-di ANTONIO MAGLIE-
Il Movimento 5 stelle si riunisce a Ivrea, all’interno di quella Olivetti in cui Gianroberto Casaleggio, il fondatore con Beppe Grillo, cominciò a muovere i primi passi professionali. Il figlio Davide ha fatto sapere che non si parlerà di politica. Ma non c’è nulla di più politico di un dibattito su innovazione e futuro. Per diversi motivi. L’innovazione ci obbligherà a mutare tante cose nella nostra vita: dai tempi di lavoro alla scansione della nostra vita (oggi ancora sostanzialmente tripolarizzata ma ormai avviata verso una suddivisione più orizzontale che verticale); obbligherà a ripensare il welfare ed è sinceramente illusorio che possa bastare il reddito di cittadinanza per risolvere i problemi che la robotizzazione aggiungerà in termini di distruzione di posti di lavoro e di lavori a tutta la società politica.
Qualche anno fa, ancora, nel pieno della crisi dei debiti sovrani, L’Organizzazione Internazionale del lavoro stimò che nel giro di un decennio per pareggiare i conti bisognava creare nel mondo un miliardo e mezzo di posti di lavoro; oggi la società di certificazione Price Waterhouse Coopers ha stimato che la robottizzazione determinerà entro il 2030 la scomparsa del 30 per cento degli attuali posti di lavoro. È evidente che le risposte sono dentro una visione politica e questa visione politica non è assolutamente asettica. Anche perché lo sconvolgimento si porta come corollario la necessaria riforma del welfare che, però, a sua volta impone l’obbligo di rispondere preventivamente a una domanda: il prossimo futuro dovrà essere caratterizzato dalla rinuncia alla protezione universalistica oppure, proprio perché pieno di incognite, quella protezione non solo andrà salvaguardata ma addirittura rafforzata e migliorata? E, soprattutto, il conto chi lo pagherà?
È, allora, ipocrita sostenere che una discussione su quei due temi possa prescindere dalla politica. A meno che non si preferisca tenere la politica in un angolo nascosto per evitare risposte imbarazzanti o intenzioni preoccupanti. Bisogna dirlo con chiarezza: per la democrazia così come l’abbiamo conosciuta, tira una brutta aria. Certo, colpa di una classe politica vorace che ha trasformato l’illegalità in un segno caratteristico “professionale”. Ma facendo leva su questa tendenza a usare il potere collettivo e i beni pubblici a fini privati, in tanti hanno costruito una narrazione (Matteo Renzi compreso) in cui i “riti” della democrazia vengono bollati con il marchio di infamia di cerimonie ripetitive da Prima Repubblica. Al grido “riduciamo i costi della politica” (principio in generale accettabile) sono state prospettate (anche con l’ultima riforma costituzionale bocciata dalle urne) scorciatoie che sembravano avere un solo obiettivo: presentare le complessità della democrazia come un fastidio da evitare, un costo economico possibilmente da annullare.
Un piano inclinato percorso con successo dal movimento di Beppe Grillo che ha raccolto l’insoddisfazione, l’irritazione, la delusione dei cittadini con slogan semplici (seppur non infondati) e di grande presa popolare. A questo si è aggiunto il “mito” della democrazia diretta avendo quella indiretta prodotto esiti fallimentari (“uno vale uno” si è trasformato in “uno vale nessuno” perché alla fine decidono in due), l’idea di un programma definibile come un concorso televisivo a quiz (tanto poi arriva il Grande Capo che detta la linea spesso diversa dal programma), la scelta di sponde internazionali (la malcelata simpatia per Putin) e in alcuni casi alleanze (Farage) e di modi di gestione del partito (la storia di Genova ma non solo) che tradiscono un’idea di democrazia che può assumere derive preoccupanti attraverso il sistema piuttosto oscuro (e agevolmente manipolabile) della “partecipazione via web”. Bisogna allora domandarsi: è possibile che quel largo consenso creato sul malessere (e sul “mal vivere”) delle persone in carne e ossa possa essere utilizzato per provocare una torsione autoritaria del concetto di democrazia? È un dubbio che Grillo, Casaleggio e il partito intero (da Di Maio a Di Battista) dovrebbero sciogliere, ma non con slogan e parole scritte sull’acqua, ma con scelte concrete, di campo. Perché anche definirsi “né di destra né di sinistra” è un giochino che all’alba di un altro secolo questo paese ha già visto. Discutete pure di futuro ma fateci sapere qual è la vostra visione di società futura. Cioè, uscita dai tweet e parlate di politica.