Go Beyond: governare l’economia coinvolgendo i lavoratori

-di GIANMARIO MOCERA*-

 

 Articolo 46 (Costituzione della Repubblica Italiana)

Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

 

Il paradigma che il mondo del lavoro, sia pubblico che privato, non vuole capire è tutto lì, nella vicenda Alitalia. Non mi riferisco alla decisione dei lavoratori di votare no al referendum sul protocollo d’intenti, anche se nutro riserve per il modo con il quale si usa la consultazione; una modalità sinceramente molto discutibile soprattutto quando, in calce all’accordo appongono le proprie firme tutte le sigle sindacali rappresentative della maggioranza dei lavoratori, l’azienda e il governo. Ed è sorprendente il fatto che tutti siano d’accordo che l’ultima parola la debbano avere i lavoratori. Sono sorpreso da questa determinazione democratica delle parti, perché chiedere il voto quando si ha una legittimazione prevista dall’art. 39 della Costituzione? “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono rappresentare unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi, con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Se di fatto è applicato l’articolo 39 della Costituzione, non è necessario  votare, indire un referendum. Insomma, si è voluto lasciare la “palla” ai lavoratori e in questa scelta si intravede una abdicazione di responsabilità da parte dei sindacati, dell’azienda e del governo.

Nella storia il primo referendum come forma di democrazia diretta, in qualche maniera certificato, fu quello che contrappose Barabba a Gesù, e il popolo scelse Barabba, la votazione fu obbligata dall’incertezza di Ponzio Pilato e, allora, quando non c’è soluzione, che sia il popolo a decidere!

 Il referendum, seppur strumento importante di democrazia, deve essere usato con attenzione: lo stesso statuto dei lavoratori lo prevede su casi di competenza sindacale generale.

La cronaca ha veicolato verso la pubblica opinione in larga misura solo il “no” dei lavoratori, di conseguenza molti cittadini non hanno compreso ciò che è accaduto e di conseguenza nella vulgata popolare è alto il rischio di scaricare solo sui lavoratori la responsabilità dell’eventuale fallimento di Alitalia.  Un rischio che lievita nel clima impastato (a continuo uso elettorale) di populismo e demagogia: non è un caso che già circolino sondaggi che parlano di un 70% degli italiani favorevoli alla chiusura di quella che un tempo era orgogliosamente definita la compagnia di bandiera.

Un errore questa semplificazione perché in realtà dietro il declino vi sono responsabilità storiche per sintetizzare le quali è sufficiente riproporre un noto motto popolare: il pesce puzza dalla testa.

Qual è la testa? Per capirlo diventa essenziale compiere alcuni cenni storici sulle vicende che hanno visto Alitalia protagonista negativa sul palcoscenico  economico nazionale tanto ai tempi in cui faceva parte del Gruppo IRI, quanto successivamente cioè nel momento in cui, a seguito della privatizzazione, è stata obbligata a cimentarsi direttamente con il mercato e la concorrenza.

Era il 1995: l’azienda era funestata e paralizzata dagli scioperi corporativi dei piloti, una vertenza che non a caso prese il nome di “aquila selvaggia”; fermate improvvise, certificati di malattia a raffica, aeroporti di Fiumicino, Linate, Malpensa ridotti a bivacchi per passeggeri sull’orlo di una crisi di nervi; scene di rabbia e rassegnazione.

Una vertenza tutta economica che aveva diviso e contrapposto il personale di terra a quello di volo, una sorta di metafora che opponeva chi stava con i piedi per terra a chi vagava con la testa tra le nuvole.

Anche vent’anni fa Alitalia navigava in cattive acque. Andando a cercare nell’archivio storico di “Rassegna Sindacale”, periodico della CGIL, ho ritrovato le cause di quell’agitazione ben spiegate da Walter Cerfeda, segretario Confederale. La rilettura delle sue parole ci fa capire quanto poco, a distanza di tanti anni, sia cambiato nell’atteggiamento delle parti.

