-di ANTONIO MAGLIE-
Il 9 maggio del 1974, Pietro Nenni chiuse a Milano la campagna referendaria. Il giorno dopo avrebbe partecipato a Roma alla manifestazione del fronte laico- socialista favorevole alla conferma della legge sul divorzio insieme a Ugo La Malfa, Giuseppe Saragat e Giovanni Malagodi. Il documento che riproponiamo (la sintesi dell’intervento redatta dallo stesso Nenni per la pubblicazione sul quotidiano del partito, “Avanti!”, e la “scaletta” sulla base della quale il vecchio leader socialista articolò, a braccio, il suo discorso in piazza) acquistano oggi una nuova attualità. Per due motivi. Il primo: il Sinodo convocato da Papa Francesco e che ha trattato l’argomento scottante (dal punto di vista della gerarchia ecclesiastica) della comunione ai divorziati; la frattura che in quella sede si è verificata dimostra quanto i vescovi (che vollero, seppur con qualche riserva o tentennamento, fra l’altro anche del pontefice di allora, Paolo VI, la perdente prova di forza) a poco più di quarant’anni di distanza fatichino a fare i conti con una modernità che ormai si è trasformata in un dato sociale acquisito, almeno al di fuori (ma in larga misura anche dentro) delle cappelle e delle chiese italiane. Il secondo: le paure, le prudenze di una parte della sinistra sulla questione dei diritti civili che oggi riaffiorano in maniera forse ancora più grottesca (essendo venuto meno il partito del Vaticano, sostituito da quel pericoloso ircocervo chiamato ateo-devoto) sulla questione delle unioni civili (nel 1974, nel corso di un infuocato comizio in Sicilia, Amintore Fanfani, grande sostenitore della prova referendaria che per la dc si concluse con un clamoroso fallimento, ammoniva, con la sua inflessione toscana tornata di moda oggi nei palazzi del potere, che se fosse passato il divorzio, in Italia saremmo arrivati al matrimonio omosessuale; in realtà ci siamo fermati soltanto alle unioni civili con le gerarchie ecclesiastiche sul piede di guerra, i promotori del Family Day che promettono “vendette” al referendum istituzionale e i leghisti alla Fedriga che minacciano referendum dimenticando che tutti i sondaggi dicono che la stragrande maggioranza degli italiani alla legge è favorevole e che in Italia le urne referendarie hanno portato sempre male quando sono state aperte sui diritti come dimostrano le storie politiche di Amintore Fanfani e del Casini leader della “maggiorenza silenziosa.
Questo discorso offre uno spaccato storico interessantissimo (e sotto molti aspetti attualissimo: piuttosto agevole fare confronti con quel che sta avvenendo proprio in queste ore) perché spiega le speranze, le attese, anche le ambizioni di una sinistra che avvertiva a portata di mano un grande cambiamento sociale che avrebbe dovuto (e potuto) alimentare un altrettanto grande cambiamento politico favorendo la nascita anche in Italia della democrazia dell’alternanza, vero tratto caratterizzante della compiutezza di un sistema politico. In realtà, le speranze andarono deluse, per gli errori di una sinistra che si muoveva in ordine sparso. Da un lato un partito, il Pci, che inseguiva la riedizione di un disegno togliattiano, il compromesso storico, ormai lontano dai bisogni di un Paese che più che di una grande alleanza tra i due maggiori partiti per rimettersi in piedi sulle macerie della guerra, aveva bisogno di un grande processo di modernizzazione e di moralizzazione, cioè di una politica che non fosse più bloccata dalla “conventio ad excludendum” alimentata, peraltro, da un Partito Comunista incapace di fare i conti con un marx-leninismo lontano ormai non solo dalla storia ma anche dalla quotidianità delle grandi sinistre di governo europee. Il Psi, a sua volta, oscillava tra tendenze subalterne e spinte autonomistiche creando in qual- che maniera le condizioni per lo scivolamento progressivo del proprio grande dinamismo intellettuale nella piccola realizzazione di una alleanza organica con il partito più anti-moderno dell’epoca, la Dc, e in una crepuscolare pratica di governo trasformata in ginnastica di sottogoverno.
