficace.
Sono sempre attuali gli studi di Norberto Bobbio, riassunti, tra l’altro, nel 1955 nel celebre volume “Politica e cultura” per Einaudi, su di una “politica della cultura” che fosse: “oltre che la difesa della libertà, anche la difesa della verità. Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. (…) Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti”. Affermazioni che sembrano scritte per i nostri giorni.