Bruno Buozzi: qualcuno tradì

-di ANTONIO MAGLIE*- 

Nel tardo pomeriggio del 4 giugno, in quella campagna romana a quattordici chilometri dalla città, la vita di Bruno Buozzi era finita. Contemporaneamente cominciavano le celebrazioni post-mortem e la ricerca di risposte agli interrogativi che avevano avvolto la vicenda, dalla sua nascita (l’arresto) alla sua conclusione (l’eccidio). La notizia della strage de La Storta cadde su una città che stava provando a immaginare il profumo della libertà. Ecco perché quei quattordici cadaveri scatenarono un tumulto emotivo perché da un lato c’era la felicità per una occupazione che era terminata, dall’altro l’angoscia per quegli uomini che avevano pagato l’ultimo pedaggio alla ferocia nazista. Le guerre, d’altro canto, sono spietate, mescolano la gioia dei sopravvissuti con il dolore dei parenti di chi non ce l’ha fatta. E nel caso di Buozzi e dei suoi tredici compagni, il destino era stato certamente crudele perché sarebbe bastato poco, quasi un niente per imporre alla storia un altro finale, più bello e rassicurante. Invece finì lì, tra i cespugli, sotto gli occhi attoniti e impauriti di testimoni involontari. La notizia rimbalzò nell’Italia liberata e in quella ancora occupata con grande rapidità. Buozzi era un leader molto noto tra i lavoratori. Anche le ultime lotte, gli scioperi che nel marzo precedente avevano rilanciato la combattività operaia e messo in crisi gli occupanti nazisti, erano state dirette da lui e dagli altri capi sindacali, organizzate attraverso quei comitati di agitazione che erano stati messi a punto nella casa della sorella di Lizzadri. Una nota per il ministero dell’interno del 10 giugno 1944 in qualche maniera esprimeva questo stato d’animo collettivo. Vi si leggeva: «Negli ambienti operai ha sollevato enorme impressione la notizia secondo la quale l’organizzatore socialista Buozzi sarebbe stato trovato cadavere non lontano da Roma. Taluni hanno avanzato l’ipotesi che l’avvenimento possa provocare reazioni nell’ambiente quali scioperi o manifestazioni del genere».

            Un grande manifesto apparve sui muri di una Capitale finalmente libera. La firma era quella del Psiup, il partito del leader sindacale: «Bruno Buozzi, il nostro compagno di fede e di lotta, il socialista rimasto fedele durante tutta la sua vita all’ideale di elevazione della classe lavoratrice, è stato vilmente assassinato in Roma dai fascisti e dai nazisti. Proprio nella ricorrenza del XX anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, che fece fremere di sdegno il mondo civile, un altro dei migliori è andato ad accrescere l’albo del martirologio socialista italiano… Il nostro Bruno Buozzi, l’uomo caro ai lavoratori italiani che soprattutto a lui devono le migliori conquiste rivendicatrici, ha dovuto soccombere alla furia sanguinaria degli oppressori. La sua fermezza di carattere, la sua dirittura morale, la sua capacità organizzativa ed i suoi modi di buona convivenza con tutti, amici ed avversari, gli avevano attratto indiscutibilmente la generale stima e fiducia; ma l’atrocità del suo assassinio lo fa assurgere ben più in alto a bandiera di combattimento dei lavoratori italiani e di quanti lottano per il ripristino delle libertà democratiche… La gravità del momento, non permette di onorare degnamente questo nostro martire. Egli ne siamo certi, se fosse ancora con noi, pretenderebbe che, in quest’ora nella quale si decidono le sorti del mondo e della liberazione dell’Italia, non si storni l’attenzione e l’attività dagli scopi principali per dedicarci a riverenti omaggi. Da valoroso e bravo alfiere ci spingerebbe a continuare compatti ed ardimentosi nella battaglia per la sconfitta decisiva dei nazifascisti e per la distruzione di tutto un mondo di delitti e di barbarie che da venti anni domina ed insanguina l’Italia e l’Europa. Lo spirito di Bruno Buozzi non si placherà sino a quando non gli verrà resa giustizia con le altre innumerevoli vittime del fascismo cadute per una causa santa e giusta. Dominiamo la nostra commozione, asciughiamo le nostre ciglia e nel nome di Bruno Buozzi intensifichiamo la nostra attività, spronati ed illuminati dalla sua fede, per raggiungere quelle mete alle quali egli dette tutto se stesso fino al supremo olocausto della vita»1.

            Sull’edizione dell’ “Avanti!” di mercoledì 7 giugno, Giuseppe Saragat, che era stato giovane allievo politico e collaboratore in occasione delle campagne elettorali, aveva scritto: «Bruno Buozzi il capo della classe operaia italiana, il Segretario della Confederazione del Lavoro è stato assassinato dalle iene hitleriane alle porte di Roma. Abbiamo riconosciuto il suo cadavere tra quelli di altri compagni che come lui erano stati condotti da via Tasso verso il Nord dai banditi della croce uncinata. A quindici chilometri da Roma i nostri compagni sono stati fatti scendere dall’autocarro che li trasportava e massacrati con colpi di rivoltella alla nuca. Bruno Buozzi è tra le vittime. Col cuore spezzato diamo questa terribile notizia ai lavoratori italiani che lo ebbero capo e fratello. È per noi questo il prezzo più terribile della Liberazione di Roma, Scriviamo con la mente che stenta a connettere di fronte all’atrocità del fatto, all’immensità della perdita»2.