Quel referendum fu un bivio, anche per la politica e l’uomo che meglio di altri si rese conto di quel che sarebbe avvenuto fu Pier Paolo Pasolini che un mese dopo il voto e diciassette prima della sua morte, scrisse un articolo per il “Corriere della Sera” (poi inserito negli “Scritti Corsari”) che l’intellettualità comunista (all’epoca decisamente organica) non apprezzò e per valutarlo negativamente lo liquidò estrapolando una frase che poteva servire perfettamente, isolata dal contesto, all’obiettivo della parziale scomunica. In realtà, riletto oggi, anche alla luce di quel che il 9 marzo Nenni disse in piazza e qualche anno dopo sottolineò in un libro-intervista, quello scritto appare attraversato da una straordinaria potenza premonitrice. Perché Pasolini in qualche misura preannunciava quel che sarebbe avvenuto dopo: la mutazione genetica della società italiana, lo scivolamento verso lo yuppismo, il rampantismo, l’edonismo più o meno reaganiano, la sfiducia nei confronti della politica, il riflusso nel privato, il progressivo prevalere di una sorta di nichilismo in quelle aree giovanili che avevano sollecitato la trasformazione sociale ma ormai emarginate si rifugiavano o nella tragica trincea del terrorismo o negli stordenti e spesso mortali paradisi artificiali costruiti con dosi sempre più massicce di eroina. Insomma per far riferimento a una metafora cinematografica, “Il Grande Freddo”, film americano di culto per generazioni prima illuse, poi disilluse, quindi smobilitate, infine cullate dalle note dei Rolling Stones che cantavano “non puoi sempre ottenere quel che vuoi”.
Il 10 giugno del 1974 Pasolini nell’articolo intitolato “gli italiani non sono più quelli”, scrive: “La vittoria del no è in realtà una sconfitta di Fanfani e del Vaticano ma in un certo senso anche di Berlinguer e del Partito Comunista”. Un incipit che non rende particolarmente felici gli inquilini di Botteghe Oscure anche perché annuncia scomode verità che l’esito del voto avrebbe dovuto se non occultare, far dimenticare. Pasolini spiega: “Fanfani e il Vaticano hanno dimostrato di non aver capito niente di ciò che è successo nel nostro Paese in questi ultimi dieci anni; il popolo italiano è risultato – in modo oggettivo e lampante – infinitamente più progredito di quanto essi pensassero, puntando ancora sul vecchio sanfedismo contadino e pale-oindustriale”. Ma dopo aver sistemato la Dc, l’intellettuale per vocazione “scomodo”, si dedicava al Bottegone: “Ma bisogna avere il coraggio intellettuale di dire che Berlinguer e il partito comunista italiano hanno dimostrato di non aver capito bene cosa è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni. Essi infatti non volevano il referendum, non volevano la “guerra di religione” ed erano timorosi sull’esito positivo delle votazioni… Gli italiani si sono dimostrati infinitamente più moderni di quanto il più ottimista dei comunisti fosse capace di immaginare”. A quel punto, Pasolini si chiedeva, al pari di Manzoni nella poesia dedicata a Napoleone, se quel voto fosse da intendere come un momento di vera gloria ma lui la sentenza non la lasciava ai posteri, la spiattellava in faccia ai contemporanei spiegando: “Il 59 per cento dei “no” non sta a dimostrare, miracolisticamente, una vittoria del laicismo e della democrazia: niente affatto: esso sta a dimostrare invece due cose: 1) che i “ceti medi” sono radicalmente – direi antropologicamente – cambiati: i loro valori positivi non sono più i valori sanfedisti e clericali… ma sono i valori dell’ideologia edonistica del consumo (una anticipazione della società liquida teorizzata da Bauman, n.d.r.) e della conseguente tolleranza modernistica americana; 2) che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più e al suo posto c’è un vuoto che aspetta di essere colmato da una completa borghesizzazione… Il no è stato una vittoria, indub- biamente. Ma la reale indicazione che esso dà è quella di una “mutazione” della cultura italiana: che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista”.
