Creare lavoro: le idee (serie) di Ezio Tarantelli

Ezio Tarantelli venne ucciso il 27 marzo del 1985 dalle Brigate Rosse. Da economista, aveva contribuito alla definizione del meccanismo di raffreddamento della scala mobile che venne adottato da Bettino Craxi con il decreto di San Valentino (14 febbraio 1984) e che consentì di riportare sotto controllo l’inflazione che solo qualche anno prima aveva raggiunto il tetto del 20 per cento. Di ispirazione keynesiana, allievo di Franco Modigliani e Federico Caffè, vicino al sindacato e in particolare all’allora segretario della Cisl, Pierre Carniti, aveva abbracciato nell’ultima fase della sua vita una battaglia sul fronte dell’occupazione, in particolare sul fronte dell’occupazione giovanile proponendo un tema, quello dei mutamenti dei tempi di lavoro e di vita che oggi è tornato di attualità.

Rileggere i suoi ultimi articoli che affrontano o sfiorano l’argomento può essere utile e opportuno. Vennero pubblicati su “la Repubblica” e l’ultimo addirittura quattro giorni dopo la sua scomparsa. Rileggerli, per giunta, aiuta a ripulire la mente da improvvisate terapie in alcuni casi proposte da stimatissimi professionisti come il sociologo Domenico De Masi che ci spiega come per azzerare la disoccupazione basterebbe ridurre di quattro ore l’orario di lavoro settimanale: ad esempio, da quaranta a trentasei. Come ottenere il risultato? Semplice: “spaccando il mercato”, dice lui; ma la soluzione proposta sembra piuttosto favorire un vero e piuttosto sbrigativo dumping sociale.

In sostanza, gli occupati verrebbero convinti a cedere quattro ore (salario compreso) invitando i disoccupati a lavorare gratis. Se su tre milioni di disoccupati, uno decidesse di lavorare senza compenso, a quel punto il mercato verrebbe “spaccato” e gli occupati, per non perdere il posto di lavoro, sarebbero obbligati a ridurre orario e salario facendo così posto ai disoccupati. A quel punto si avvierebbe un circolo che per De Masi è virtuoso ma per le persone (tanto quelle al lavoro quanto quelle alla ricerca di lavoro) sarebbe soltanto vizioso visto che inevitabilmente si aprirebbe una concorrenza al ribasso (da un punto di vista salariale) a tutto vantaggio dei datori di lavoro. Ora è evidente che esistono dei problemi oggettivi di ristrutturazione dei tempi e dei modi lavorativi, di risistemazione della nostra vita, ma è altrettanto evidente che bisogna risolverli, come sosteneva Tarantelli, salvaguardando la coesione sociale, cioè evitando pratiche che possano scatenare una “guerra tra poveri” e, sinceramente, l’ipotesi del sociologo qualche non infondato timore da questo punto di vista lo sollecita. De Masi, che ha sintetizzato tutto questo in un libro e offre (come lui stesso tiene a precisare, a pagamento) la sua consulenza al Movimento 5 stelle, dice di ispirarsi a Keynes. Ma è molto meglio che John Maynard non venga messo al corrente di questo fatto: potrebbe anche rivoltarsi nella tomba

LAVORARE MENO LAVORARE TUTTI *

-di EZIO TARANTELLI-

In un articolo recente su queste colonne ho sostenuto che c’ è un solo modo per rilanciare nell’ immediato l’ occupazione e contenere la spesa pubblica: lavorare di meno per occupare di più. Ho aggiunto che nella mia proposta lavorare meno non significa soltanto, né significa in primo luogo, ridurre l’ orario di lavoro ma anche e soprattutto l’ estensione del part-time, giorni di riposo infrasettimanali, allungamento delle ferie e periodi sabbatici per l’ aggiornamento professionale. In una parola, maggiore flessibilità nell’uso e nella divisione del lavoro in un quadro di decentramento contrattuale in cui il lavoratore possa liberamente chiedere, con almeno un anno di anticipo, di poter usufruire di uno o più degli istituti suddetti. Il sindacato aziendale contratta con l’ azienda sul se e sul come l’ organizzazione del lavoro può essere adattata alla richiesta. Il lavoratore rinuncia a quote di salario, di accantonamenti pensionistici e di contributi sanitari uguali alla quota richiesta del tempo libero sul tempo di lavoro. Lo Stato garantisce uno zoccolo minimo per ambedue questi istituti. Chi vuole di più può ottenerlo attraverso forme integrative di assicurazione privata.

