“L’ultima notte” di Bruno Buozzi

-di ANTONIO MAGLIE*-

25.1 “Il mio compagno, Bruno Buozzi”

Poi salirono sul camion. Avevano fretta perché da tre ore gli americani erano a Roma e il generale Mark Clark guardava con occhi ammirati il colonnato di San Pietro. Quasi nello stesso luogo, a distanza di quattordici chilometri: l’armonia delle forme del Bernini e quell’insopportabile immagine di dolore e morte, quei quattordici corpi quasi riuniti in un ultimo abbraccio a cercare conforto o una salvezza impossibile. L’autista tedesco, nella fretta, aveva premuto con troppa foga il pedale dell’acceleratore per mettere in moto il camion. E i carburatori, all’epoca, si ingolfavano facilmente. I contadini che avevano assistito li aiutarono, con una spinta a rimetterlo in moto: non vedevano l’ora che quella banda di macellai andasse via, portandosi dietro quell’olezzo di morte che lasciava al passaggio. Quel vecchio camion non avrebbe percorso troppa strada. I contadini diedero una sistemata a quei corpi. Erano le 18 e la sera avrebbe cominciato ad avvolgere con il suo lenzuolo nero, nero come il colore del lutto, la fotografia desolante di quel massacro. Il giorno dopo a La Storta arrivarono gli americani. Troppo tardi. Videro anche loro, quella scena. Li portarono all’ospedale Santo Spirito per il riconoscimento.

L’umidità della notte, l’esposizione alle intemperie, li aveva trasformati. I volti più gonfi. Bruno Buozzi venne riconosciuto per il suo cappotto scuro e per un dettaglio: un “fagottello” di biancheria infilato nella tasca sinistra del soprabito al momento dell’abbandono del carcere di via Tasso per quel suo ultimo viaggio. In cinquantadue giorni si era consumato il suo martirio, in quella campagna anonima, dove oggi sorgono villette a schiera. È rimasta una croce di pietra, “oscurata” dal disinteresse degli uomini, troppo occupati a inseguire desideri e ambizioni, poco solleciti a preservare la memoria. Quella frase, “demmo la vita per la libertà”, a tanti deve apparire banale, esattamente come la violenza che tolse la vita a quattordici persone; banale perché quel che ci gira attorno finisce per apparire, nella sua normalità, qualcosa che ci è dato a prescindere dai nostri atti e dai nostri comportamenti: non dobbiamo conquistarci nulla, non dobbiamo meritarci nulla; tutto ci è dovuto, come l’aria che respiriamo. Ed esattamente come l’aria che respiriamo, anche la libertà l’ apprezzi pienamente soltanto quando l’hai perduta. Lo disse Pietro Calamandrei, vale ancora oggi. Il tutto accentuato dal bisogno di dimenticare, di voltare pagina, semmai anche di rassicurare e rassicurarci. Un modo per raccontarci: “quella ferocia era di altri, non ci apparteneva”. Italiani, come sempre, brava gente. Eppure su quel camion qualche connazionale c’era e non come prigioniero, anzi come ostaggio, ma in veste di carnefice, volenteroso carnefice.

Quella ferocia apparteneva anche a noi o a qualcuno di noi. Se così non fosse non si riuscirebbe a capire il senso di quel bigliettino anonimo fatto pervenire a Marcella Monaco, nel palazzo di via Lucullo che oggi ospita la Uil e che a quei tempi era la sede provvisoria del Psiup. Marcella Monaco e il marito Alfredo svolsero un ruolo decisivo durante la guerra di liberazione. Lei faceva la staffetta partigiana e organizzava il trasporto delle armi. Ma aveva casa in via della Lungara, all’interno di Regina Coeli perché Alfredo era il medico del carcere e lì ospitavano i partigiani. Furono determinanti nell’evasione il 24 gennaio del 1944 di Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Luigi Allori, Luigi Andreoni, Carlo Bracco, Ulisse Ducci e Torquato Lunedei, tutti condannati a morte. Il piano era stato messo a punto da Giuliano Vassalli (anche lui “ospite” di via Tasso negli ultimi giorni di occupazione nazista) e Peppino Gracceva. Furono aiutati da Massimo Severo Giannini e Ugo Gala che trovarono complici efficientissimi all’interno del penitenziario nei coniugi Monaco e in Filippo Lupis.

