-di SANDRO ROAZZI-
Ci vuole coraggio oggi a parlare del calcio come lo sport più bello del mondo. Almeno in Italia.
La trucida cronaca delle ultime efferatezze dimostra l’imbarbarimento in corso dello sport più popolare che incrudelisce senza argini e, come al solito, diventa anche il segnale di una miseria etica sempre piu’ insidiosa che si fa larga nel nostro vivere civile.
Si comincia con il caso Muntari che reagisce agli insulti razzisti e viene punito dalla giustizia sportiva. Un regalo a quei, pochi ma che fa? pseudo tifosi che l’hanno umiliato ed un involontario ma pericoloso incoraggiamento a tutte le altre fogne degli stadi. Si arriva poi ai manichini dei giocatori della Roma esposti al Colosseo,
versione macabra di quegli sfottò fra tifosi che ti facevano rodere e ridere insieme.
Oggi neanche l’indignazione puo’ servire a isolare quel gesto. Servirebbe una punizione esemplare vista la violenza implicita del gesto. A Roma, antica, altri manichini venivano gettati nel Tevere, in una festa particolare. Erano quelli degli Argei, mitici eroi che ricordavano la sacralità dei sette colli. Oggi a quanto pare di …sacro non è rimasto nulla. Ma forse il gesto piu’ vergognoso è quello delle scritte insultanti apparse sulla strada che porta a Superga e che hanno preso di mira i giocatori del Grande Torino. Buon per tutti che qualche voce come quella di Buffon si sia levata contro in modo esemplare. Quella squadra apparteneva ad un’Italia che tornava a sperare dopo le macerie dell’immensa tragedia della guerra. Era un primo segnale di rivincita sulle drammatiche condizioni di vita di tanti italiani.
Ecco perché quel tifo rimase intangibile anche dopo la tragedia di Superga. Mio padre, romano de Roma, che andava a vedere a monte Testaccio la Roma di Bernardini e Ferraris, restò fedele al grande Torino per la vita. Ecco perché quell’insulto va oltre il disprezzo calcistico. Dimostra invece l’ignoranza becera della storia civile che abbiamo dietro di noi e dalla quale veniamo tutti, anche quelli che la insozzano in modo tanto imbecille. La risposta del calcio ufficiale? A quanto pare siamo dalle parti dell’impotenza. Se poi guardiamo da ultimo alla vicenda di Totti, una delle ultime bandiere del tifo di una città ci accorgiamo che si è davvero sprofondati in un costume che più levantino non si può. Dopo panchine a josa ecco che l’annuncio dell’addio al calcio lo ha dato l’ultimo venuto, il nuovo manager romanista Monchi. Uno stile che si commenta da solo e che ricorda come ormai – vedi Del Piero – le bandiere delle squadre sono le società per prime ad ammainarle. Non servono più’. Ingombranti. Meglio una scrivania e sia finita li’. Certo Totti ormai sui terreni di gioco portava solo il suo…mito. Ma la conclusione del reciproco amore con i colori giallorossi e’ di quelle che fanno scuotere la testa. Questo andazzo fa del calcio non piu’ una festa ma una sorta di terra di nessuno. Ed anche in questo caso la classe dirigente rispecchia la mediocrità dei tempi. Quando non gira la testa dall’altra parte, s’avventura in scusanti il piu’ delle volte grottesche. La conclusione è triste: si sta sempre più’ lasciando spazio a frange senza valori e
che hanno bisogno di sentirsi protagonisti in modo variamente violento contando sulla impunita’. La colonizzazione dall’estero delle squadre piu’ importanti per giunta finisce per accrescere il valore del businnes, del risultato mentre mortifica la passione verso le magie del
pallone.
Un sintomo di decadenza anche in questo caso. Una deriva che non fa certo bene ad un Paese che avrebbe bisogno di una ventata fresca di nuovi atteggiamenti. Ma che vanno costruiti, insegnati, imparati.
A cominciare dal più semplice: sentirsi comunità, non branco.