C’è nell’analisi uno sforzo predittivo che all’epoca non fu capito anche se a Pietro Nenni apparve subito (tre anni dopo) piuttosto chiaro che quanto meno dal punto di vista della tattica politica (il discorso di Pasolini era più generale e riguardava l’essenza più nascosta del Paese) una occasione era andata perduta, soprattutto dai socialisti che non colsero l’onda lunga elettorale. Perché l’onda ci fu ma per il Psi si spense. Nelle regionali del 1975 alle elezioni regionali il Pci passò dal 25,8 per cento al 32,1, il Psi ebbe un incremento dell’1,5; la crisi di quell’Italia sanfedista, clerico-fascista segnalata tanto da Nenni nel suo discorso milanese che da Pasolini nella sua analisi per il “Corriere della Sera”, aveva depresso le ambizioni dei neo-fascisti del Msi che dopo gli exploit del ’71 e del ’72 si erano fermati al 6 per cento mentre la Dc si perdeva per strada un due per cento di consensi. Quel referendum sembrava l’annuncio di una trasformazione epocale. Lo si capiva leggendo le prime pagine dei giornali del 14 maggio del 1974: “L’Italia è un paese moderno. Vince il no, il divorzio resta”, titolava “La Stampa” di Torino giornale certo poco incline al rivoluzionarismo; il “Corriere della Sera” si manteneva più asettico: “I “no” hanno vinto con il 59,3 per cento. La legge sul divorzio non sarà abolita”; trionfalistico il tono dell’ “Avanti!”: “Una valanga di no”; decisamente soddisfatta “l’Unità” dimentica delle mille prudenze dei vertici del Pci: “Grande vittoria della libertà”.
Perché praticamente sino agli inizi del ’74 i socialisti in generale (pur con qualche tentennamento: Francesco De Martino, ad esempio, a un certo punto aveva fatto propria la tesi di un accordo che evitasse la conta nelle urne) e Loris Fortuna, in particolare, all’interno della sinistra erano stati i più convinti sostenitori di questa piccola rivoluzione sociale, certo una rivoluzione borghese (tracce, in effetti, si possono ritrovare in quella francese del 1789) e anche per questo poco amata dai comunisti con Berlinguer che soltanto alla fine, quando tutte le strade dell’accordo verranno sbarrate da una Dc ormai intenzionata a regalarsi un nuovo ’48 (con Forlani che diceva nel ’72: “La Dc batterà il pericolo rosso, la proprietà privata non verrà mortificata”), dirà: “Adesso dobbiamo anche correre il rischio di vincere”. In realtà, il neo-segretario comunista della vittoria non era per nulla sicuro. Al contrario, era convinto della sconfitta. Chiara Valentini nella sua biografia su Berlinguer edita da Feltrinelli, ha raccontato che a Milano, prima di un comizio, il leader consegnò a Gianni Cervetti questa frase decisamente venata di pessimismo: “Meglio che non dica quali sono le mie previsioni altrimenti scoraggio i compagni”. E a Ugo Baduel, il resocontista che lo seguiva per conto de “l’Unità” ancora più sconfortato sussurrava: “Arriveremo al massimo al 35 per cento”. Le cose andarono, invece, diversamente. Il fronte divorzista raccolse il 59,3 per cento dei voti validi. Arturo Parisi che con Romano Prodi, Ermanno Gorrieri, Luigi Gozzini, Tiziano Treu, Raniero La Valle, Leopoldo Elia, Luigi Macario faceva parte del gruppo dei “cattolici per il no” da politologo, analizzando i flussi elettorali spiegò un paio di cose: il consenso al divorzio era andato decisamente al di là della somma dei voti socialisti e comunisti; che i divorzisti erano in assoluto maggioranza perché anche calcolando i “no” sulla base di tutti i votanti (quindi anche astenuti e schede bianche), si arrivava al 51,1 per cento. Quando gli italiani vennero chiamati alle urne il 12 e 13 maggio del ’74 per confermare la legge 898 approvata il 1° dicembre 1970 (altro segnale del destino: presidente dell’assemblea di Montecitorio era Sandro Pertini), gli elettori erano 37 milioni 646.322. Al seggio si recò l’87,7 per cento del corpo elettorale (una percentuale bulgara), cioè 33.023.179; gli uomini che avevano voluto il referendum scoprirono di essere stati abbandonati da ben 19 milioni 138 mila connazionali.