Quel bigliettino anonimo venne consegnato trent’anni fa da Marcella Monaco ad Aldo Forbice. A scriverlo, una SS italiana pentita. Diceva: «Sono stato al servizio delle SS e vi conobbi quando voi e parecchi altri, compresi Buozzi, Bracco, Doddi, Baracco e molti altri, andando via i tedeschi da Roma, anch’io partii con loro per potermi lavare di tutte le malefatte ed in questa partenza conobbi altri disgraziati. Ma strada facendo, i tedeschi parlavano che al più presto volevano sbarazzarsi di tutti. Io non potei più sopportare questa carneficina ed al momento buono scappai. Iddio voglia che i poveri deportati siano ancora salvi: cercate di perlustrare le zone – Storta-Daccamo-Campagnano-Monterosi-Nepi-Sutri – e se caso mai qui non trovate nulla, cercate nel Cimino. Andate armati, non fidatevi dei carabinieri e siate in molti. Fate subito… Ho saputo del vostro nome da un tale che ha una sorella che si chiama Marcella. Caso mai arrivaste in tempo, io mi farò poi vedere». Il “tale” altri non era che il fratello di Marcella Monaco, Luciano Ficca che, tra l’altro, ebbe un ruolo nella liberazione di Pertini e Saragat e che, “ospite” a via Tasso, venne fatto salire su un camion partito prima di quello che accompagnò Buozzi nell’ultimo viaggio. Via Tasso oggi è un museo e una strada stretta nel traffico caotico delle vie di maggiore scorrimento come via Merulana, via Labicana, viale Manzoni. Nei giorni dell’occupazione nazista, dall’11 settembre del 1943 al 4 giugno 1944, fu la sede della “fiera degli orrori”, il carcere del Comando della Polizia di Sicurezza, il quartier generale della Gestapo. Bruno Buozzi era finito lì, immediatamente dopo l’arresto. Cella numero 6 e poi, negli ultimi giorni, il 2 giugno, era stato trasferito al piano terra.

Quella cella l’ha descritta un prigioniero, compagno di sventura di Buozzi, calabrese di Tropea, arrestato perché renitente alla leva. Aveva redatto un diario che, in forma anonima, poi spedì alla vedova del leader sindacale. Raccontava di una cella «troppo piccola per alloggiare sette persone. Le sue dimensioni possono essere presso a poco di m. 3.30 per 2,30. In permanenza ci illumina una lampadina elettrica la cui luce dopo pochi giorni, mi dà, come del resto anche agli altri, molto disturbo alla vista. A disposizione si ha una copertina con abbastanza insetti (pidocchi grossi in specie). Ci si deve sdraiare sul duro pavimento, e quasi spesso a ridosso l’uno dell’altro. Alla notte si soffre abbastanza per la poca aerazione della cella, tanto che al mattino ognuno di noi nota del gonfiore alla gola… Bruno Buozzi – Tra i miei compagni di cella, uno in particolar modo aveva destato in me sin dal primo giorno una certa attenzione per il suo modo di parlare e il suo atteggiamento che sembrava nervosissimo ma che, invece, col tempo, notai che si trattava di carattere abituale. Era questi un esemplare uomo, dall’età di circa 62 anni, alto, dall’aspetto vigoroso e dal pensiero profondo in ogni discussione. Un giorno, ricordo, vengo spinto dalla curiosità di domandargli la sua professione nella vita civile. A tale domanda ricevo ampia soddisfazione con un riepilogo della sua vita. Si trattava di un uomo veramente eccezionale, nato da umili genitori e con un grande ideale per il quale, direi quasi senza che si fosse avveduto, la sua vita venne spezzata dalla rabbia teutonica, alimentata da quella del nefasto fascismo. Quest’uomo, ch’io conoscevo dapprima sotto il nome di Alberti (era il cognome annotato sui documenti falsi, consegnati anche alle SS che si erano presentate alla sua porta l’infausta mattina del 13 aprile 1944), non era altro che il grande Bruno Buozzi, tre volte deputato nella sua carriera politica… Era per noi, suoi compagni di cella, come un padre, talché lo chiamavamo papà. Fu, fino all’ultimo giorno, a noi di conforto e di incoraggiamento. Sempre allegro, indifferente ai maltrattamenti delle guardie tedesche, il suo pensiero di tanto in tanto alla sua diletta e desolata moglie, nascosta anche lei sotto falso nome a Roma, quando alle sue due figlie in Francia, quando a noi, cercando col racconto di interessanti episodi della sua vita di rompere la monotonia e la tristezza che spesso ci assaliva».

Via Tasso era un girone infernale, il nefasto regno dell’oberstumfuehrer, Herbert Kappler, capo della Gestapo e delle SS del Lazio. Un personaggio che nel museo degli orrori della storia europea occupa un posto privilegiato. Subito dopo il 25 luglio, catturò Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, uno di quelli che votò a favore dell’Ordine del Giorno presentato da Dino Grandi nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 e che pagò questa adesione con la vita (venne condannato a morte e fucilato). Quindi, su ordine di Himmler, pianificò la liberazione di Mussolini, comunque dopo aver fatto sapere al suo “superiore” che il fascismo era ormai un cadavere politico. Ai cadaveri veri, invece, provvide lui, intervallando a questa attività di aguzzino, quella da predone. Spedì, ad esempio, in Germania tutte le riserve auree italiane, 120 tonnellate. Poi, domenica 26 settembre convocò il rabbino e il presidente delle comunità israelitiche di Roma (Foà e Almansi) chiedendo la consegna di cinquanta chili d’oro per non scatenare una tempesta repressiva sugli ebrei. Ottenne quel che aveva chiesto ma poi il 16 ottobre ordinò il rastrellamento di 1.259 membri della comunità e 1023 vennero spediti ad Auschwitz. Solo in sedici tornarono dal campo di sterminio, quindici uomini e una donna.