Scriveva Cerfeda: “È una vertenza assolutamente corporativa: nasce da ragioni contrattuali e deriva dal non voler concorrere al risanamento di un’azienda che è al collasso. Alitalia ha quattromila miliardi di lire di debiti su seimila miliardi fatturati: altre aziende in queste situazioni avrebbero già portato i libri in tribunale.  Sia il personale di terra che gli assistenti di volo, nel luglio (1994) dell’anno scorso, si sono fatti carico di contribuire al risanamento dell’azienda restituendo anche dei pezzi di normative contrattuali e congelando gli aumenti salariali. Anpac e Appi invece quest’operazione non la vogliono fare: pensano che i loro diritti non possano essere messi in discussione, che c’è un vuoto contrattuale che dura da quattro anni, hanno fatto calcoli certosini su ciò̀ che hanno perso del loro potere d’acquisto e rivendicano quaranta milioni di aumento annuo.  L’azienda ha controproposto ventotto milioni. Su questa distanza di dodici milioni hanno fermato il paese”.

Sono passati vent’anni e le cronache sembrano descrivere situazioni quasi identiche: c’è un’azienda da salvare e risanare;  una parte di lavoratori rifiuta di concorrere al salvataggio aziendale. In ogni caso, non m’interessa, in questo momento, porre l’accento su quest’aspetto della vicenda; preferisco sottolineare le responsabilità del management e delle proprietà (varie e a volte solo eventuali) di Alitalia.

Diceva sempre Cerfeda: “L’azionista, IRI in questo caso, deve dotare l’azienda dei finanziamenti necessari a mettere in piedi un piano di rilancio credibile, rinnovando la flotta e allo stesso tempo conservando le rotte, abbiamo chiesto all’Alitalia un serio piano di riorganizzazione e di rilancio, ma da allora ci siamo trovati di fronte una chiusura, noi continuiamo a dire che se IRI aspetta ancora qualche mese, il malato muore.  Il piano preparato dai vertici di Alitalia è una riorganizzazione che non ha in sé gli elementi del rilancio. È basato sul taglio delle rotte a lungo raggio, riducendo così la compagnia di bandiera a un puro vettore regionale.  La concorrenza a livello europeo è talmente alta che l’Alitalia si sta precludendo in qualche modo proprio la possibilità di  futuro”.

Stessi problemi di venti anni fa; oggi, però, con un’aggravante: Alitalia si è veramente giocata il futuro e le preoccupazioni espresse nell’intervista da Walter Cerfeda hanno acquisito drammatica concretezza. Alitalia non fa concorrenza a nessuno: è ormai una compagnia vuota, un guscio senza sostanza, in Italia operano altri vettori meno costosi, che coprono tutta Europa; inoltre la rotta Milano-Roma, un tempo la più redditizia e gettonata per via della clientela business, oggi è monopolizzata dai treni ad alta velocità; il lungo raggio è ampiamente coperto da altre compagnie e ad Alitalia rimangono spazi esigui per pensare a un diverso approccio al mercato e a una possibilità alternativa per soddisfare le domande dei clienti.

Una visione miope e contraddittoria del gruppo dirigente di Alitalia e della stessa IRI (e, ovviamente, delle proprietà che hanno fatto seguito al “padrone” pubblico): si vuole la sopravvivenza di una compagnia di bandiera, si pretendono aeroplani capaci di portare l’Italia nel mondo, ma non si fa nulla per affrontare seriamente i problemi, anzi l’azienda si chiude a riccio. Ma diamo ancora la parola a Cerfeda: “Per ridurre i costi, l’azienda, non avendo l’arma del licenziamento, ha scelto la via dell’«affittaggio». Su alcune linee che viaggiavano sull’orlo della perdita (la Roma-New York-Boston-Montreal, per esempio), per mantenerle in attivo ha deciso di sostituire personale italiano con personale australiano preso in affitto. Noi abbiamo detto che la cosa non stava né in cielo né in terra, perché non ci convinceva la giustificazione dell’azienda che era un’operazione limitata a quella tratta: se quel modello avesse funzionato, Alitalia avrebbe tranquillamente esteso il ricorso a queste forme subdole e illegittime. Un’azienda come Alitalia deve avere un occhio ai costi, ma l’altro alla qualità del servizio. Dare in mano a piloti e assistenti di volo stranieri tratte di una compagnia di bandiera porta immediatamente un peggioramento che viene a costare di più̀ dei risparmi che si possono fare. La cosa è talmente vera che sulla tratta che ricordavo prima molti emigrati italiani, che normalmente viaggiavano Alitalia, proprio in quanto compagnia del proprio paese, vista la novità, hanno pensato bene di cambiare. La soluzione è quella di cercarsi una partnership, un’alleanza. Altrimenti, riducendosi a vettore regionale e non avendo più il monopolio del mercato interno con la liberalizzazione alle porte, in un mercato affollato come quello europeo avrebbe ben poche chance di sopravvivere”.

