–di ANTONIO MAGLIE-
Secondo un sondaggio pubblicato su “la Repubblica” la festa del Lavoro ha un potere unificante ben oltre il 25 aprile visto che ben due terzi degli italiani sono convinti che vada celebrata. Il lavoro, d’altro canto, è unificante per definizione, sia quando c’è (nel senso che crea delle vere e proprie comunità) sia quando non c’è (nel senso che produce una massa enorme di persone angosciate dal futuro). Sarebbe in corso, secondo questo sondaggio, un’ inversione di tendenza. Cosa auspicabilissima perché in questi anni abbiamo assistito, soprattutto a livello politico (ma anche nelle tendenze sociali), all’occultamento del lavoro, offeso, vilipeso e trattato come un residuo arcaico da quelle tendenze anche accademiche che prefiguravano la “fine del lavoro” (molto diffuse negli Stati Uniti già negli anni Novanta) e annunciavano l’avvento di un eden terreno in cui noi tutti saremmo stati liberati dalla dannazione inflitta da Dio ad Adamo: quella di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte. Ancora oggi c’è qualcuno, a livello sociologico che si attarda su questa strada, ammettendo che la quarta rivoluzione industriale distruggerà posti di lavoro ma invitando a “brindare” a questa sorta di epifania che ci vedrà titolari di spazi sempre più ampi di tempo libero.
Peccato che ogni impiego del tempo libero presuma delle spese difficilmente sopportabili in assenza di un reddito a meno che non si pensi veramente che Grillo e i suoi giovani boy scout ci daranno un salario di cittadinanza da millecinquecento euro netti al mese (eppure un single con quella cifre in città come Roma e Milano campa a fatica, mentre una famiglia monoreddito semmai con due figli non campa proprio).
C’è stato un tempo in cui si esaltava la crescita del popolo delle “partite Iva”. Poi abbiamo scoperto che la maggior parte erano fasulle, che servivano solo per aggirare gli “steccati” troppo onerosi del lavoro ufficialmente subordinato rivestendolo con la sottile carta velina di un ipotetico lavoro autonomo.
Tendenza che, peraltro, non si fermerà. Almeno così dicono coloro che analizzano il futuro del lavoro e provano a interpretare le conseguenze della quarta rivoluzione industriale che produrrà, nel settore dei servizi, una situazione in virtù della quale attività oggi svolte all’interno degli uffici, verrano date in “appalto”, attraverso aste su piattaforme online, a persone che si guadagneranno così la qualifica di “aziende individuali”. Ovviamente, attraverso l’asta il committente punta a massimizzare i suoi benefici il che vuol dire che chi vuole accaparrarsi il lavoro dovrà ridurre il tempo per la sua realizzazione (allungando la propria giornata lavorativa) e abbassare l’entità della controprestazione economica richiesta (semmai risparmiando nel versamento dei contributi pensionistici).
Matteo Renzi ancora oggi continua a esaltare il suo Jobs act. Nessuno lo ha informato che la stra-grandissima maggioranza degli italiani considera quel provvedimento privo di effetti pratici (condizione peraltro confermata dai dati sull’occupazione che sono cresciuti, quando sono cresciuti, per la decontribuzione e non per la norma) e vorrebbe tanto il ripristino dell’articolo 18. Il fatto è che ormai molti anno scoperto che dietro gli esercizi retorici si celava soltanto una fregatura. Tutti in questi anni, senza distinzione di colore, si sono affannati a livello politico a bistrattare il lavoro.
Mentre nel frattempo il giuslavorismo prendeva a livello dottrinario una piega diversa rispetto a quella seguita quaranta, cinquanta anni fa. Il diritto del lavoro è stato oggetto di massacro, trasformato in una appendice del diritto civile. La prestazione immateriale fornita da una persona in carne e ossa degradata a bene materiale (oggetto inanimato); un contratto in cui si scambia il lavoro come un contratto in cui si scambia un appartamento. Ma nel caso del lavoro, il soggetto debole è sempre chi “domanda”; in una compravendita può anche capitare che chi domanda sia in una posizione di forza perché chi offre è obbligato per motivi urgenti a trasformare un pezzo del suo patrimonio in liquidità.
La “nouvelle vague” dottrinaria ha prestato sempre più attenzione al sistema delle imprese. Al contrario di quella “antica” che pensava alla costruzione di strumenti di difesa dei lavoratori attraverso lo sviluppo dell’azione sindacale. Adesso in molti tra i partiti politici (forse tutti) vorrebbero abolire il sindacato o, nel migliore dei casi, aggirarlo. L’obiettivo è decisamente di stampo liberista: isolare il lavoratore indebolendolo nei confronti della controparte.
Uno per uno e non più, all’occorrenza, tutti per uno. Ovviamente bisogna sempre tenersi alla larga dai processi di santificazione e il sindacato dovrebbe prendere atto che una azione di riforma e autoriforma è più che mai necessaria; che è venuto il momento di cominciare a ragionare ampiamente e seriamente sui percorsi attraverso i quali costruire l’unità; che sarebbe opportuno depurare le proprie fila da chi utilizza il sindacato per fare carriera o per evitare di lavorare; che sarebbe opportuno costruire un nuovo quadro di incompatibilità; che fissare un limite draconiano ai mandati è l’unico mezzo per garantire l’avvicendamento (e ringiovanimento) dei quadri ed evitare che la lunga permanenza in un posto produca rendite di posizione anche improprie; che sarebbe meglio cominciare a leggere con attenzione la parte della Costituzione relativa ai rapporti economici perché è venuto il momento di dare attuazione a qualche articolo. Ma detto questo nessuno può negare che i lavoratori siano stati più forti quando il sindacato è stato forte. E la religione del nuovismo un tanto al chilo dovrebbe cominciare a prendere atto che il proprio sol dell’avvenire ancora non è nato (né si intravede all’orizzonte) ma in tempi poi non troppo passati ne è spuntato uno che ha garantito un miglioramento delle condizioni dei lavoratori e, rendendolo più civile, del paese. Facciamo in modo che sia sempre 1° maggio. Rialzando la testa.