Quindi, in seguito all’attentato di via Rasella, ordinò l’eccidio delle Fosse Ardeatine (335 morti). Infine, per piegare la resistenza che aveva la sua roccaforte nelle periferie romane, pianificò il rastrellamento del Quadraro: mille uomini furono mandati nei campi di concentramento tedeschi e polacchi, solo la metà di loro fece ritorno nella Capitale. Via Tasso era il suo Regno del Male. La tortura era la pratica ordinaria per estorcere confessioni e informazioni. Torture quotidiane e quando il prigioniero non era più in grado di sopportarle veniva spedito a Forte Bravetta per ricevere l’ultima pallottola (il 3 giugno, come raccontano le cronache, alla vigilia dell’arrivo a Roma degli Alleati, il plotone di esecuzione fece gli straordinari). Quel fortino nel centro di Roma, vicinissimo a San Giovanni in Laterano dove Mussolini e il segretario di Stato, Pietro Gasparri, avevano firmato i famosi Patti che sostituirono la legge delle Guarentigie, ma nemmeno troppo lontano dal Colosseo, doveva essere inviolabile. Soprattutto per chi veniva lì imprigionato. Finestre piccolissime, mura insuperabili. Per i prigionieri, ridotti al minimo tanto l’aria quanto il rancio (scriveva sempre l’ignoto calabrese: «Ci veniva distribuito ogni 24 ore, verso le 12,30-13 di tutti i giorni, e consisteva in una minestra, alquanto brodosa, di torsi di verdura con delle risaglie molto cotte tanto da sembrare della vera colla, talmente era essa appiccicosa al palato. Aveva un odore caratteristico di cloro quella brodaglia. Anche il pane, due pagnotte militari, quasi sempre raffermo e qualche volta ammuffito, aveva una puzza di petrolio. Nello spazio di pochi minuti divoravamo come lupi famelici quel poco cibo che ci veniva somministrato… Buozzi, ben osservando tale nostra insopportabile tortura, si privava della sua razione di pane per dividerla in parte a noi, suoi compagni di cella»).

Di abbondante c’erano solo le torture. Raccontava ancora il compagno di cella di Buozzi: «L’incubo che era in noi tutti in quel cellulario trovava la sua giustificazione negli orribili avvenimenti cui giornalmente ci capitava di assistere, come prelevamenti di compagni per essere fucilati o sottoposti alle più tremende torture…, malattie di compagni, maltrattamenti continui durante il giorno, ingiurie, ecc. … L’incubo di cui sopra raggiungeva il massimo nella notte, quando cioè si udiva il battito dei tasti della macchina da scrivere. Era quello, infatti, per esperienza acquisita, il segno della destinazione a morte di parecchi di noi. Avremmo tanto desiderato ci fossimo trovati distante da quell’infame ufficio dove, alla sera, di solito si usava registrare i nominativi già destinati a morte per giudizio dei famosi comandanti della Gestapo. Tra questi spiccavano per le loro infami azioni, il col. (colonnello, n.d.a.) Kappler e il cap. (capitano, n.d.a.) Schulz». Inutile immaginare di poter essere curati, anzi era meglio, molto meglio dar prova di essere in buona salute perché i malati venivano aiutati “a non soffrire più” nel senso che veniva accelerata la loro dipartita (si legge sempre nel diario del prigioniero calabrese a proposito di Buozzi: «A rendere veramente meritevole l’appellativo di martire a questo insigne ed esemplare uomo, cito il seguente particolare. Gli ultimi giorni della deportazione in Germania o in chi sa quale altra località, questo uomo soffrì nel vero senso della parola per disturbi dipendenti da un inconveniente a cui da tempo era soggetto e gli causarono una forte emorragia di sangue. Lì dentro esisteva un medico, un barese, ma questi era piuttosto per affrettare la fine dei pazienti che guarirli. Di ciò il compianto Bruno Buozzi era più che convinto; pertanto non chiedeva che di andare a fare semplicemente un po’ di pulizia . Ma anche questo gli veniva rifiutato. Solo al mattino, così come del resto era concesso a tutti, egli poteva soddisfare tale suo bisogno»).