Cerfeda, in maniera profetica, in quella intervista metteva a fuoco le vere problematiche della nostra compagnia di bandiera: niente investimenti, tutto al risparmio (per quanto riguarda il servizio perché per il resto le cose sono andate diversamente), ricorso a soluzioni singolari come “l’affittaggio” (oggi si chiamerebbe outsourcing). Insomma la situazione odierna è in buona misura riconducibile agli errori del passato, nonostante il sindacato confederale italiano avesse ben chiaro lo scenario che si sarebbe prospettato a medio e lungo termine. Abbiamo affrontato la liberalizzazione del mercato senza un progetto coerente di partnership, alleanza o fusione con altre compagnie europee: l’ipotesi era massicciamente osteggiata, dall’Alitalia, da alcuni settori dei lavoratori e dalla politica, non quella generica ma quella dei primi ministri italiani (spalleggiati spesso, in virtù di interessi non sempre confessabili, dai piloti, troppe volte manovrati politicamente) che hanno sempre impedito possibili accordi di quel tipo, in primis Mister Silvio Berlusconi: “L’Alitalia agli italiani!” (con il corollario: così facciamo uno sgambetto a Prodi, operazione che trovò sponde efficaci all’interno dell’azienda, tra i dipendenti meglio retribuiti e capire a chi facciamo riferimento è decisamente semplice).

Peccato che il lusso di una compagnia di bandiera sia costato molto ai contribuenti italiani che poi, nella veste di utenti, avevano già da qualche tempo  abbandonato Alitalia in virtù di una scelta conseguente a una semplice valutazione: volare low cost è decisamente più conveniente.

Rivendicazioni corporative come quelle di “Aquila selvaggia” hanno reso evidente quanto sia stato profondo il distacco tra lavoratori cosiddetti “normali” (in altre parole quei lavoratori che, tutti i giorni, hanno a che fare con il buon andamento della propria azienda sul mercato) e altri lavoratori “speciali” che in virtù di un potere contrattuale forte possono permettersi retribuzioni e rivendicazioni a prescindere e di mettere sotto scacco, non solo il servizio di trasporto, ma soprattutto la politica, che si fa ricattare e coglie la ghiotta occasione per cavalcare con facili slogan la situazione. Diceva sempre Cerfeda: “L’azienda ha un comportamento ambiguo con i piloti. La situazione è esplosa oggi, ma la trattativa va avanti da 15 mesi. E in 15 mesi l’azienda non ha mai avuto il coraggio di dire un no duro a questa rivendicazione dei piloti che non soltanto non vogliono concorrere al risanamento, ma rivendicano come variabile indipendente il riconoscimento economico richiesto. Questa rivendicazione è fuori dagli accordi del 23 luglio del ’93, è una pretesa che non risponde allo spirito del protocollo né a prassi contrattuali, un sindacato confederale responsabile non può accettare simili condizioni”.