            Il giornale della Democrazia Cristiana, “Per il domani”, non si limitava a dare notizia, ma sottolineava anche il fatto che a La Storta la nuova Confederazione che sarebbe nata con il Patto di Roma aveva perso il suo leader naturale. Scriveva: «Credevamo che Buozzi fosse in salvo (sapevamo che si trovava a Roma) e fosse questione di ore a poter riassumere la direzione del movimento confederale dei lavoratori dell’industria, quando la notizia ci colpì. Uno strazio: Bruno Buozzi ed altri tredici uomini, furono assassinati in un boschetto a pochi chilometri da Roma. Un senso di smarrimento, un abbattimento sconsolato ed inconsolabile; ci parve in quel momento che tutto congiurasse contro gli Italiani. Man mano che aumentano le rovine, perdiamo i nostri migliori uomini, quelli destinati a ricostruire. Il suo viso, franco, sorridente, dall’occhio brillante, ci apparve contratto e deformato dalla morte violenta; la sua persona piena di vita e di energia, stroncata inesorabilmente. Che cosa voglia dire per l’Italia, questo nostro Paese tanto disgraziato e che tanto amiamo; cosa voglia dire la morte di Bruno Buozzi, nessuno può saperlo. Era l’uomo adatto a ricoprire la carica confederale, carica che comporta un onere e una responsabilità che supera di gran lunga ogni Dicastero. E noi avevamo in lui la fiducia che sarebbe stato all’altezza del compito affidatogli: cioè la riforma dell’organismo confederale dei lavoratori e la direzione del movimento operaio italiano nei momenti difficili e certo dolorosissimi che ci attendono a guerra finita. In Italia, per otto decimi, il movimento operaio è determinato dalla situazione dell’industria meccanica e metallurgica. Buozzi era l’uomo che più di tutti conosceva, oltre la tecnica organizzativa, la situazione di questo ambiente. Anche se nei vent’anni della sua forzata assenza molte cose erano cambiate e molte andavano valutate e viste con diversa visuale, la sua intelligenza e il suo buon senso non avrebbero tardato a fargli prendere il contatto con le cose. Ed era uomo da affrontare la lotta in alto ed in basso quando lo ritenesse necessario, con tutto il suo coraggio, la sua abilità, la sua competenza. Occorreva la sua opera per qualche anno, cioè sino a quando dalle classi lavoratrici fossero usciti altri uomini e tra questi qualcuno che lo avesse sostituito. Ora non è più; e non v’è purtroppo uomo che lo eguagli. Pur essendo militanti in un altro partito, pur essendo nostro avversario, lo ammiravamo per il suo valore e la sua rettitudine. Nel dolore immenso eleviamo a Dio una preghiera. Vogliamo tutti ricordarci, quando preghiamo per i nostri morti, noti e poco noti della Democrazia Cristiana e già numerosi, di impetrare anche a lui, perché buono, convinto e leale, la misericordia divina»3.

            Finito il lutto, cominciò il dibattito: Bruno Buozzi poteva essere salvato? Si poteva evitare quel “soggiorno” a Via Tasso che lo avrebbe poi avviato sulla strada de La Storta? Insomma, in questa storia ci sono stati tradimenti? E questi tradimenti come si sono materializzati, in scelte che non sono state compiute o in atti che, al contrario, sono stati compiuti? Chi mise, insomma, Buozzi moralmente (e semmai anche praticamente) su quel vecchio camion ansimante? Solo la sorte o la sorte venne guidata da qualche machiavellico tessitore umano? A settant’anni di distanza a queste domande non ci sono risposte, almeno non ci sono risposte affidabili. Congetture, certo. Ipotesi, anche. Insinuazioni, molte. Ma più ci si allontana da quei tempi e più diventa difficile ricomporre il mosaico.

            Si è parlato molto del famoso trasferimento al Sud, nell’Italia liberata. Pietro Nenni, in una delle ultime testimonianze, affermò che a escludere quella ipotesi era stato Buozzi in persona, ritenendo quel viaggio troppo pericoloso. Sulla questione, però, le testimonianze sono contraddittorie e, nel frattempo, i testimoni non ci sono più ed eventuali segreti non confessati se li sono definitivamente portati nelle loro tombe. Oreste Lizzadri, il Longobardi che poi partì alla volta di Bari, sul tema ha fornito anche lui versioni multiformi. Certo, Lizzadri era politicamente più vicino a Nenni e avrebbe interpretato meglio la linea del partito al congresso dei Comitati Nazionali di Liberazione che si svolse a Bari. Ma non si ritrovò in una posizione comodissima visto che quella riunione venne sostanzialmente egemonizzata, soprattutto dal punto di vista culturale, dai settori più moderati dell’antifascismo che manifestarono in maniera sonora e rumorosa la loro lontananza dalle posizioni di Nenni e dei socialisti. Insomma, per Lizzadri non fu una giornata trionfale e la posizione del Psiup non ebbe sull’uditorio alcuna presa, pertanto la sua difesa si rivelò totalmente inutile perché non c’era a quel punto proprio nulla da difendere. È possibile, semmai, che la scelta finale sia stata prodotta da due valutazioni: la pericolosità del viaggio e il fatto che a Roma le trattative per la ricostruzione del sindacato unitario erano entrate decisamente nel vivo. I sospetti sono stati fatti cadere anche su Nenni. Operazione a dir poco odiosa. L’ipotesi che sia stato il segretario socialista all’ultimo momento a preferire Lizzadri a Buozzi che aveva dato il suo assenso al viaggio alla volta di Bari, è più che fondata. Ma il ripensamento nacque dalla necessità di evitare a un uomo di sessant’anni un trasferimento oltre le linee piuttosto complesso e pericoloso. Una lettura simile la diede, ad esempio, Piero Boni. E non fu un cambio di programma troppo improvviso se è vero come è vero che l’uomo incaricato del “trasbordo”, l’agente dell’Office Strategic Service (il servizio segreto americano, antesignano della Cia), Mario Zamparo ha confermato che per quanto lo riguardava non c’era stato alcun cambio di programma visto che a lui sin dall’inizio avevano parlato di Lizzadri come l’uomo da portare oltre le linee. Il viaggio per Bari era particolarmente tortuoso. Nenni immaginava un trasferimento meno complicato e più sicuro, passando per l’Aquila e la partenza sarebbe dovuta avvenire dopo Pasqua (nel 1944 la festività cadde il 9 di aprile; il 13 Buozzi venne arrestato). In questo senso, anche Giulio Andreotti fornì delle conferme. Non solo. Il segretario aveva trovato un posto a Buozzi in Laterano dove già si nascondevano Bonomi, Saragat, Franco Calamandrei e lo stesso Nenni ma il leader sindacale si sentiva sicuro della casa in cui viveva in quel momento, a via San Valentino, ai Parioli.