Poi, con gli Alleati alle porte, via Tasso, con tutti i suoi lugubri e inconfessabili segreti, doveva essere smantellato, evacuato, liberato da quei “fantasmi” che potevano concludere la propria parabola solo a Forte Bravetta o in qualche campo di concentramento in Germania o in Polonia. Doveva essere liberato dalle carte compromettenti (una parte di quelle di Erich Priebke viaggiò su quell’ultimo camion). Il 3 giugno, però, bisognava fare in fretta, non si potevano pianificare quei trasferimenti a cui, ad esempio, si dedicava, per quanto riguardava gli ebrei, proprio Eichmann. Si cominciò sul far della sera, intorno alle 20, si finì a notte fonda. Dovevano partire in centocinquanta ma non c’erano mezzi sufficienti. Andarono via in centoventi (contabilità illustrata da Kappler nel corso del processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine); meno di una ottantina, secondo altri. Quelle ore convulse, in cui la paura prevaleva sulla speranza, lo racconta proprio l’anonimo compagno di prigionia di Bruno Buozzi: «Verso le ore 18 circa, irrompono nella nostra celle delle guardie le quali, con concitatissimo parlare, ci prevengono di prepararci perché quella sera ci si doveva spostare per altra località. Lo schianto fu per noi indicibile, ma oramai si era rassegnati persino alla morte. Un’ora circa la nostra cella viene aperta e sento gridare il nome mio e quello di Talusi. In fretta ci congediamo dai compagni di cella che rimanevano, dandoci l’ultimo abbraccio. Usciti che fummo trovammo le scale ingombre di altri detenuti. A questi ci accodammo. Al piano terreno sostammo circa un’oretta, nel mentre le guardie tedesche provvedevano a consegnare ad ognuno di noi un sacchetto bianco con dentro quanto ci era stato tolto. Nel sacchetto si notavano mancanti denaro, anello, orologio e quanto altro poteva essere di valore. Erano circa le 20 e 30 quando fummo fatti uscire uno dietro l’altro dal portone per salire su un autopullman dislocato di fronte all’uscita centrale. Appena 22 fummo rinchiusi su quell’auto che già si spostava in avanti per far largo all’altro automezzo che avrebbe dovuto seguitare a compiere la medesima operazione. Complessivamente 4 autopullman con 80 detenuti. Eravamo scrupolosamente scortati, almeno nella nostra auto: due tedeschi stavano con i mitra a portata di mano lungo il corridoio, due altri davanti al posto del conducente e ancora altri due dietro. Le tendine stavano abbassate, solo si vedeva qualcosa dal davanti. All’uscita da quel lugubre palazzo, prima di salire sull’auto, notai gente assiepata ai lati contenuta da staccionate. Contro quella gente stavano in postazione delle mitragliatrici, nell’eventualità del bisogno. Ci fu qualche donna che, non riuscendo a rassegnarsi alla vista del proprio marito o parente che partiva per chissà quale luogo, si lanciò oltre la staccionata per riuscire ad abbracciare, forse per l’ultima volta, il proprio congiunto. Ciò che fu loro consentito, sebbene dopo non lievi difficoltà».

Angoscia, paura, qualche barlume di speranza. Perché molti furono portati via (meno di quanti i tedeschi avrebbero voluto) ma alcuni furono, alla fine, anche liberati (Vassalli ad esempio), dopo la partenza dei nazisti da via Tasso. Alcuni di quegli uomini sfuggiti al peggio, li incontrò Pietro Nenni che annotava: «Sono pallidi, sconvolti, alcuni a brandelli. Ho chiesto subito di Bruno Buozzi. Un giovane mi assicura che è partito ieri, con un gruppo di settantacinque detenuti, di cui cinquanta avviati in Germania per il servizio del lavoro e venticinque a Verona a disposizione del tribunale speciale. Bruno è fra questi ultimi. Così l’ultima speranza di vederlo libero è svanita».

25.2 La battaglia di Ornella, Iole e Gilles

Le quarantotto ore che precedono la morte del leader sindacale sono caotiche, convulse. E molti interrogativi non troveranno mai soluzione. Chi decise l’esecuzione? Quel motociclista che intercettò il convoglio a La Storta portava quell’ordine? Perché furono uccisi? Era quello sin dall’inizio il loro destino? Non sembra reggere la tesi pure adombrata da Di Vittorio di una esecuzione legata all’attività di Buozzi. La rivelazione dell’identità, il leader sindacale la fece solo dopo essere stato interrogato. Probabilmente, i nazisti immaginavano che si trattasse di una personalità di spicco dell’antifascismo e alla fine ebbero la conferma dal diretto interessato. Anche i compagni di cella conobbero successivamente l’identità vera di Buozzi: provvide direttamente lui a comunicarla. Non serviva più a nulla, a quel punto, continuare a sostenere la parte dell’ingegner Mario Alberti, “sfollato” salernitano. In quella cella numero 6, Buozzi si ritrovò accanto un altro combattente antifascista, quel Filippo Lupis che aveva collaborato alla liberazione di Pertini e Saragat da Regina Coeli. Dopo la Liberazione, raccontò quell’incontro in un articolo che apparve sull’ “Avanti!”: «Entrò in prigione di notte. L’angusta cella del secondo piano dove eravamo rinchiusi in sette, senza pagliericci, nuda terra, con le finestre murate, era rischiarata dalla tenue luce di una piccola lampada. Dai nostri giacigli sul nudo pavimento sollevammo il capo per osservare il nostro nuovo ospite. Egli ci apparve sorridente e ci venne incontro come un vecchio amico. A me venne da esclamare: Questo buon uomo non sa davvero in quale infernale bolgia è sceso!»  In realtà sapeva benissimo dove era finito. Certo, quel carattere pieno di ottimismo che gli attribuiva Nenni, lo convinceva che alla fine tutto si sarebbe risolto per il meglio. Tra l’altro, dalla “bolgia infernale” di via Tasso in quei primi giorni di giugno si avvertivano i rumori che precedono l’arrivo di un’armata. E la concitazione dei tedeschi era la testimonianza che qualcosa, fuori, stava accadendo. Si era anche diffusa, fra le celle di via Tasso, la voce di una azione dei partigiani per liberare i prigionieri. Ma era soprattutto l’avanzata degli americani che lasciava presagire una evoluzione positiva della guerra.