Nei cieli, dunque, la divisione settaria tra i piloti e gli altri; nelle ferrovie tra i macchinisti e gli altri; a conti fatti, una situazione che nel passato, almeno nel pubblico, funzionava producendo questa conseguenza: chi “guida”, organizzandosi in corporazioni, ha più potere contrattuale e anche di “interdizione” pur essendo numericamente solo una minoranza (a volte esigua). Questo avveniva negli anni 90: un sindacato confederale che rappresentava ed era rappresentativo di quei lavoratori che operavano a terra, che giustamente si poneva il problema della sopravvivenza dell’azienda e dei posti di lavoro, e che più di altri, forse anche più dell’azienda, si preoccupava della sorte di Alitalia. Lavorare nella compagnia di bandiera è sempre stato un privilegio, come essere un Corazziere della Repubblica… ma Cgil-Cisl-Uil avevano pochi tesserati tra i piloti mentre il potere contrattuale era nelle mani di organizzazioni e sigle corporative che con l’azienda firmavano fruttuosi accordi, alle spalle dei contribuenti e di quei lavoratori, della stessa compagnia, che operavano e operano a terra.

Oggi la situazione è completamente ribaltata. Quasi il 70% dei lavoratori  Alitalia ha votato contro l’ipotesi di accordo firmato da quasi tutti i sindacati presenti in azienda, anche quelli corporativi (solo la sigla dei CUB non ha aderito). I lavoratori votando no in massa hanno dichiarato di non voler prendere parte al risanamento dell’azienda; hanno ritenuto inaccettabili i “sacrifici” sottoscritti al tavolo negoziale e cioè la riduzione complessiva della retribuzione dell’ 8%, la diminuzione dei riposi annui e la cassa integrazione guadagni per 980 lavoratori.

Questo è un dato che va analizzato perché c’è un aspetto nella vicenda che presenta sfaccettature apparentemente perverse o autolesionistiche: i lavoratori respingono il protocollo pur sapendo che non ci sono alternative e che proprio questa assenza di alternative ha indotto quasi tutti i sindacati ad aderire all’intesa. La premessa della trattativa e della sua finale conclusione era chiara a tutti: in caso di voto contrario c’è il commissariamento della società.

Se la premessa era chiara, se tutti i sindacati rappresentativi hanno firmato, perché, allora, ricorrere al voto referendario? Nel richiamare l’art.39 della Costituzione volevo sottolineare questo dato: ormai il referendum tra i lavoratori è diventato una consuetudine, si vota su tutto, anche se il sindacato in modo unitario firma le intese. Un doppio binario di democrazia, da una parte quello previsto e legittimato dalla costituzione e dalle leggi, dall’altra una forma, ulteriore, di democrazia diretta, che si contrappone e che può ribaltare ciò che il sindacato legittimamente ha firmato sulla base di un principio essenziale in democrazia: quello della delega.

Ritengo che in una situazione di crisi come quella rappresentata nella vertenza Alitalia, non si dovesse procedere al referendum, poiché l’intesa era legittima anche dal punto di vista giuridico: le parti erano tutte rappresentate, impresa, lavoratori e governo. Lasciare ai lavoratori questa scelta, non solo ha delegittimato i firmatari, ma ha dato spazio a tutti quelli che oggi dicono che il sindacato non serve e che con semplici regole di democrazia diretta (che poi si risolvono normalmente nel potere decisionale di uno solo come i fatti confermano e come solo gli intellettualmente orbi o disonesti contestano), da esercitare nei luoghi di lavoro, si governano anche le relazioni sindacali e si risolvono crisi complicate che riguardano non solo circa ventimila lavoratori (indotto compreso) ma anche un più generale modello di sviluppo del Paese almeno per quanto riguarda gli aspetti della mobilità collettiva.

Il Movimento 5 stelle sta sventolando questa bandiera: via i corpi intermedi dalla società, il che significa che il “movimento” di proprietà di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio è impegnato a smantellare ciò che è previsto nella nostra Costituzione. Un atteggiamento singolare visto che poi Alessandro Di Battista si vanta di aver solcato in scooter in lungo e in largo l’Italia per sostenere le ragioni del “no” al referendum voluto da Matteo Renzi proclamando, contemporaneamente, l’intangibilità della Carta. Insomma, da un lato si puntella la Costituzione (formalmente), dall’altro la si piccona (sostanzialmente e nell’interesse del “principe”, il comico di Genova e il suo sodale milanese). Con un unico, reale obiettivo: la destabilizzazione istituzionale in ossequio ai principi del populismo e del demagogismo trionfante che sembrano puntare diritti a forme autoritarie di governo della cosa pubblica.

