La fine dello stato sociale e il welfare aziendale

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

Il mainstream dominante, imposto dal “pensiero unico” della finanza globale e dei suoi vessilliferi, commentatori “buonisti” che sembrano presi dai romanzi di Harmony o dai bigliettini dei baci Perugina e i media su cui scrivono, è quello delle compatibilità economiche e dell’esigenza di razionalizzare la spesa pubblica, ovviamente, alla fine, sempre a danno dei ceti più deboli.

E così lo Stato sociale, quello che le socialdemocrazie tradizionali nel dopoguerra esemplificano nel trinomio “case-scuole-ospedali”, ma che fu pensato per primo nel 1943 da un grande liberale come Lord Beveridge, subisce sistematici arretramenti. D’altronde, non si costruiscono più case popolari, la cosiddetta “buona-scuola” ha dato l’ultimo colpo di piccone alla scuola pubblica e gratuita per tutti ed è venuto meno, da tempo, il carattere universalistico del Servizio Sanitario Nazionale: lo Stato, insomma, non è più il soggetto che garantisce la cittadinanza a tutti, con le risposte ai bisogni sociali
Ma se ciò appare come il segno distintivo della sedicente “Seconda Repubblica”, nata per asservire al mercato la politica democratica e, quindi, comprimere i diritti sociali, lo zenith della riduzione drastica del Welfare State si ha con le politiche di restrizione sociale, cominciate con il governo Berlusconi-Tremonti e con i superticket, seguite poi dai pesanti tagli di Monti alla spesa sanitaria e dal sostanziale azzeramento di quella sociale sino ai governi Renzi-Gentiloni, che assestano il definitivo colpo di maglio al diritto alla salute e all’assistenza nel nostro Paese, con il sostegno al modello secondo il quale in una fase di risorse pubbliche scarse, al posto dell’intervento statale si deve prevedere in via sussidiaria quello dell’iniziativa privata, del terzo settore, del volontariato, dell’impresa che con i contratti aziendali eroga servizi ai propri dipendenti. Un modello che, alla fine, drena comunque risorse pubbliche, dirette sotto forma di sostegno economico o indirette con agevolazioni fiscali e che, quindi, alla fine non consente gli auspicati risparmi.

Con la stipula degli ultimi contratti collettivi decentrati, i sindacati e le aziende hanno sposato la linea del Welfare aziendale, fondato su convenzioni per i dipendenti per l’assistenza sanitaria e detrazioni dal costo del lavoro per i datori. Nulla in contrario se ciò non venisse inteso dai decisori politici come una progressiva sostituzione del welfare d’impresa allo Stato sociale, abbandonando a sé stessi i pensionati, i cittadini disoccupati e quelli che lavorano in aziende che non applicano integralmente i contratti collettivi.

Visto che si evoca sistematicamente l’Europa, negli altri Paesi più avanzati dell’Unione, dalla egemonica Germania, che sta facendo pagare l’austerity agli altri Stati, a quelli scandinavi, all’Austria, si è proceduto ad una riforma del Welfare state, in relazione alla crisi fiscale annunciata in tempi non sospetti da un altro grande liberaldemocratico come Ralph Dahrendorf, che garantisce servizi universalistici e gratuiti per le fasce di reddito più basse, depurandoli da vincoli elettoralistici e rilanciando uno strumento che ha dato un contributo fondamentale alla modernizzazione dell’Europa, stabilizzando l’economia di mercato, rafforzando le istituzioni democratiche e estendendo il perimetro della cittadinanza politica e sociale.

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