Certo, gli uomini reclusi a via Tasso non sapevano quanto fosse vicina l’armata americana. Non sapevano che la sera del 2 giugno, Radio Anzio aveva trasmesso la comunicazione più attesa, evocando un animale che certo non si incrocia per le vie di Roma: “Elefante”. Era quella la parola d’ordine che annunciava l’arrivo a Roma degli Alleati. E poco prima era arrivato un altro messaggio: “Anna Maria est promossa”, il segnale ai partigiani di tagliare le vie di fuga alle truppe di Kesserling. A quel punto, le strade di Roma e le grandi vie consolari che portavano al Nord cominciarono a riempirsi di mezzi militari tedeschi. La grande fuga tanto attesa era cominciata. All’Opera di Roma la sera del 3 giugno Beniamino Gigli interpretava “il ballo in maschera”. In platea anche il generale Maeltzer, obbligato da Kesserling a farsi vedere in giro per dare ai romani l’impressione che tutto procedeva come al solito. Ma non era così.

Kappler preparava l’evacuazione del carcere di via Tasso. Coprendosi la fuga con un robusto carico di “ostaggi”. La paura all’interno della prigione, si legava alle paure che all’esterno attraversavano le menti e i cuori delle mogli, dei figli, dei parenti, degli amici di chi era là dentro, alla mercé di un uomo spietato come il capo delle SS. Il 2 giugno, Nenni annotava sul suo diario: «Passata la sera al L. (Laterano, n.d.a.) dove ero venuto per vedere con B. (Bonomi, n.d.a.) quel che si può fare per i nostri detenuti. Ce ne sono novecento a Regina Coeli e duecentodieci in via Tasso. Sembra che per otto soltanto ci sia l’ordine di partenza per il nord e fra questi figura, Bruno Buozzi. Confesso che sono quasi più inquieto per quelli che restano che per quelli che partono. È difficile immaginare un finale idilliaco, senza lotta e senza eccidi, anzi coi detenuti abbandonati alla loro sorte, che sarebbe una lieta sorte. D’altra parte non si vede bene cosa si può fare».

Le previsioni di Nenni erano giuste a metà. La limitata inquietudine per quelli che partivano aveva il carattere di un convincimento ottimistico visto il successivo epilogo. La profezia degli eccidi, invece, doveva trovare una conferma puntuale a La Storta. I tedeschi avevano fretta e, soprattutto, paura perché l’occupazione di Roma nascondeva inconfessabili segreti per i quali la storia, come aveva detto lo stesso Goebbels, li avrebbe bollati con l’indelebile marchio di “grandi criminali” e non certo di “grandi statisti”.

Raccontava in quei giorni “Il Messaggero”: «Se pure non si vuol dare alla ritirata tedesca al di là del Tevere la fisionomia di una rotta è certo che la marcia di ripiegamento del nemico si sta svolgendo tra l’incalzare delle forze alleate all’inseguimento, senza la protezione della Luftwaffe che si può dire ormai scomparsa dai cieli dell’Italia Centrale tra i continui attacchi delle formazioni aeree anglo-americane. Kesserling non ha larga possibilità di scelta sulle direttive di ritirata. Perdute con la Casilina le vie che a questa si innestavano per defluire verso la Tiburtina nella zona di Avezzano, le sconfitte divisioni tedesche hanno soltanto tre strade che portano a nord verso eventuali linee di attestamento e di resistenza. Esse sono: l’Aurelia, che si svolge lungo la costa tirrena e che pertanto è una via di ritirata assai malsicura, perché soggetta anche agli attacchi di mare; la Cassia che porta verso Viterbo e infine la Flaminia che risale verso Terni e che dopo questa città offre una deviazione in direzione dell’Alta Umbria e della Toscana. Su queste tre strade si sono ingaggiate le forze di Kesserling, assumendo la forma di tre interminabili fila di uomini e di mezzi che offrono facile e largo bersaglio ai bombardieri e alla caccia aerea e che pertanto nei 50 o 60 chilometri fin qui percorsi oltre Roma hanno già subito e vanno subendo sensibilissime perdite».