L’ intera operazione si deve svolgere, in altre parole, senza aumento alcuno di costo per le imprese. In effetti, i costi d’ impresa diminuirebbero sia perché non tutte le richieste di maggior tempo libero da parte dei lavoratori, contrattate dal sindacato aziendale ed eventualmente accettate dall’ impresa, si risolverebbero in maggiori assunzioni, con un conseguente aumento della produttività; sia per l’ aumento della mobilità del lavoro e il prevedibile crollo dell’assenteismo come è già avvenuto laddove questi esperimenti sono stati tentati. Per quanto riguarda i lavoratori, la famiglia italiana tipo è costituita da tre individui e conta al suo interno circa due percettori di reddito. E’ chiaro che sono proprio i nuclei famigliari con più percettori di reddito quelli che sarebbero più portati ad usufruire del ventaglio degli istituti che ho in precedenza suggerito. E non sarebbero certo in pochi.

Nelle considerazioni finali di quest’anno, il governatore della Banca d’ Italia ha chiaramente indicato in un aumento di tre punti della pressione fiscale, attraverso la lotta all’evasione, ed in un contenimento della spesa pubblica di due punti al di sotto del tasso di sviluppo del reddito nazionale dei prossimi cinque anni la via del risanamento del disavanzo e del debito pubblico. Ebbene, la spesa pubblica al netto degli interessi è soprattutto costituita da salari, pensioni e sanità. La riduzione volontaria del tempo di lavoro sul tempo di vita in questo settore è la via maestra non solo per contenere gli sprechi nel pubblico impiego, dirottando il risparmio agli investimenti produttivi, ma anche per aumentarne la produttività. Questa mia proposta è stata recentemente criticata da Annibaldi su queste colonne con riferimento a due punti principali. Da un lato, egli osserva che il pubblico impiego già lavora da molti anni ad orario ridotto. Ma Annibaldi non considera le implicazioni di un’estensione del part-time, di giorni di riposo infrasettimanali, dell’allungamento delle ferie e dei periodi sabbatici che nella mia proposta giocano, in questo settore come negli altri, un ruolo ben maggiore di una meccanicistica riduzione del solo orario di lavoro. Va anche detto che, per quanto riguarda l’industria, ma non altrettanto nei servizi, Annibaldi ha più di una ragione nel sottolineare l’ esistenza di una infungibilità del lavoro nel ciclo produttivo. Non sempre è possibile, e molto spesso è assai difficile, sostituire un lavoratore che decide di lavorare meno con un altro. Ma non bisogna esagerare. L’aumento annuo della flessibilità del lavoro, di cui qui si sta parlando, sufficiente ad assorbire le nuove forze di lavoro e a ridurre gradualmente la disoccupazione è pari, come ho mostrato nel mio articolo precedente, all’uno per cento del tempo di lavoro (corrispondente a circa 200 mila posti di lavoro in più!). Supera questa grandezza solo nella misura in cui, come non solo è prevedibile ma è perfino auspicabile, parte della nuova flessibilità non si risolva in maggiore occupazione ma in maggiore produttività per le imprese. Problema, questo, che non dovrebbe impensierire il nuovo direttore generale della Confindustria.

Per concludere. Il problema posto da Annibaldi è reale. Non tutte le imprese possono aumentare, almeno nel breve periodo, la flessibilità del lavoro senza il rischio di effetti perversi nell’ organizzazione del lavoro. Si tratta di contrattare azienda per azienda. Caso per caso. Questo è, dopo tutto, il ruolo del decentramento contrattuale in un modello centralizzato e neo-corporativo in cui il tasso d’ inflazione è, invece, predeterminato tra le parti sociali, secondo la mia proposta lanciata su queste colonne più di tre anni fa. La tecnologia limita, ma non ingessa, la divisione del lavoro in fabbrica e in azienda. La riorganizzazione contrattata annualmente al livello aziendale di cui qui si discute riguarda, in media, circa l’ uno per cento del tempo di lavoro o poco più. Il determinismo tecnologico non va spinto, come Keynes anticipava proprio a favore di un aumento del tempo libero in un passo non dimenticato di “Esortazioni e Profezie”, oltre gli stessi intendimenti del giovane Marx. Qui, come mai, occorre ricordare una massima antica. Le più pericolose menzogne sono spesso verità solo moderatamente deformate.