Il disegno prevede il superamento della rappresentanza sindacale per costruirne una nuova, aziendale, regolata con strumenti di democrazia diretta, con referendum, magari anche online, su una piattaforma, Rousseau ad esempio, molto oscura, ambigua e manipolabile. Il tutto per dimostrare che il sindacato non serve, che i negoziatori di professione sono reperti archeologici; evviva il dilettantismo che tanti successi sta già mietendo a livello politico (l’amministrazione romana, docet). Insomma è finito il sindacalismo che si assume le responsabilità, che ci mette la faccia, che si becca anche le critiche e, semmai, come accadeva un tempo, pure i bulloni. Temi sui quali i sindacati confederali dovrebbero riflettere per riprendere tra le proprie mani la questione dell’attuazione dell’articolo 39 perché se non lo faranno loro, lo faranno altri con intenti punitivi (qualche accenno lo si può già ritrovare in un pezzo di programma pentastellato approvato, come al solito con il trasparentissimo voto online).

Ma torniamo, dopo questo lungo inciso, ad Alitalia. A questo punto con una procedura concorsuale aperta, i negoziati sindacali, anche quelli corporativi, vanno in secondo piano; il commissario deciderà, in stretto contatto con il giudice. Sceglierà le “soluzioni migliori” per l’azienda e per i lavoratori secondo i suoi personalissimi e sostanzialmente insindacabili convincimenti.

Abbiamo in passato commentato sul blog della Fondazione Nenni la vicenda di Almaviva: i lavoratori del call center romano hanno rifiutato l’accordo sindacale che prevedeva una diminuzione dello stipendio; a seguito del voto contrario sono state spedite 1.611 lettere di licenziamento,  anche in questo caso i lavoratori hanno rifiutato di partecipare al risanamento dell’azienda preferendo affrontare l’ignoto, almeno dal punto di vista lavorativo. I due casi non sono completamente omologabili: i lavoratori di Almaviva erano tutti part time a 500 euro al mese e una riduzione di stipendio, anche minima, si sarebbe vista e, soprattutto, sentita; diverso il discorso per i lavoratori di Alitalia che possono contare su buste-paga decisamente più pesanti. Dunque, due negoziati poco assimilabili. Tuttavia le scelte alla fine si sono rivelate analoghe: si è deciso di non partecipare al risanamento dell’azienda, almeno nelle forme definite negli accordi prefigurati e poi respinti.

Responsabilità aziendali, della politica,  dell’Iri, dei ministri, dei sindacati, dei lavoratori: ognuno ci ha messo qualcosa di suo in questa ventennale vertenza che riemerge periodicamente e con sembianze sempre simili. Non dà neanche sollievo il fatto che, lo dico da ex sindacalista, un dirigente confederale avesse denunciato il comportamento dell’azienda e dei sindacati corporativi perché quella denuncia cadde nel vuoto. Sono passati più di venti anni dall’intervista di Cerfeda e la situazione, come lui paventava, è ormai precipitata e Alitalia, se non ci saranno colpi di coda, entrerà in procedura concorsuale e verrà commissariata. In attesa di risanamento? Improbabile.

I numeri sono impietosi, le perdite stratosferiche, il core business di Alitalia non c’è più, gli ultimi accordi con i partner arabi hanno ulteriormente depresso la situazione e le rotte coperte sono sempre più marginali dal punto di vista economico.

Il confronto con altre compagnie sottolinea impietosamente le distanze che separano il vettore italiano dagli altri (ormai per lei teorici) concorrenti: Lufthansa ha più di 120.000 dipendenti, un fatturato di 31 miliardi di euro, utili per 1,7 miliardi di euro, un rapporto passeggeri-posti occupati pari all’ 80%; Ryanair ha 11.000 dipendenti, un fatturato di7,5 miliardi di euro, utili per 1,2 miliardi di euro, rapporto passeggeri-posti al 93%; Alitalia ha 12.500 dipendenti, ricavi per 3,3 miliardi di euro, perdite per 2 miliardi di euro, rapporto posti-passeggeri al 76%.