            Le risposte agli interrogativi, dunque, vanno cercate non tanto in ciò che venne deciso a proposito delle missioni oltre le linee, in territori più tranquilli (una volta raggiunti, però), ma nelle modalità in cui si giunse all’arresto di Buozzi. E su questo terreno i dubbi restano. A cominciare dalla decisione di abbandonare la casa ai Parioli, in via San Valentino (oggi via Gramsci) che Buozzi aveva occupato proprio dopo aver abbandonato quella di De Ritis (in questa abitazione di proprietà di Luciano Pertica, fratello della madre di Fiammetta Longo Boni, il leader sindacale era riuscito persino a rivedere la moglie dopo l’8 settembre). Così come restano i dubbi sulla scelta dell’abitazione di viale del Re, adesso viale Trastevere, che si rivelerà decisamente meno sicura della prima, più “espugnabile” da parte delle polizie naziste e fasciste. E torna inevitabilmente in ballo il ruolo giocato da un personaggio che è sempre rimasto sullo sfondo, come un’ombra: il ragionier Domenico De Ritis, da Paglietto in provincia di Chieti, alto funzionario della Banca Nazionale del Lavoro e prima di approdare alla Bnl, al Credito Italiano.

            Il suo nome spuntò nell’elenco degli informatori dell’Ovra (in codice: Tisde 311), acronimo nella sua essenza mai ben definito perché è stato letto in svariati modi: Organo di Vigilanza dei Reati Antistatali oppure Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’antifascismo o ancora Opera Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo. La soluzione più accreditata è l’ultima per via dell’aggettivo: “volontaria”, una attività, cioè basata sulla delazione. L’uomo aveva grande familiarità con gli ambienti socialisti e una certa facilità di accesso al cuore dei leader. D’altro canto, aveva accreditato l’immagine di persona “politicamente d’area”. In un mondo così opaco come fu quello dell’Italia fascista (non solo dell’Italia fascista), in cui la delazione trovava ufficiale legittimazione in un servizio di polizia statale (l’Ovra, appunto) non deve certo stupire il fatto che qualcuno si potesse muovere sfruttando le zone d’ombra. De Ritis, peraltro, di Buozzi si era occupato, soprattutto a partire dall’8 settembre 1943. Dopo quella data, infatti, aveva ospitato il leader sindacale per circa quattro mesi in casa sua (questo emerge da una relazione dell’8 marzo del 1945 redatta dal Nucleo di Polizia Giudiziaria e inviata all’Alto Commissario Aggiunto per la punizione dei Delitti del Fascismo: l’inchiesta era stata avviata sulla base di una denuncia anonima) in via Principe Amedeo, non molto distante dalla “pensione Oltremare”, “casa degli orrori” della banda Koch; e il 10 aprile, cioè tre giorni prima che i nazisti bussassero alla porta della nuova abitazione in viale del Re, aveva fatto sapere che la casa in cui Buozzi sino a quel momento aveva abitato in via Pompeo Magno, a Prati, era ormai “bruciata” (l’abitazione era di proprietà di un partigiano cattolico, Ivo Coccia, che era stato catturato il 17 marzo). Fu lui a convincere il leader sindacale che era decisamente meglio cambiare aria.

            Erano, d’altro canto, giorni particolarissimi e, soprattutto, pericolosissimi. L’attentato di Via Rasella, del 23 marzo 1944 contro il battaglione Bozen, con trentatré morti tra i tedeschi, aveva scatenato la rabbia dei nazisti che si era immediatamente sfogata nella rappresaglia delle Fosse Ardeatine: trecentotrentacinque civili uccisi a sangue freddo (la maggior parte vennero prelevati a casaccio a Regina Coeli e a via Tasso). Ma il giro di vite non si era fermato a quell’orrenda strage. Nessuna casa era più sicura e gli antifascisti erano tutti in pericolo. Bisognava alzare il livello di attenzione e di prudenza. Nel giro di quarantotto ore, De Ritis organizzò il trasferimento. Il 12 aprile Buozzi entrò nell’abitazione di viale del Re. L’appartamento era di proprietà dell’avvocato Guido Rossi. Almeno questo era quello che disse De Ritis («è un mio amico democristiano») a Fiammetta Longo (che poi avrebbe sposato il fratello di Piero Boni, Mario), figlia del colonnello Longo, antifascista, che per un certo periodo di tempo aveva ospitato il leader sindacale.