La Repubblica 17 giugno 1984

L’ UNDICESIMO COMANDAMENTO

-di EZIO TARANTELLI-

La locomotiva americana tira. Il Giappone segue a ruota. L’ Europa, invece, annaspa. Per la fine degli anni 80, sia il tasso di disoccupazione che di sviluppo dei paesi europei rischiano di restare più di dieci punti, rispettivamente, al di sopra e al di sotto dei livelli di pieno impiego degli uomini e del capitale. Per i paesi in via di sviluppo, affogati in un mare di debiti, le cose vanno assai peggio. Manca qualsiasi coordinamento internazionale delle politiche di rilancio monetario, fiscale e dei redditi. Questo è lo scenario di sviluppo bloccato, non solo internazionale ma per quanto ci riguarda anche e soprattutto interno, entro il quale occorre chiedersi: quali sono le vie per evitare che nel nostro paese il numero dei disoccupati sfiori i quattro milioni per la fine degli anni Ottanta? In un articolo precedente su queste colonne ho proposto che la risposta a questa domanda sia ricercata in un paradigma che suona, grosso modo, così: lavorare di meno per occupare di più. In questo paradigma, chi sceglie di lavorare meno (non solo in termini di orario ridotto ma anche e soprattutto di part-time, ferie infrasettimanali, venerdì libero, allungamento delle ferie annuali e sabbatici di aggiornamento professionale) è il lavoratore. La scelta è autonoma. Ma essa deve essere contrattata con l’ impresa attraverso il consiglio di fabbrica con un anno di anticipo, allo scopo di consentire le necessarie misure di riorganizzazione del lavoro. Questa operazione non deve, inoltre, in alcun modo aggravare i costi d’ impresa, inclusi gli accantonamenti sanitari e pensionistici, integrabili attraverso forme di assicurazione privata. Questo significa dirottare parte degli incrementi di produttività verso un aumento del tempo libero sul tempo di vita, piuttosto che sul salario reale. Il potere d’ acquisto del salario non diminuisce in media. Ma aumenta di meno. Non si torna, cioè, indietro rispetto al tenore di vita come, a proposito di questa mia proposta, teme il dottor Mortillaro. Si avanza solo meno rapidamente. Se, ad esempio, a fronte di un tasso di sviluppo medio del reddito e della produttività per occupato del 3 per cento, il tempo libero aumenta del 2 per cento e il salario reale dell’1 per cento, ciò creerebbe in base, si badi, ad un calcolo puramente meccanicistico, circa 400 mila nuovi posti di lavoro l’ anno (il 2 per cento di una forza lavoro di 20 milioni).

Ora, anche assumendo che appena un terzo di questo potenziale d’ impiego si traduca in un’ occupazione effettiva, si ottengono più di centomila occupati in più, pari al prevedibile aumento annuo della forza lavoro nei prossimi dieci anni. Il resto di questo potenziale andrebbe in maggiore produttività, anche come effetto del crollo dell’assenteismo, dell’aumento della mobilità che in questi casi si verifica, e di una minore spesa pubblica per il minore aumento dei salari e degli stipendi in questo settore. C’ è chi dice che questo modo di pensare equivale ad una soluzione di ripiego che consente di ripartire un dato numero di posti tra un numero crescente di lavoratori. E, in parte, ciò è vero. Ecco il motivo per cui occorre adoperarsi per un maggior coordinamento delle politiche monetarie e fiscali in Europa, come dicevo all’ inizio. Ecco anche perché occorre che su queste politiche si innesti quella che in un articolo precedente ho chiamato Per: una politica europea dei redditi. Ed, infine, ecco il motivo per cui occorre lavorare oggi, ancor più di ieri, per una politica dei redditi equa ed efficace nel nostro paese, a partire da un attacco non burlesco all’evasione fiscale. Ma questo non deve significare di starsene con le mani in mano En attendent Godot. A ben vedere, inoltre, l’ aumento nella flessibilità e nell’ uso della forza lavoro occupata non è solo una soluzione di ripiego. Essa è anche e soprattutto la conseguenza di una situazione paradossale che vede crescere, contemporaneamente, la disoccupazione involontaria degli uni con la Noccupazione involontaria di un numero crescente di lavoratori appartenenti a famiglie con due o più percettori di reddito. Cosa deve intendersi con l’ espressioneN occupazione involontaria? Direi che la risposta è, grosso modo, la seguente. Si ha Noccupazione involontaria in tutti quei nuclei familiari, o in quei casi individuali, in cui chi lavora sarebbe disposto a rinunciare ad un maggior salario reale in cambio di un aumento del tempo libero sul tempo di vita. Il tempo libero è l’ unico bene di lusso che, in rapporto al reddito individuale, è fortemente diminuito, anzichè aumentare, dal dopoguerra ad oggi. Le statistiche disponibili mostrano, inoltre, che ciò è vero da noi assai più che in tutti gli altri paesi industrializzati.