Loro, gli uomini del sì, i sanfedisti (secondo Pasolini) si erano spesi molto. Gabrio Lombardi, in primo luogo. Ma anche Luigi Gedda, vecchio arnese quarantottesco. Sapendo che la legge in Parlamento sarebbe passata (319 a favore e 286 contrari nella finale votazione alla Camera), avevano imposto che prima del provvedimento che portava oltre alla firma di Fortuna anche quella del liberale Antonio Baslini, fosse discusso e approvato (passò il 25 maggio 1970) il provvedimento che disciplinava i referendum, norme che sino a quel momento tutti i partiti politici avevano visto come il fumo negli occhi, come una indebita ingerenza dei cittadini nelle prerogative degli eletti. Ma a quel punto era il prezzo da pagare per consentire alla legge sul divorzio, sostenuta con grande veemenza dai radicali di Marco Pannella, di poter tagliare l’agognato traguardo. Lo hanno spiegato Augusto Barbera e Andrea Marrone nel libro “La Repubblica del referendum”: “La legge sul divorzio sarebbe stata approvata solo dopo il varo della disciplina sul referendum abrogativo, e, quindi, solo dopo aver reso effettiva la possibilità del fronte antidivorzista di disporre di un’arma per sconfiggere la maggioranza favorevole al progetto Fortuna-Baslini”. Un calcolo sbagliato perché praticamente tutta l’Italia si schierò per il divorzio (due eccezioni al nord, Trentino e Veneto dove il no si fermò al 49,4 e al 49,3 per cento; cinque al Sud, Calabria, 49,2, Campania e Puglia 47,8, Basilicata 43,3 e Molise, la regione più antidivorzista del Paese con il 39,9). Persino in Sicilia, vera e propria patria del delitto d’onore (venne abolito insieme al matrimonio riparatore sette anni dopo il referendum, nel 1981; mentre la Corte Co- stituzionale aveva provveduto nel 1968 e nel 1969 a cancellare l’adulterio come reato penale) vinse, seppur di poco (50,5) il fronte divorzista. L’Italia, insomma, smentì la Cei che proprio nei giorni in cui si approvava la legge ribadiva: “L’indissolubilità è un profondo valore etico che può e deve essere tradotto anche in ordinamento giuridico”. Dai Kissinger cables resi pubblici da WikiLeaks emerge, in qualche misura, l’atteggiamento sorpreso degli americani. Scriveva l’ambasciatore John Volpe subito dopo il referendum, preoccupato per le conseguenze elettorali che la cosa avrebbe potuto avere sulla Dc: “La decisione di sfidare la legge sul divorzio è stata un enorme errore di valutazione”. E qualche giorno dopo aggiungeva: “Sul lungo termine questo dato di fatto costringerà la Democrazia Cristiana, se vuole continuare a crescere nel mondo contemporaneo, a spostare il focus della sua attività sui reali bisogni del paese e sulle questioni pertinenti alle sfide economiche e politiche del mondo attuale. Devono essere trovate facce nuove. Quelle caratteristiche dell’integralismo, che tendono a vedere ogni problema in termini di allineamento del partito alla Chiesa, dovranno essere messe in discussione”.