            Buozzi in quel momento era titolare di una carta d’identità rilasciata dal comune di Benevento  che lo qualificava con il nome di Mario Alberti, ingegnere, “sfollato” salernitano. Nella nuova  abitazione, il sindacalista dormì soltanto una notte. Alle 7,30 la Gestapo bussò alla porta dell’appartamento di viale del Re. Si può dire: a colpo sicuro. Cercavano l’avvocato Rossi (accusato di possedere un apparecchio radio clandestino) che non era in casa. A quel punto chiesero i documenti all’uomo sulla soglia di ingresso. Buozzi consegnò la sua carta di identità ma i poliziotti sapevano benissimo che a Benevento era stato sottratto un notevole quantitativo di carte di identità e, a quel punto, portarono il sindacalista a via Tasso. Qui sorgono già i primi dubbi. Benevento faceva parte dell’Italia liberata, come mai gli uomini della Gestapo erano al corrente delle carte di identità rubate in quell’ufficio comunale? De Ritis non restava con le mani in mano tanto è vero che era lui il primo a venire a conoscenza dell’arresto ed era sempre lui che provvedeva a comunicare la notizia a Fiammetta Longo Boni la quale veniva colta da qualche dubbio. Ha raccontato: «Venni avvertita (dell’arresto, n.d.a.) il giorno dopo da De Ritis. Mi sorse subito un dubbio. Come aveva fatto, quest’uomo, a sapere così tempestivamente dell’arresto di Buozzi? E poi mi sono chiesta come mai Bruno, diventato così prudente in quelle settimane, fosse andato ad aprire la porta? E ancora come mai il misterioso avvocato Rossi era sparito all’alba, insieme alla donna delle pulizie che viveva in quella casa? A queste domande nessuno ha potuto dare risposte esaurienti, anche perché ci fidavamo completamente di quel De Ritis. Spesso andavo da lui, per incarico di Buozzi, a ritirare delle somme alla Banca Nazionale del Lavoro (era vicedirettore della filiale di via Veneto); erano somme consistenti che io smistavo – sempre su indicazione di Buozzi – ad antifascisti per sostenere le attività e le iniziative di lotta clandestina»4. Sembra che dalle mani di De Ritis, per conto di Buozzi, Fiammetta Longo Boni abbia ricevuto complessivamente qualcosa come due milioni dell’epoca, centocinquantamila euro attuali; servivano per finanziare l’attività clandestina.

            La figura del De Ritis è oggettivamente sfuggente, incomprensibile. A dicembre del 1944, mentre si cominciavano a istruire i primi processi contro gli uomini che avevano tenuto comportamenti piuttosto disonorevoli o si erano macchiati di crimini durante il regime (si stava organizzando quello al generale Mario Roatta, accusato di non aver difeso Roma l’8 settembre e poi anche coinvolto nell’omicidio dei fratelli Rosselli e in un massacro di civili a Lubiana: riuscì a uscire indenne in appello dopo essere stato condannato in primo grado all’ergastolo, ma evitò di ascoltare quest’ultima sentenza fuggendo in Spagna dove lo attendeva la moglie, al riparo dell’ombrello franchista, per rientrare in Italia soltanto nel 1966), al Commissariato per le sanzioni contro il fascismo arrivava una denuncia anonima. A volte queste denunce nascondevano solo risentimenti personali e anche quella contro De Ritis appare animata da un livore che affonda le radici in questioni di carriera («Dalle risultanze di cui sopra è da ritenersi che l’anonimo sia destituito di ogni fondamento di veridicità e sia stato determinato da bassi rancori»: così si chiude l’indagine). Però, per quanto i risentimenti fossero personali, taluni fatti trovarono successivamente dei riscontri. L’anonimo, infatti, parlava di un viaggio di De Ritis a Parigi nell’aprile del 1932, del fatto che la tessera del Pnf presa nel 1933 era stata retrodatata al 1921, che il ragioniere di Paglietto in provincia di Chieti aveva potuto contare sulla protezione di Giacomo Acerbo (quello della legge elettorale), abruzzese come lui (per la precisione, di Loreto Aprutino in provincia di Pescara).

            L’indagine fu svolta dal nucleo di polizia giudiziaria al servizio dell’Alto Commissariato e l’8 marzo 1945 il comandante chiudeva la questione con una breve relazione (un paio di cartelle) in cui si spiegava che De Ritis, “direttore della Banca Nazionale del Lavoro”, era stato iscritto effettivamente al partito socialista e che era stato uno dei collaboratori di Giacomo Matteotti, per la precisione, il segretario (un dato da tenere in considerazione e che avrà un risvolto non secondario in questa storia). La relazione continuava sostenendo che dopo la morte del parlamentare socialista, il ragioniere aveva continuato a frequentare la famiglia, diventando il protutore dei figli e amministratore del patrimonio familiare. Scriveva il comandante: «Per tali ragioni egli, come del resto la vedova Matteotti, ha dovuto tenere contatti con il capo della polizia Bocchini il quale si interessava della famiglia Matteotti cui concesse una sovvenzione di un milione di lire. La vedova, avendone stretto bisogno, accettò tale denaro ma a condizione di restituirlo. A tale uopo la vedova pregò il capo della Polizia di intercedere presso il Credito Italiano perché inviasse in missione a Parigi il rag. De Ritis allo scopo di prendere contatti con persone di sua conoscenza, legate da vincoli di amicizia e di fede con il defunto marito, per tentare di ottenere aiuti finanziari per poter restituire la somma che lei aveva accettato a titolo di prestito. Difatti la Banca, premurata da Bocchini, inviò a Parigi per ispezioni alle filiali all’estero, il rag. De Ritis il quale in ossequio al volere della vedova Matteotti, chiese aiuti finanziari all’on. Modigliani, al Prof. Salvemini e ad altri antifascisti colà residenti».