In Svezia, ad esempio, un lavoratore salariato su quattro svolge un lavoro part-time. In tutti i maggiori paesi industrializzati la proporzione degli occupati part-time va dal 10 al 25 per cento degli occupati. L’ Italia è l’ unico paese industrializzato in cui questa proporzione è inferiore al 3 per cento! Mortillaro pensa che queste differenze siano la conseguenza di una libera scelta (un maggior attaccamento al lavoro?) dei lavoratori italiani. Io mi permetto, invece, di suggerire che ciò è, in parte almeno, il risultato di una cultura industriale che ha scambiato i lacci e lacciuoli del tempo di lavoro taylorista (40 ore la settimana, 4 settimane al mese, 11 e più mesi di lavoro l’ anno) per un’ appendice ai dieci comandamenti.

La Repubblica 17 luglio 1984

I DIECI COMANDAMENTI PER SALVARE L’ EUROPA

-di EZIO TARANTELLI-

Il tempo passa. I disoccupati aumentano. Ce ne sono ormai 15 milioni in Europa. Suggerisco che la sigla Cee sia letta, in segno di lutto: una Comunità Europea in Estinzione. In un articolo recente su queste colonne ho proposto, per così dire, di pagare i disoccupati europei in scudi. Da allora, questa proposta è stata ripresa ed appoggiata da più parti. Vale, quindi, la pena di riprenderla precisandone i limiti ed i contenuti. Cominciamo dai contenuti. Primo: si doti il Fondo sociale europeo di un finanziamento in scudi, stampati dalla Comunità, a fronte dei finanziamenti in valuta nazionale che oggi sostengono il bilancio comunitario. Ciò è possibile senza alcuna ratifica da parte dei parlamenti nazionali, secondo autorevoli interpretazioni, in base all’ articolo 235 del Trattato di Roma. Secondo: i nuovi scudi europei sarebbero strumento di riserva delle banche centrali. Essi consentirebbero il finanziamento di sussidi di disoccupazione, programmi di addestramento e riqualificazione professionale e di investimenti produttivi. L’ aumento delle riserve delle banche centrali è la condizione necessaria perché questo avvenga, senza che la locomotiva europea continui ad incepparsi per la diversa velocità con cui ciascuno Stato membro lascia procedere ogni singolo vagone. Terzo: nel nuovo sistema, ogni stato membro avrebbe inizialmente un diritto di prelievo in scudi presso il Fondo sociale europeo pari al 10 per cento dei suoi disoccupati. Chi ha più disoccupati ha più diritti di prelievo, in base al ben noto principio di stabilizzazione automatica della domanda aggregata. Se si imputa un reddito medio per disoccupato pari a quello medio pro capite della Comunità, è facile mostrare che gli scudi così creati sarebbero inizialmente pari al bilancio Cee. Quarto: questa operazione dovrebbe essere estesa, a partire dal prossimo anno, quando il bilancio comunitario passerà dall’uno al più del due per cento del prodotto interno europeo. Si tratta di quantità modeste. Ma si può calcolare che l’ aumento dell’ occupazione europea sarebbe di almeno 300 mila occupati nel primo anno di applicazione della proposta. Al procedere dell’ allargamento del bilancio comunitario, con contropartita in scudi europei, lo zoccolo duro della disoccupazione europea potrebbe essere spazzato via entro la fine di questo decennio. Proprio come ha fatto Reagan stanziando dollari (non, come qualche ingenuo ancora crede, con i MacDonalds ed i bassi salari!). Quinto: l’ aumento delle riserve in scudi, della domanda europea e dell’occupazione che questo progetto consente non darebbe luogo a cariche inflazionistiche ragguardevoli. La stagflazione europea è, ormai, stagnazione pura e semplice. L’ inflazione non c’ è più. Tranne che in Italia, dove si rischia un referendum contro misure, come la predeterminazione dell’inflazione, che hanno mostrato in concreto di poterla ridurre, perfino in un anno di ripresa dell’economia, difendendo