Fu anche una gara di ipocrisia. I neo- fascisti fecero stampare un manifesto dal contenuto molto più che vergognoso: “Contro gli amici delle Brigate Rosse, il 12 maggio vota sì”. Qualche tempo dopo, Assunta Almirante raccontò che suo marito Giorgio, l’uomo che guidava quella feroce campagna elettorale, in realtà nelle urne votò per il mantenimento della legge. Questioni familiari: la signora Assunta prima di sposare Almirante aveva avuto un altro marito da cui si era separata. Fortuna aveva cominciato la sua battaglia nel ’65 presentando il disegno di legge. Quando finalmente il 15 aprile del 1970 cominciò il dibattito alla Camera, lo presentò così: “La tensione fra Stato e Chiesa, la guerra di religione non sono risolte né attenuate dall’esistenza del Concordato ma anzi (come sta verificandosi) è l’esistenza stessa del Concordato (con la tentazione di utilizzarlo in modo abnorme) che rischia di darci una nuova versione moderna di guerra di religione”. Anni prima, dopo aver depositato la sua proposta, aveva sottolineato che si trattava di “una proposta di legge che continuava la tradizione inaugurata nel 1878 (proposta del parlamentare salentino, Salvatore Morelli) protrattasi sino al 1954-58 allorché fu presentato il decimo progetto da parte dei compagni socialisti, senatori Sanzone e Giuliana Nenni”. A quella battaglia i comunisti si accodarono, prima in Parlamento e poi sulle piazze. Lo ha raccontato Nilde Iotti che intervenne nel dibattito finale in maniera cauta e preoccupata, per illustrare la posizione comunista favorevole all’approvazione: “Era quasi l’alba quando uscimmo dalla Camera. Enrico era soddisfatto e allo stesso tempo sorpreso che ce l’avevamo fatta”. Ma pochi giorni dopo, il 6 dicembre, su “l’Unità” , Berlinguer si affrettò a smarcarsi dai laici più veementi (per aprire la strada al negoziato) affermando che il suo partito si sarebbe tenuto alla larga “da storture, esasperazioni settarie, irresponsabili provocazioni di gruppi anti-clericali”. E nel frattempo Aldo Tortorella si scagliava contro i “servi dei padroni” accusati di “voler ostacolare la politica dell’incontro e del dialogo con i cattolici”. Dopo che il 19 giugno 1971 Gabrio Lombardi aveva presentato la richiesta di referendum corroborata da un milione 370 mila firme, nel comitato centrale Berlinguer spiegava che un accordo era necessario per evitare un referendum che “coagula le forze più retrive del Paese”, “dà forza ai fascisti” e mette in campo “una minaccia reazionaria. Franco Rodano gli sottopose una bizzarra soluzione: conferma della legge accompagnandola con l’introduzione di una sanzione nei confronti di chi divorzia. Con Aldo Moro, il leader comunista proverà a trovare una soluzione e cercherà, dopo le elezioni del ’72 di avere un contatto con Paolo VI (molto più prudente sull’argomento dei suoi vescovi in larghissima parte intenzionati ad andare alla conta: un posizionamento che in qualche misura ricorda quello degli attuali vescovi italiani e di Papa Bergoglio in materia di ingerenze politiche) attivando due canali: Don Levi, direttore dell’Osservatore Romano, e il cardinale bolognese, amico di Renato Zangheri, Antonio Poma. Ancora ai primi di gennaio “l’Unità” si diceva convinta che non sia “troppo tardi se si vuole davvero cercare l’accordo”. A fine mese, Fanfani faceva saltare il banco e il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, indiceva il referendum.
Tre anni dopo, nel 1977, nel libro intervista a cura di Giuseppe Tamburrano, Pietro Nenni spiegò così l’occasione perduta: “E’ certo che noi non abbiamo tratto dal 12 maggio, cioè dal referendum sul divorzio le implicazioni e le conseguenze che comportava. Quello sarebbe stato il momento più favorevole per sollecitare lo scioglimento anticipato delle Camere. Fu infatti il momento in cui lo spirito unitario di base e di massa, trovò il terreno più favorevole per espandersi e impostare la lotta sui grandi temi del rinnovamento laico e civile della società”.