26.1 Una storia di soldi e viaggi misteriosi

            Le cose stavano proprio così? Quel viaggio era servito solo a sollecitare sostegni per la vedova di Matteotti alla quale il Regime, dopo averle tolto il marito, cercava comunque di offrire un qualche sostegno anche per evitare che eventuali difficoltà economiche aggiungessero all’omicidio del parlamentare anche il carattere di un martirio familiare, non solo personale? Due anni dopo, il 19 aprile del 1947, un’altra indagine offriva una versione dei fatti un po’ diversa. Erano spuntati gli elenchi dell’Ovra e il nome di De Ritis faceva bella mostra di sé. La scoperta aveva delle conseguenze e il ragioniere faceva ricorso per ottenere la restituzione dell’onore perduto. Insomma, non voleva essere considerato un confidente dell’organizzazione: a quell’epoca non faceva certo curriculum. La Commissione per l’esame dei ricorsi dei confidenti dell’Ovra (presso l’ufficio sanzioni contro il fascismo insediato alla Presidenza del Consiglio) chiedeva un accertamento agli organi inquirenti. Questa volta, però, la risposta era molto più ampia e articolata, sette cartelle da cui emergeva che chi aveva indagato non la pensava esattamente come i testimoni presentati da De Ritis a sostegno delle sue tesi.

            Perché il ragioniere si era dato da fare. Si era rivolto a Rina Buozzi che in data 15 maggio 1945 dichiarava che «il Sig. Domenico De Ritis ha ospitato in casa propria, nell’autunno-inverno 1943-1944 (i famosi quattro mesi circa, n.d.a.), il di lei marito prodigandogli affettuosa e cordiale assistenza… Il De Ritis ha pure raccolto fondi notevoli per tentare di ottenere la liberazione del defunto Bruno Buozzi». Quindi a Emilio Canevari che in data 18 settembre 1945 rivelava «che durante il periodo clandestino partecipai a due sedute del Comitato Socialista Romano, di cui facevo parte, in casa De Ritis in via Regina Giovanna di Bulgaria in Roma. Il De Ritis, per quanto mi risulta, diede per qualche tempo ospitalità anche a Bruno Buozzi». E ancora a Federico Comandini, uno dei fondatori del Partito d’Azione, che il 17 settembre del 1945 dichiarava: «Da molti anni conosco il dottor Domenico De Ritis, il quale ha sempre professato idee anti-fasciste… Nel 1938, per mandato del tutore, avvocato Casimiro Wronowski, ho assunto l’assistenza legale relativa al patrimonio dei minori figli di Giacomo Matteotti; ho saputo allora che le mansioni di protutore affidate al De Ritis erano state attribuite per designazione unanime dei parenti». Infine, testimoniava a favore di De Ritis anche Oreste Lizzadri che il 17 settembre del 1945 sosteneva: «Nell’ottobre del 1943 il sig. Carlo Matteotti (il figlio di Giacomo, n.d.a.), con il quale ero in relazione per ragione di lavoro di Partito, mi comunicò che il sig. De Ritis desiderava vedermi. Ne seguì un colloquio nel quale il De Ritis si mise a disposizione del Partito Socialista perché lo utilizzasse nella lotta che i partiti antifascisti conducevano contro il regime fascista e i nazisti. Dal periodo dell’ottobre 1943 al gennaio 1944, vidi spesso il De Ritis, il quale si occupò della vendita dei bollini emessi dal Partito Socialista, versò delle cifre cospicue per la lotta clandestina e si occupò del giornale “Avanti!”… Mi risulta, inoltre, che durante la mia assenza a Roma il De Ritis si procurò la somma di L. 300.000 perché fosse versata per la liberazione di Bruno Buozzi che era in carcere».

            Un dossier, insomma, molto corposo che non doveva lasciare adito a dubbi: De Ritis era un socialista ed era finito negli elenchi dell’Ovra soltanto per le funzioni di protutore dei figli di Matteotti. Infatti, in tale veste doveva per forza di cosa avere rapporti con il capo della polizia. Ma chi indagava sulla vicenda redigendo la relazione finale in data 19 aprile 1947 (quindi molto dopo le dichiarazioni di Rina Buozzi, Emilio Canevari, Federico Comandini e Oreste Lizzadri) sembrava avere un’altra idea. La premessa era chiarissima: «Risulta dagli atti che il ricorrente mantenne rapporti diretti con la Direzione Generale di Polizia sotto lo pseudonimo di “Tisde” dal gennaio 1930 (v.f. del bis) all’ottobre del 1943 (v.f. 0002 del bis) e che percepì nei primi anni un compenso mensile di L. 1800 e successivamente di L. 2000 fino al gennaio del 1944 (v.f 0312 del bis e 2 e 14 del ter)». La tesi difensiva del De Ritis era piuttosto semplice. Non contestava il fatto di risultare iscritto negli elenchi dell’Ovra ma vi era finito semplicemente perché protutore dei figli di Matteotti nei confronti dei quali l’organismo svolgeva funzioni amministrative e non di polizia politica. Per quanto riguardava i compensi, De Ritis ribadiva le risultanze a livello penale (perché c’era stato anche un giudizio di quel tipo) «in base alle quali il magistrato concluse che le somme corrisposte al De Ritis furono devolute a parziale compenso dei danni subiti dalla famiglia Matteotti dopo l’uccisione del loro congiunto». Insomma, la qualifica di confidente non c’entrava nulla con la presenza del nome del ragioniere negli elenchi dell’Ovra che era, in pratica, una conseguenza del suo rapporto con la famiglia Matteotti.