il salario reale. Anche su questo punto vi è unanime consenso tra i centri studi più autorevoli, a partire dalla Banca d’ Italia. Sesto: i paesi europei somigliano ad altrettanti nuotatori che esitano a tuffarsi dal trampolino. Ognuno dice all’altro: prima reflazioni tu, poi mi butto io. Nel nuovo sistema, chi rinuncia a prelevare da Bruxelles gli scudi a cui ha diritto resta sul trampolino, mentre gli altri rilanciano l’ occupazione nazionale. In altre parole, chi non coordina la propria ripresa con quella degli altri, resta indietro. Settimo: c’ è chi pensa che, perché tutto ciò avvenga, c’ è “prima” bisogno di una Banca Centrale Europea. E’ un errore pericoloso. La storia ha mostrato che le banche centrali sono sempre venute dopo i governi e le monete coniate dai re per finanziare le spese di guerra ed i vizi di corte. La fatiscenza del Fecom, come embrione di una banca centrale europea di là da venire, è il segno che sarà così anche in Europa. L’ unica speranza è che lo scudo sia coniato per il rilancio dell’occupazione europea piuttosto che per il Day after, come avviene con il dollaro negli Stati Uniti. Ottavo: il governo conservatore tedesco, che per unanime consenso è il primo responsabile del mancato aggancio della ripresa europea a quella americana e giapponese, è ostile a questa proposta perché essa esautora il marco come moneta europea egemone. Ma i tedeschi avevano meno di un milione di disoccupati circa tre anni fa. Oggi, proprio grazie a quel governo ne hanno più di tre milioni. E è forse utopia pensare ad una alleanza tra la sinistra ed i sindacati italiani, francesi, tedeschi ed i laburisti inglesi, che escono sconfitti dalla battaglia dei minatori? Ci sono più di tre milioni di disoccupati anche in Inghilterra. L’ utopia dei deboli non è, forse, la paura dei forti? Nono: c’ è, poi, il pericolo della vecchia cultura di sinistra. Prendiamo il caso italiano. Finché il nostro tasso d’ inflazione è cinque volte maggiore di quello tedesco, è più difficile per noi esportare in Germania. Per lo stesso motivo, le importazioni dalla Germania aumentano. La sinistra tedesca non può essere anti-nazionalista al punto di accettare che il disavanzo dei nostri conti con l’ estero, che deriva dai nostri vizi nazionali, sia finanziato in scudi, ossia con la moneta altrui. Sarebbe come regalare agli italiani birra e macchinari tedeschi senza che la Germania possa godere del nostro vino e del nostro sole a prezzi convenienti. Certo, si può svalutare ogni anno o due. Ma non è meno credibile chi dice di voler rafforzare la Cee, da sinistra, mentre ferma il Parlamento e indice referendum contro la politica dei redditi, lo strumento necessario per restare nello Sme. La via maestra della sinistra europea è un’ altra: creare le condizioni perchè l’ Inghilterra entri nello Sme, perché la banda di oscillazione del nostro tasso di cambio si riduca gradualmente fino ad essere quella degli altri paesi membri, perché i movimenti di capitale possano essere gradualmente liberalizzati in Italia e in Francia. Decimo: il progetto che ho appena delineato mette in prima linea, assieme alle forze europeiste ed alla sinistra europea, la pulizia morale e la grande forza del partito comunista italiano per il rilancio dell’ occupazione europea. Questa era, dopo tutto, l’ intuizione geniale dell’ eurocomunismo. Ma per questo grande progetto c’ è bisogno, oggi come non mai, di un partito comunista nuovo, capace di cambiar pelle anche sul tema centrale della politica dei redditi. Un partito comunista italiano capace di predeterminare, o programmare, responsabilmente le aspettative e l’ inflazione, come hanno ormai fatto tutti i paesi europei.

La Repubblica 31 marzo 1985

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