Riccardo Lombardi: Cos’è il riformismo rivoluzionario

-di RICCARDO LOMBARDI-*

Che cosa avveniva in quegli anni attorno al 1961-62 quando si risvegliava da un lungo letargo difensivo lo spirito delle masse e si riproponevano i problemi dell’offensiva e dell’attacco? Nel movimento operaio (sono costretto a seguire una linea che probabilmente apparirà schematica) si scontravano e si combattevano due concezioni. Probabilmente sbaglio a dire concezioni, perché dovrei allora parlare di concezioni antagoniste, mentre invece a mio giudizio sono e furono complementari; meglio dire due punti di vista, due fili logici, infine due linee di azione: l’una che puntava soprattutto sul momento istituzionale, l’altra che puntava soprattutto sul momento strutturale e non su quello istituzionale o sovrastrutturale.

Nel partito socialista queste due scelte di momento ebbero una dialettica – fraterna, personale quasi tra me e Foa – e la stessa dialettica e lo stesso scontro, se scontro si può chiamare, animarono tutti i partiti della sinistra anticapitalista in quel periodo, e non soltanto in Italia, perché quello che si produsse in Italia ebbe riflessi abbastanza importanti in altri paesi. Da una parte chi puntava sul momento istituzionale domandava una direzione politica dello sviluppo fondata appunto sull’intervento a livello istituzionale, sul controllo degli investimenti: la politica del credito, la politica dei profitti, il rifiuto della politica dei redditi connesso a una ipotesi di alterazione globale del rapporto di classe nel sistema. Di fronte, a scontrarsi con questa prevalenza del momento sovrastrutturale istituzionale, c’era invece la sopravvalutazione, o l’insistenza pressoché esclusiva, sul momento sociale, sui problemi di base, sui contropoteri e sulla contestazione a livello di fabbrica e di luogo di lavoro. Due concezioni dunque, o meglio ancora due linee politiche, evidentemente per nulla antagoniste, e non dire io neppure integrabili, ma complementari, perché è impossibile concepire un movimento di azione e di direzione politica dello sviluppo, o almeno dell’intervento sulle istituzioni e sugli organismi a loro disposizione, non sostenuto da un movimento di massa, cioè non appoggiato e non sollecitato da un movimento di massa; in assenza del quale, evidentemente, l’opera istituzionale si muta nella migliore delle ipotesi in tecnocrazia, nella peggiore in governo autoritario.

Non c’è dubbio che nell’opera di pianificazione, di intervento per una direzione dello sviluppo e degli investimenti,quell’elemento di tecnocrazia e anche di autoritarismo esiste realmente: nessuno di coloro che sono per una pianificazione democratica – fra questi sono io – ha mai negato che il momento istituzionale, la politica di programmazione e l’intervento per la direzione politica dello sviluppo, privi o esclusi da un sostegno cosciente e critico di massa che li accompagni con una lotta e con uno scontro al livello di microcosmo della fabbrica, estendendo questa contestazione alla società, non soltanto rischiano, ma sono quasi sicuramente portati a forme di tecnocrazia o di autoritarismo.

I due momenti di fatto erano tanto complementari che poi furono integrati – non per escogitazione di nuove formule, ma perché erano effettivamente integrabili – in quella linea politica che in realtà è stata poi assunta in larga misura, si può dire totalmente dai partiti istituzionali, e che fu chiamata da uno scrittore francese con un nome curioso, riformismo rivoluzionario. Gilles Martinet, rifacendosi a questo scontro di linee politiche, l’una puntante sulle istituzioni e l’altra sulla società e sulla base, finiva con l’attribuire la paternità di questa linea politica che chiamavano italiana al concorso di elementi discorsi come Ingrao, Foa, Trentin e il sottoscritto. E la cosa ebbe tanta rilevanza che ci fu a quell’epoca addirittura nello stesso partito comunista francese un settore che si chiamava o si faceva chiamare italianizzante, appunto perché interessato a questa che per il partito francese, ancora molto chiuso in quell’epoca, appariva una formula – non per il suo nome, ma per il suo contenuto – piuttosto ambigua.

Il riformismo rivoluzionario appunto (adottiamo pure ormai il nome, che è diventato non più materia di scherno o di scherzo, ma segno di un elemento culturale e politico importante) si è presentato come una formula che perseguiva una politica di riforme, di direzione politica dello sviluppo, ma la perseguiva in legame diretto e non in contrasto con una vasta azione di massa. Nel legame fra azione di massa al livello strutturale e azione di direzione politica al livello strutturale e istituzionale venivano così sanati quello iato, quella frattura e anche quel tanto di illuministico che, come io stesso ho riconosciuto in un’ampia autocritica fatta a suo tempo, aveva presieduto e minacciato i primi tentativi di portare a una direzione politica dello sviluppo tendente a invertire i rapporti di classe.