Questa la dura realtà delle cose: Alitalia ha troppi debiti, il conto economico continuamente in perdita e nessun azionista intende più mettere soldi in un pozzo senza fondo. Una situazione che si trascina almeno da un quarto di secolo. Cosa rimane? Un po’ di aerei, i lavoratori, la storia, le divise disegnate da Mila Schoen, un pezzo di Made in Italy che non siamo riusciti a difendere e nel quale ormai nemmeno i dipendenti sembrano credere.

Lavoratori che accettano di mutare la propria condizione in azienda e altri che non accettano, il sindacato che non riesce a governare questi processi e soprattutto denuncia deficit preoccupanti di rappresentatività dimostrando così che il suo progetto politico spesso nelle crisi più complesse, non riesce a trovare il sentiero giusto per riformare non solo i modi della contrattazione, ma anche l’approccio al sistema produttivo. La questione in fondo è semplice e non più eludibile: quale deve essere il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle aziende? Perché è evidente che in momenti così duri non si può pensare che i lavoratori firmino cambiali in bianco a un management di cui non si fidano (per quanto un po’ imbellettato rispetto a quello che ha prodotto il disastro) e a una politica che ha dimostrato di non avere una coerente politica industriale. È evidente che la richiesta di sacrifici deve essere accompagnata con la concessione di poteri, di controllo e di gestione. Perché non è possibile chiamarli al voto solo quando ci sono le grane da risolvere e un conto da pagare; non si può pensare di invitarli al senso di responsabilità su scelte che sono state compiute altrove e poi escluderli dalla vigilanza sull’efficacia dei loro sacrifici. Non può funzionare così, corporativi o no c’è bisogno di una risposta politica di ampio respiro. Di un progetto. Anzi, c’è bisogno solo di volontà politica perché il progetto c’è ed è contenuto in quel vangelo laico che chiamiamo Costituzione.

È tempo di una nuova visione della produzione: se si intende coinvolgere i lavoratori, bisogna farlo dall’inizio non alla fine, quando di loro si ha bisogno per rimettere a posto i cocci. Vanno introdotti sistemi di partecipazione veri, costruiti e strutturati preventivamente attraverso una negoziazione tra le parti fondata su una seria disciplina legislativa; va creato un sistema duale, già previsto nella nostra legislazione, ma dal quale è esclusa la presenza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza.

L’Art. 46 della Costituzione può essere la chiave di volta; il suo contenuto la pietra su cui edificare un robusto edificio normativo: “Ai fini della elevazione economica e sociale e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei termini stabiliti dalla leggi, alla gestione aziendale”. 

C’è bisogno di ridurre la distanza tra impresa e dipendenti: c’è bisogno di un coinvolgimento diverso, il nostro sistema di relazioni sindacali è chiuso in un recinto e la Costituzione Italiana nell’art. 46 esorta il legislatore a creare le condizioni per la collaborazione e la gestione delle aziende da parte dei lavoratori.

La responsabilità di questa mancata applicazione della Costituzione in parte può essere ascritta alle stesse organizzazioni sindacali, ma in larga misura va attribuita alle imprese da sempre impreparate (contrarie) a modelli partecipativi; le stesse associazioni datoriali sono recalcitranti nell’accettare modelli simili a quelli introdotti in Germania negli anni 70 dal Cancelliere Willy Brandt attraverso la legge sulla co-determinazione, il  bestimmungen .