È forse in questa cronaca una parte delle risposte ai tanti perché che ancora oggi, a settant’anni di distanza, circondano quell’ultimo viaggio di Bruno Buozzi terminato a quattordici chilometri dal centro di Roma. Coprirsi la fuga, utilizzare i prigionieri come “scudi umani”, una tecnica vecchia che è diventata consueta negli ultimi anni attraverso conflitti come quello balcanico. L’impaccio di un “carico” troppo ingombrante e di un camion troppo inaffidabile. La sera del 3 giugno, davanti al carcere di via Tasso, quattro automezzi vennero parcheggiati. Il piano prevedeva di portar via centosessanta prigionieri, quasi tutti, cioè, ma non tutti (in quelle celle ve n’erano oltre duecento, come annotava Nenni). In realtà, però, quei quattro camion furono in grado di trasportarne non più di centoventi (secondo Kappler; ottanta secondo altri) e la famosa lista messa a punto dagli aguzzini nazisti venne ridimensionata. I primi tre partirono quasi senza particolari problemi. Nel terzo c’era Luciano Ficca, fratello di Marcella e cognato di Alfredo Monaco, e quella SS italiana che aveva deciso di chiudere (forse per motivazioni utilitaristiche) con quella mattanza e aveva spedito il biglietto ai socialisti (nella speranza di poter ricavare qualche beneficio nel momento del giudizio). Ficca avrebbe raccontato, molti anni più tardi ad Aldo Forbice: «Quella sera a via Tasso ci fecero scendere al piano terreno in fila indiana, e ci dissero che ci avrebbero trasferiti al nord. Noi pensavamo che intendessero inviarci a Verona per consegnarci ai repubblichini per un processo sommario». Buozzi venne assegnato al quarto camion. E nacquero i problemi perché i posti non erano sufficienti e in due si salvarono proprio per quell’affollamento eccessivo di passeggeri. I prigionieri provarono ad approfittare di quella situazione ritardando il più possibile le operazioni di carico. Provarono anche a far scivolare nelle retrovie Bruno Buozzi che, al contrario, anche per dare coraggio ai compagni, salì sull’automezzo e si andò a sistemare sul fondo. E così quando due passeggeri vennero fatti scendere per fare posto a due SS, lui risultò troppo lontano per approfittare dell’occasione che il caso aveva concesso.

Il racconto di quei terribili minuti ce lo ha lasciato l’avvocato Vittorio Bonfigli, uno di quelli che si salvò proprio per la penuria di posti sul camion dell’eccidio de La Storta. Ha scritto: «La notte del 3-4 giugno 1944 non sarà dimenticata in nessuno dei suoi istanti da chi la trascorse nel vasto casamento di via Tasso, di cui le scatole novecentesche, le cucine e persino i ripostigli, con le finestre murate, erano celle per sei, per otto prigionieri. Le notizie vietate si erano insinuate giornalmente con i quotidiani arrivi… Gli americani sono alle porte di Roma: i tedeschi si preparano a sgomberare. E noi? Un certo numero di prigionieri viene sottoposto a visita medica e munito di documenti per l’assegnazione al lavoro obbligatorio. Al buio partono… Poi altri sono avvertiti di tenersi pronti a partire. Non per il lavoro; per dove? Impossibile precisare l’ora in cui si fa l’appello dei nuovi partenti, che si avviano verso la scala e vengono allineati lungo la ringhiera. Bruno Buozzi è fra loro… Ma intanto, dall’alto un lurco (il termine, estremamente dotto, risale a Dante che lo utilizzò per qualificare i tedeschi piuttosto beoni e pertanto dalle dimensioni fisiche abbondanti, n.d.a.) andava scendendo lentamente con un mazzo di funicelle bianche e sottili accavallato ad un braccio: ad uno ad uno legava strettamente ai prigionieri i polsi dietro alla schiena. Bruno aveva in mano un fagottello di biancheria: si guardò attorno per cercare dove posarlo; poi lo infilò a forza nella tasca sinistra del soprabito e incrociò le braccia a tergo».

Sarà quel fagottello nella tasca sinistra che consentirà l’identificazione del suo corpo. Continuava il racconto: «Uscirono all’aperto nel fondo della notte. Un camion attendeva: ma uno solo, e troppo piccolo per 37 persone. Come la vita di un uomo a volte è legata ad un filo! Il compagno intuì che una parte del gruppo sarebbe rimasta a terra. Un soldato altoatesino gli confermò che non si avevano sul momento altre macchine. Con gli americani alle porte di Roma, ritardare la partenza poteva significare la salvezza: e si fermò, cominciò ad arretrare piano piano, mentre alcuni salivano, tenendo Buozzi dietro di sé. Poi fu spinto avanti, caricato di peso e si accasciò subito all’angolo sinistro contro lo sportellone. Dopo di lui fu messo dentro Bruno Buozzi che, invece, avanzò nel fondo. Quando il camion fu sovraccarico e non poté trovarvi posto la scorta, sicché due prigionieri dovettero essere rimessi a terra, il compagno (vicino al portellone, n.d.a.) poté trovare la via di scampo; Buozzi era troppo all’interno e rimase».