            Ma gli accusatori contestavano: «Ora è facile obiettare che i rapporti intercorsi tra la Direzione Generale di Polizia e l’avvocato Wronowski (il tutore dei figli di Matteotti) furono puramente di ordine amministrativo, altrimenti nei suoi confronti si sarebbero adottate le stesse cautele di copertura con l’adozione del pseudonimo (come nell’originale, n.d.a.) e l’apertura di un fascicolo segreto; se invece queste misure di segretezza furono adottate nei rapporti tra la polizia e il De Ritis è perché essi si svolgevano su un piano diverso e avevano un contenuto confidenziale, della cui vera essenza e finalità i membri della famiglia Matteotti dovevano rimanere e restarono all’oscuro». Gli accusatori erano convinti che quel rapporto con la famiglia del parlamentare ucciso dai fascisti fosse figlio di un disegno che aveva come obiettivo da un lato quello di tenere sotto controllo i Matteotti (comunque, sempre pericolosi per il regime, anche con la semplice evocazione del nome), dall’altro quello di creare relazioni all’interno dell’ambiente socialista per carpire segreti e informazioni.

            Si legge, infatti, nella relazione: «La Direzione Generale di Polizia già da tempo aveva intrapreso l’opera di assistenza alla famiglia del martire per il tramite dell’amministratore Trevisan e del tutore, Wronowski, allorquando entra in scena il De Ritis, il quale esordisce con una lettera del 18 febbraio 1930, con la quale dà certezza dei risultati della sua prima visita, non sollecitata, e fatta dopo una lunga assenza alla vedova Matteotti, riferendone il colloquio sui contatti che essa manteneva con Salvemini e Rosselli a Parigi e sulle difficoltà finanziarie della famiglia e conclude con l’avvertenza che non ha ritenuto opportuno “insistere in una prima visita a parlare di cose politiche, delle relazioni che la signora coltiva all’estero». Spiegava ancora l’estensore della relazione a proposito dei motivi alla base di quella “generosità” del fascismo: «L’assistenza prestata dal regime fascista attraverso la polizia alla famiglia non era ispirata a sentimenti di beneficenza o a propositi di riparazione, ma era stata escogitata come l’espediente più idoneo per attuare il fine politico che il regime si proponeva di raggiungere nei confronti di detta famiglia senza ricorrere a pressioni o a versazioni (probabilmente vessazioni, n.d.a.) di carattere poliziesco che avrebbero aggravato il discredito del regime, già abbastanza scarso (probabilmente il credito e non il discredito, n.d.a.) dalla uccisione di Matteotti. Per la realizzazione di questo piano non è certo, ma è molto probabile che la Direzione di Polizia si avvalesse in un primo momento dei servizi dell’amministratore Trevisan; ma questi soprattutto a causa della sua incapacità amministrativa si rivelò elemento non adatto allo scopo e allora fu prescelto il De Ritis, che per essere stato fedele collaboratore del martire e ritenuto un convinto e irriducibile antifascista, appariva come la persona meglio qualificata perché insospettabile e suscettibile d’ispirare la fiducia e il credito necessario nei membri della famiglia».

26.2 Tra delatori, spie e strani sacerdoti

            Gli estensori della relazione, peraltro, aggiungevano che «le lettere speditegli dalla vedova (di Matteotti, n.d.a.) a Parigi erano da lui passate in visione alla Direzione generale di polizia». A questo punto, gli inquirenti ritenevano di aver proposto materiale sufficiente per respingere il ricorso di De Ritis («Questo è quanto basta per concretizzare l’ipotesi negativa per la cancellazione, dell’attività informativa nell’interesse del regime fascista… E su questo punto non può cadere dubbio una volta dimostrato che la polizia fascista aveva interesse a tenere una persona di sua fiducia nella intimità della famiglia Matteotti e che il De Ritis assolse fedelmente questo compito»).

            Ma nella relazione c’era spazio anche per una analisi del famoso viaggio a Parigi e il quadro che gli inquirenti prospettavano era diverso da quello un paio di anni prima definito dall’inchiesta scattata in seguito alla denuncia anonima. Spiegava la relazione: «L’istruttoria penale avrebbe accertato che anche questo viaggio, sotto l’apparenza di un incarico di ordine bancario per conto del Credito Italiano, fu compiuto dal De Ritis d’intesa con la polizia fascista allo scopo di condurre un prestito nell’interesse della famiglia Matteotti, non essendosi potuto trovar credito in Italia. Ma dal coordinamento di tutti gli elementi di giudizio che si evincono al riguardo dagli atti del fascicolo bis si trae il convincimento che anche in questo caso l’interessamento in favore della famiglia Matteotti fu ancora una volta l’etichetta adottata a copertura di un segreto scopo politico, che era quello di avvicinare i maggiori esponenti politici tra i fuorusciti di Parigi carpendone la loro buona fede come emissario della Matteotti e quindi raccogliere tutte le notizie di evidente importanza politica che potessero interessare la polizia fascista».