Brandt e la socialdemocrazia tedesca introdussero la legge per rendere i lavoratori davvero protagonisti nella gestione aziendale. E per esperienza diretta posso dire che l’inserimento dei lavoratori nei comitati di sorveglianza ha prodotto risultati decisamente positivi dal punto di vista del coinvolgimento e della fidelizzazione (un aspetto su cui persino i “liberisti” americani pongono l’accento): il dipendente tedesco ci tiene alla propria azienda, possiede le azioni della società in cui lavora, stabilisce un rapporto di fiducia perché attraverso il controllo e la partecipazione è informato sull’andamento dell’impresa, è al corrente di quel che potrà accadere in conseguenza di determinate scelte ben prima che effettivamente accada, le cattive sorprese sono così ridotte al minimo.

 Il legislatore italiano ha preferito, invece, non regolamentare, anzi ha sempre provato a  distruggere il sindacato, quel corpo intermedio che dà fastidio al manovratore: alcune libertà fondamentali sancite nella Costituzione hanno visto la luce solo negli anni 70, con l’introduzione dello statuto dei lavoratori (oggi largamente smantellato, da governi di sinistra, destra e, più o meno, centro, politici o con travestimenti tecnici), venti anni dopo l’approvazione della Carta: mica pochi! Fu il risultato di lotte aspre e i lavoratori uccisi a sangue freddo non erano episodi occasionali, basta correre con la memoria all’eccidio di Modena nel 1950 (sei operai uccisi dall’esercito mentre manifestavano per i propri diritti e il rispetto della dignità personale sul lavoro, una vicenda ben raccontata in un libro di Eliseo Ferraris: “a sangue freddo”).

Un sindacalismo maturo deve rendersi conto che paradigmi nuovi sono già entrati a far parte del nostro mondo: far finta di nulla potrebbe rivelarsi un errore mortale. La rappresentanza e la rappresentatività sono le frontiere sulle quali bisogna misurarsi. Parliamo di populismi e demagogia, argomenti  molto attrattivi per un popolo stanco. Ma la stanchezza deriva dalla situazione politica, dall’incertezza, dalle paure: sensazioni, sentimenti e condizionamenti psicologici che pesano nei giudizi delle persone. L’assenza di coraggio produce reazioni di tipo conservativo.

  Il sindacalismo di oggi è alle prese con le medesime crisi di rappresentanza e rappresentatività del passato, ma la forza delle organizzazioni confederali è sempre stata quella di individuare con chiarezza la via di uscita migliore e più dignitosa per i lavoratori. Oggi c’è bisogno di una visione prospettica perché non possiamo lasciare spazio a chi vuole distruggere nei fatti un sistema democratico complesso, articolato ma anche ricco (giustamente) di garanzie (esattamente quelle che nel variegato e spesso folklorico palcoscenico politico in tanti vogliono distruggere). La nostra Repubblica è matura per percorrere a livello di rapporti economici strade legislative (e negoziali) nuove che prevedano il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese, superando chiusure e miopie che hanno reso il nostro sistema produttivo vecchio e ripiegato su se stesso. Bisogna dare concretezza ai concetti espressi con chiarezza disarmante nella Costituzione italiana: questo è il salto di qualità da compiere, in una visione unitaria e non frammentata in rivoli poco concludenti dell’azione del sindacato; un’azione che possa così tornare a essere all’altezza dei tempi migliori di un sindacalismo che si esaltava nella difesa dell’interesse generale andando oltre non solo i beceri corporativismi ma anche gli schemi usati, abusati e ormai inefficaci. Il caso Alitalia può essere l’occasione per indurre il sindacato a ritrovare quella “voglia di volare” con le ali dell’immaginazione che ha perso ormai da troppo tempo, per riscoprire quell’impeto realmente riformistico che a cavallo degli anni Sessanta e Settanta  ha consentito di anticipare al tavolo negoziale quello che soltanto successivamente il legislatore (anche allora pigro e timoroso) avrebbe solo più tardi codificato in articoli e commi. È pressante l’esigenza di trovare soluzioni nuove a crisi aziendali che diventeranno sempre più numerose con il progresso tecnologico: servono strumenti inediti perché da sola una convocazione ministeriale non risolve i problemi.

*Articolo apparso sul numero 3, anno 2017 della rivista della Fondazione Nenni, “L’articolo1”

 

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