Prima di salire sul camion per quell’ultimo viaggio, alcuni lasciarono dei messaggi sui muri di via Tasso. Ad esempio, Alfio Brandimarte, ingegnere elettronico, che a via Tasso era finito perché realizzava collegamenti radiotelegrafici per mettere in contatto i combattenti italiani e gli alleati. Scriveva nella cella numero 13: «Pregasi avvertire la famiglia Brandimarte, via Livorno 36, tel. 852214, che Alfio è partito per il Nord il 3-VI-44, baci a Bianca, papà e mamma». Al capitano Enrico Sorrentino erano legati un paio di messaggi sul muro della cella numero 2. Il primo di denuncia: «Mi risulta che alla sede centrale dell’O.S.S. c’è un traditore collegato radio col nemico. E.». L’altro è del suo compagno di detenzione, Arrigo Paladini: «3 giugno sera. Enrico partito per il nord salvo, per me vita o morte». Non fu proprio così perché la vita di Sorrentino si concluse, tra cespugli e rovi, a La Storta. Quel camion, uno Spa 38 di fabbricazione italiana, piuttosto male in arnese, partì da via Tasso a notte fonda. Risalì da via Labicana, costeggiò il Colosseo, tirò dritto per i Fori Imperiali (all’epoca chiamata via dell’Impero), passò per Piazza Venezia e imboccò Corso Umberto cioè via del Corso, attraversò piazza del Popolo, piazzale Flaminio, si avviò verso via Flaminia, toccò ponte Milvio dove si bloccò per i bombardamenti; si rimise in cammino a velocità sempre più ridotta per via del traffico causato dai tedeschi in fuga, imboccò la Cassia verso il nord e qui venne bloccato di nuovo dalle bombe americane.

La Reuter, nel frattempo, diramava la notizia che Bruno Buozzi era stato spedito al Nord. Con Buozzi, Brandimarte e Sorrentino c’erano anche il tenente Eugenio Arrighi, l’ingegnere Frejdrik Borian (i compagni partigiani socialisti lo conoscevano con il nome di battaglia di Raffaele, lo avevano preso dopo l’attentato di via Rasella, Giuliano Vassalli lo definì più di un fratello), il professore Luigi Castellani, il ragioniere Vincenzo Conversi, il meccanico Libero De Angelis, appena ventiduenne, l’ingegnere Edmondo Di Pillo, il generale Piero Dodi, l’avvocato Lino Eramo, consulente legale del “Messaggero” che lo ricordò come «il nostro amico caro, il nostro compagno fedele, il nostro collaboratore di tutti i momenti», il tipografo Alberto Pennacchi, l’insegnante Saverio Tunetti e l’ “inglese sconosciuto” la cui identità è stata svelata soltanto sette anni fa. Era l’ungherese Gabor Adler, cioè il capitano John Armstrong poiché prestava servizio nel Soe, il braccio operativo dei servizi segreti inglesi. Quel camion, arrancando a passo lentissimo, arrivò dalle parti de La Storta quasi all’alba del 4 giugno. Abbandonò improvvisamente la strada e si inerpicò per 7-800 metri in una stradina di campagna fermandosi davanti al fienile della tenuta Grazioli. Il dramma si sarebbe consumato lì, in poco più di dodici ore. Eppure, sul caso Bruno Buozzi restano gli interrogativi che riguardano non tanto quell’epilogo, in qualche maniera prevedibile in quel clima da atto finale, quanto il prima, cioè l’arresto, e il durante, cioè la permanenza a via Tasso e i tentativi falliti per ottenerne la liberazione.

Riguardano anche l’identità di coloro che armarono le mani degli assassini, ovviamente. Solo un misto di ferocia e casualità? Una precisa volontà? Il riflesso condizionato di chi considerava la morte l’unica via di fuga da lasciare al proprio nemico? L’indifferenza di chi aveva calpestato in quella guerra spietata tutte le regole di umanità? Un dato storico appare certo anche perché confermato da Kappler nel processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine: Mussolini voleva Buozzi a Salò. Non si trattava di un gesto di pietà o di bontà. Solo che ancora una volta voleva provare a coinvolgerlo nei suoi disperati progetti politici. Li aveva illustrati nella Carta di Verona messa a punto il 14 novembre dell’anno prima: «In ogni azienda (industriale, privata, parastatale e statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai coopereranno intimamente – attraverso una conoscenza diretta sulla gestione – all’equa formazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva e la partecipazione agli utili per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali commissioni di fabbrica. In altre sostituendo i Consigli di amministrazione con i consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. Le altre ancora in forma di cooperative parasindacali». Pensava, il “duce”, che in questa maniera avrebbe recuperato il consenso tra gli operai; pensava che il leader della CGdL, seppur non convertendosi al suo progetto politico, avrebbe comunque accettato di realizzare qualcosa di molto simile a quel controllo sulla produzione che aveva caratterizzato la vertenza culminata con l’occupazione delle fabbriche. Kappler stesso aveva dato l’ordine di mandare quei prigionieri al Nord, facendo tappa a Firenze.

Iole Buozzi ha  raccontato che apprese la notizia dell’uccisione del padre a Parigi, ascoltando la radio Vaticana. A sua madre, che aveva trovato nei mesi dell’occupazione nazista, rifugio in un convento, gliela diedero i compagni di partito, gli stessi che avevano, nei giorni immediatamente successivi all’arresto, provato ad attutire il dolore della donna diluendolo con una bugia (“Bruno è partito in missione per il Sud”). Le sorelle Buozzi la verità hanno continuato a cercarla, anche stimolate dalle dichiarazioni ambigue del maggiore delle SS, Karl Hass, uno dei responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Anche in occasione del processo a Priebke, nel 1996. La vicenda, insomma, ha assunto le caratteristiche di un giallo “giudiziario” ed “editoriale”. Quello editoriale era legato al libro di Cesare De Simone pubblicato da Mursia nel 1997: “Roma città prigioniera”. Per l’autore non c’erano dubbi: l’ordine era partito da Priebke. Una accusa, però, che non trovò conferme e l’ex capitano delle SS, sentendosi diffamato, denunciò De Simone ottenendo, nel 2003, addirittura il sequestro del libro e un risarcimento di venti milioni di lire, poi annullato dalle sentenze della Corte d’Appello del 2005 e, in maniera definitiva, nel 2010, della Cassazione.