            De Ritis, inoltre, si era difeso dicendo che le somme da lui percepite venivano girate alla famiglia Matteotti. Gli inquirenti obiettavano ancora: «In merito infine alla devoluzione del compenso delle 2.000 lire a favore della famiglia Matteotti, basta appena rilevare che l’assistenza finanziaria alla famiglia fu compiuta con somme erogate in ben diversa misura e forma e cessò molto tempo prima che avessero termine i rapporti con il De Ritis, il quale per automatismo burocratico beneficiò del compenso anche dopo l’8 settembre così come è avvenuto anche nei confronti di molti altri informatori che a quella data cessarono i loro rapporti con la Direzione Generale di P.S., il che sta a dimostrare all’evidenza che la somma era corrisposta soltanto a titolo di compenso per le prestazioni di natura fiduciaria rese dal De Ritis».

            Chi era, allora, il ragioniere della Banca Nazionale del Lavoro? Quale ruolo ebbe in questa vicenda? Oltre a quello ufficiale e visibile, ne ebbe uno anche invisibile? Era una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde? Era solo Jekyll o era solo Hyde? La Gazzetta Ufficiale di gennaio 1946 diede notizia del suo ruolo di confidente indicando anche il compenso: 1862 lire non era una paga di poco conto visto che Gilberto Mazzi nel 1939 cantava «se potessi avere mille lire al mese» (De Ritis, stando alle relazioni qui illustrate, alla fine della sua esperienza ne guadagnava duemila). Le ombre che avvolgono la personalità dell’uomo (che poi alla fine uscì indenne, come molti altri) non sono mai state diradate ma certo non sono sufficienti per individuare in lui l’anello “debole” della catena. Il “doppiogiochismo” in anni come quelli era possibile e preventivabile. Il fatto che tanti autorevoli personaggi dell’antifascismo si siano mossi in sua difesa (a cominciare dalla vedova Buozzi) induce a pensare che o ci si trova davanti al “genio della truffa” oppure che la sua attività avesse risvolti ambivalenti ma che, alla resa dei conti, non fu diretta a danneggiare Buozzi che aveva pure accolto a casa sua.

            L’enigma può essere risolto solo dagli “esperti” della materia. Ad esempio lo storico Mauro Canali che nel 2004 realizzò un corposo studio sulla rete di spie che garantivano al regime il controllo del Paese e la repressione delle attività antifasciste. Lo studioso a De Ritis e ai suoi rapporti con il mondo socialista e, in particolare, con la famiglia Matteotti dedica un breve ma significativo passaggio. Per chiarezza lo citiamo per intero: «De Ritis riuscì a convincere i magistrati (lo indagarono, come abbiamo già visto, perché caduto il fascismo il suo nome era stato ritrovato nell’elenco degli agenti dell’Ovra, n.d.a.) che, in tutti gli anni che aveva frequentato la famiglia Matteotti, aveva fatto gli interessi dei figli di Giacomo. Venne sostenuto dagli stessi figli, in particolare da Matteo, che, caduto il fascismo, ignorando gli inviti alla prudenza di Nenni, si recò più volte a testimoniare davanti all’Alto commissario (per l’epurazione n.d.a.) la buonafede di De Ritis. In realtà il contenuto delle relazioni che “Tisde” inviava alla Polpol (la polizia politica n.d.a.), era assai chiaro: egli controllava le eventuali trame antifasciste che potevano svilupparsi attorno alla vedova e, soprattutto, vegliava e riferiva su eventuali contatti tra essa e i fuorusciti antifascisti. Sul ruolo di De Ritis fu assai chiara una dichiarazione di Assirelli, il cassiere-economo della Polpol, il quale riferì» sulla base di testimonianza direttamente raccolte che «il De Ritis non curava gli interessi della famiglia Matteotti; o meglio non veniva pagato per tale scopo ma veniva pagato perché intimo della famiglia Matteotti, informava la Direzione Generale di polizia sulla attività dei membri di essa e specialmente dei due figli».

            La storia ha aspetti decisamente oscuri (considerando i tempi, non potrebbe essere altrimenti). Con troppi personaggi che si muovevano nell’ombra. Erich Priebke, ad esempio, nella sua autobiografia ha lasciato intendere che Buozzi sarebbe stato “tradito” da un uomo a lui vicino, un sindacalista insospettabile che faceva il doppio-gioco. Poi arrivarono anche le illazioni “americane” a intorbidare le acque chiamando in causa i comunisti e lo stesso Di Vittorio (una accusa strumentale e poco credibile anche perché proveniva da ambienti interessati a gettare discredito su quell’area politica). Un ruolo poco chiaro giocò anche Ulisse Ducci, antifascista ma con una certa familiarità con gli ambienti dell’Ovra tanto da dichiararsi disponibile a consegnare Nenni e Buozzi dietro pagamento di una ricompensa (che sarebbe stata effettivamente liquidata alla moglie). Infine, c’è Franz Muller, “staffetta” molto attiva a Trastevere che una volta arrestato, redige la lista dei leader socialisti presenti a Roma.

            Fiammetta Longo Boni informò la figlia di Nenni, Giuliana, dell’arresto di Buozzi, e tutte e due decisero di non dire nulla alla moglie Rina, per non allarmarla. «Le dicemmo che il marito era partito per il Sud improvvisamente», ha raccontato tempo dopo Fiammetta. Il bluff durò circa una settimana poi anche Rina scoprì. Nenni, invece, venne immediatamente informato dalla figlia tanto è vero che al 15 aprile, nel suo diario annotava: «Uscendo da una lunga riunione con i comunisti e gli azionisti (sulla crisi di Napoli) ho appreso l’arresto di Buozzi e di Canini (Giovanni, n.d.a.), il secondo risale a martedì , quello di Buozzi a giovedì sera (in realtà, era mattina quando la Gestapo si presentò a casa dell’avvocato Rossi, n.d.a.). È ancora un durissimo colpo per noi, non per il lavoro organizzativo al quale Bruno partecipava poco per nostra volontà, ma perché ci priva di uno degli uomini più popolari per funzioni di governo o per la segreteria generale della Confederazione del Lavoro. Stavo proprio organizzando la partenza di Bruno per l’Aquila da dove avrebbe dovuto raggiungere Bari attraverso le linee sonnecchianti dell’ottava armata»5.

            E strane coincidenze ci furono anche successivamente, durante la prigionia di Buozzi a via Tasso. Perché i molti tentativi per farlo uscire da quella terribile prigione andarono a vuoto. Uno dei quali, per giunta, in maniera piuttosto paradossale. La strada era quella di una trattativa con tanto di riscatto. Ma bisognava trovare un canale di collegamento che consentisse di arrivare al “padrone” di quella prigione, cioè il colonnello Kappler8 (l’amante Ursula Burger), diceva sconsolata molto più tardi Fiammetta che aveva conosciuto Buozzi meno di sei mesi prima dell’arresto. Avrebbe ricordato anni dopo: «Verso la fine di novembre 1943 venne a casa nostra presentato da mio padre un suo vecchio amico, l’ing. Alberti che però pochi giorni dopo mi spiegò di essere Bruno Buozzi. Dopo poco più di una settimana, essendo mio padre alla macchia e vivendo nel nostro palazzo una spia dell’Ovra (il dottor Rosati, un giornalista del Messaggero) gli fu consigliato di andare via e andò ad abitare a Prati, in via Pompeo Magno»9 (forse la memoria inganna la testimone perché in quella abitazione il leader sindacale ci andò successivamente n.d.a.). Quel “vecchio amico” dal carcere di via Tasso sarebbe uscito solo per l’ultimo viaggio. Ci provarono ancora, ma senza successo. Fu pattuito un nuovo “riscatto”: duecentomila lire, ulteriormente aumentato, cinquecentomila lire. La “transazione” venne chiusa (i quattrini li procurò De Ritis e vennero consegnati alla Burger) ma dal carcere non uscì Buozzi ma il vero Mario Alberti, per giunta da Regina Coeli e non da via Tasso. Un atroce scherzo del destino o una mefistofelica intuizione del colonnello Kappler al quale era stato ordinato di portare Buozzi da Mussolini a Verona? I contatti vennero ripresi ma non portarono a nulla. Nel frattempo, la famiglia di Buozzi cercava altre strade: una lettera al Papa, PioXII. Raccontava sempre Fiammetta Longo: «Non riuscimmo a consegnarla personalmente. Avevamo saputo, però, di un frate, Pancrazio Pfeiffer, che aveva libero accesso a via Tasso: era lo stesso che ogni tanto ci dava notizie di Bruno. E fu a lui che consegnammo la lettera per Pio XII ma non ricevemmo mai alcuna risposta».

            Il frate era un’altra figura piuttosto ambigua, una sorta di ufficiale di collegamento tra Kesserling e il Vaticano, uno su cui, insomma, non si poteva fare grande affidamento. L’ultima spiaggia fu l’organizzazione di un blitz armato. Ecco ancora i ricordi di Fiammetta: «I giorni passavano e vedendo che non si riusciva ad ottenere un ordine di scarcerazione, mio padre, Peppino Gracceva (che comandava nel Lazio le Brigate Matteotti, n.d.a.), Carlo Spinelli, Henry Molinari e mi sembra anche Peppino Saragat si riunirono a casa mia per tentare di organizzare un colpo armato. Prima logicamente si cercarono le armi»10. Ma non fu sufficiente quella ricerca e alla fine l’ipotesi del blitz venne scartata: «Ci ritrovammo in via Lucullo, nell’allora sede del partito, e Gracceva riferì che le armi le aveva trovate ma gli uomini no. E probabilmente è stato un bene perché quell’assalto sarebbe stato sicuramente un suicidio»11, spiegava ancora Fiammetta. Mentre Nenni nel suo diario, al 30 maggio scriveva: «Da Via Tasso nulla di nuovo, se non che i nostri compagni sono ancora lì. Il tentativo di liberare Buozzi non è riuscito. Disposizione per avviarli verso il nord non ci sarebbe ancora»12. Riletta oggi, quella di Buozzi sembra una tragica commedia degli inganni. Una commedia che può ispirare un’ampia varietà di finali. La storia fatta di congetture, piegata alle convinzioni o alle convenienze personali serve a poco e non è utile. È stato detto che l’eliminazione di Bruno Buozzi poteva creare vantaggi a qualcuno, si sono lanciati sospetti inutili su persone che non lo meritavano (ad esempio, su Giuseppe Di Vittorio o su Pietro Nenni); si è cercato di leggere questa vicenda come un nuovo capitolo di quel libro sulle faide all’interno dell’antifascismo e della guerra civile che a qualche autore ha anche regalato discreti successi editoriali. La realtà, alla fine, è semplice: se qualcuno tradì, considerati gli anni trascorsi, sarà stato condannato solo nel foro della sua coscienza (ammesso e non concesso che ne avesse una); se al contrario l’ordito di questa tela è stato tessuto solo dal caso, allora al sindacato non resta che maledirlo sino alla fine dei suoi giorni.

*Antonio Maglie, Bruno Buozzi. Il padre del sindacato, Ed. Fondazione Bruno Buozzi, 2014

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