Le ipotesi si sono intrecciate, chiamando in causa personaggi secondari diventati tristemente primari, come Hans Kahrau e Pustowka. Il primo era il responsabile di quel viaggio verso la “morte”. Kahrau era un signore sessantenne, dal fisico ormai malaticcio ma dalla spietatezza “cristallina”. All’eccidio delle Fosse Ardeatine aveva partecipato in maniera molto attiva, tanto attiva che poi replicò la “tecnica” a La Storta. Lo stesso maggiore Hass sembra il personaggio di un libro “giallo”: una specie di “fantasma” sfuggito alla giustizia degli uomini mettendosi al servizio degli americani contro  “il pericolo comunista”, spacciandosi per morto attraverso una falsa documentazione, infine riemergendo alla vita anche per accusare Priebke (trasversalmente) dell’eccidio de La  Storta (prima si dichiarò disponibile a confermare tutto in tribunale ma poi preferì dimenticare l’impegno). Alcuni hanno sostenuto che il capitano delle Ss quel giorno fosse proprio accanto a  Kahrau e Pustowka nel momento in cui si faceva fuoco contro i quattordici prigionieri. L’uomo che è stato accompagnato nella tomba dal marchio d’infamia delle Fosse Ardeatine, ha a sua volta sostenuto che in quei giorni era a Dachau per interrogare il nipote di Badoglio, Mario. Ma per decidere un eccidio non era necessario essere sul posto tanto è vero che è stata affacciata un’altra ipotesi: quella, appunto, di un ordine arrivato attraverso la staffetta che in moto aveva raggiunto il camion. I giudici hanno, però, creduto a Priebke tanto è vero che il procuratore militare, Antonino Intelisano, chiese e ottenne nel 1998, dal Giudice per le Indagini Preliminari, l’archiviazione scatenando l’ira di Massimo Severo Giannini per il quale, invece, bisognava rinviare a giudizio il capitano delle SS in quanto gli autori della denuncia avevano dimostrato che, al contrario, il 3 giugno del 1944 l’uomo era proprio a via Tasso.

Sulle rivelazioni di Hass fecero leva anche le figlie di Bruno Buozzi, svelando al contempo nella denuncia che la somma pattuita e versata a Kappler (tramite la sua amante, la croata Ursula Burger) per ottenere  la liberazione del padre fu di un milione di lire dell’epoca (settantacinquemila euro circa attuali), cioè una vera e propria fortuna. E Gilles Martinet, il marito di Iole, in un paio di interviste a “la Repubblica” a al “Corriere della Sera” del 7 agosto del 1996 disse senza mezzi termini: «Priebke si è scaricato delle sue responsabilità sulle Fosse Ardeatine dicendo di aver eseguito ordini superiori ma nel caso di Buozzi e di altri tredici prigionieri uccisi a La Storta questa tesi non regge. L’ordine emanato dall’alto comando era di trasferire i prigionieri nel Nord dell’Italia e alcuni di loro erano già partiti. La sera del 3 giugno, gli alleati si stavano avvicinando a Roma, erano già nei sobborghi e ci sono stati momenti di panico tra le SS. Hanno atteso i camion per imbarcare i prigionieri e portarli via ma di camion ne è arrivato uno solo. Sono stati scelti quattordici prigionieri e sono stati messi sul camion che si è fermato alla Storta dove hanno passato la notte. L’indomani mattina è stato dato l’ordine di fucilarli». Kappler, a sua volta, sempre al processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine sostenne che a un certo punto di Kahrau e del suo “carico” si persero le tracce. L’uomo si fece vivo solo cinque, sei giorni dopo, da Firenze. Disse al suo superiore che era arrivato in automobile perché, evidentemente, il camion non aveva retto al viaggio. Spiegò anche che era stato costretto ad ammazzare i prigionieri.

Kappler si limitò a chiedergli un verbale. La banalità del male risalta ancora di più su un foglio di carta bollata. Probabilmente non si saprà mai con certezza chi diede quell’ordine. O, al contrario, tutto può apparire chiarissimo: la feroce logica della guerra. E forse anche chi pensa di aver risolto tutto, non ha risolto un bel niente. Di sicuro c’è soltanto che i tentativi per liberare Buozzi andarono a vuoto, compreso quello che, secondo talune ipotesi, prevedeva il coinvolgimento degli alleati che avrebbero dovuto prelevare con un motoscafo il dirigente sindacale in un porticciolo della costa laziale per portarlo in salvo. Da via Tasso, Buozzi non uscì libero ma con le mani legate dietro la schiena.

*Antonio Maglie, Bruno Buozzi. Il padre del sindacato, Ed. Fondazione Bruno Buozzi, 2014

 

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