Che cosa significava questo intervento in definitiva? Rendere accessibile, attraverso il movimento di massa, le possibilità alternative non obbligate nelle decisioni a livello strutturale e sovrastrutturale, persuadere attraverso l’azione politica e l’azione di massa che non c’è nulla di obbligato e nulla di tecnicamente vincolante, che non c’è soluzione unica imposta dalle scelte del capitalismo, che anzi a ogni scelta il movimento operaio può opporne una diversa e contraria. E proprio attraverso queste scelte, se imposte sia attraverso il movimento politico sia attraverso gli appoggi di massa, possono crearsi dei poteri parziali nella società, da utilizzare per creare nuovi problemi che esigono nuove riforme e nuovi passi in avanti, e così iniziare un’opera si può dire di autoalimentazione, di cui, guarda caso, c’è un antecedente teorico – la visione cioè della potenzialità di questa serie ininterrotta di riforme, l’una richiamantesi all’altra e occasionante quella successiva attraverso il sistema dei poteri successivamente strappati alla classe dirigente – un richiamo e una anticipazione, un’intuizione in uno scritto postumo di Rodolfo Morandi.

A questo punto, come si è detto, il pensiero e la prassi politica dei partiti istituzionali espressero chiaramente una scelta riformatrice, ma una scelta riformatrice che ancora e fino a prova contraria recava in sé una potenzialità rinnovatrice. E questo malgrado l’inadeguatezza, anzi il fallimento delle sue applicazioni e dei suoi tentativi di applicazione, perché non si deve dimenticare che in Italia non abbiamo avuto né riforme né rivoluzione; non abbiamo avuto una rivoluzione, ma neppure delle riforme degne di questo nome che abbiano realmente intaccato la potenza dei gruppi di potere pubblici e privati, delle classi dominanti, o abbiano in qualche modo alterato il condizionamento imperialistico che domina la nostra economia. In questa situazione, naturalmente, l’attività politica si svolge in un continuo confronto con le forze extraistituzionali – o estraparlamentari, o extratradizionali – poiché certo, quando si pone un problema di azione rivoluzionaria mediante riforme sostenute da movimenti di massa e legate, si può dire derivanti da esigenze espresse autonomamente dalle masse, la prima contestazione naturale, che gli stessi, partecicipi di questa politica hanno posto a se stessi, è questa: ma le riforme non sono sempre integrabili, e sono effettivamente integrate dal sistema?

Certamente le riforme sono integrate, e l’appunto maggiore, dopo quello di una corsa alla tecnocrazia, che si è mosso proprio ai partiti tradizionali, in particolare al partito socialista e da alcuni anni al partito comunista, è il fatto che la riforma tende spesso a diventare riformismo. Non c’è dubbio che tutte le riforme possono essere , e sono integrate dal sistema: la questione è di vedere che costo devono pagare la classe dirigente e i ceti dominanti per integrarle, quale ferita o quali problemi essi aprono nell’integrarle, e se essi sono in grado di chiudere la partita con l’integrazione di ciascuna riforma o se per ciascuna non ne aprono una successiva. Non c’è dubbio che è una politica vischiosa come tutte le politiche, che rischia realmente di scivolare nel riformismo e quindi in quelle riforme che in certo modo il sistema può non soltanto tollerare, ma integrare.

In questa critica si è distinto a livello teorico soprattutto Ernest Mandel, il massimo teorico dei trotskisti – non dell’ala tradizionale lambertista ma di quella innovatrice – uno dei più rispettabili studiosi della sinistra rivoluzionaria, autore di un “trattato di economia marxista” che è forse l’unica opera completa esistente sul mercato internazionale di oggi, il quale tuttavia ha una teoria che a leggerla con sguardo disattento finisce col raggiungere appunto la linea politica del riformismo rivoluzionario con tutte le sue conseguenze. E le conseguenze che si traggono dal riformismo rivoluzionario sono chiare e ormai palesi a tutti, esse portano alla conquista non del potere ma dei poteri, cioè i poteri parziali di cui servirsi per intaccare il blocco di potere. Questa politica non propone dunque al movimento operaio la giornata della presa del potere, ma pone dei problemi che poi hanno il loro sviluppo effettivo e completo in una società di transizione.

Ma la critica dell’estrema sinistra insiste su questo punto dell’integrabilità – intendiamoci bene, l’integrabilità di qualunque opera riformatrice – e in questo c’è un elemento di verità come in tutto, che non è soltanto il pericolo che in realtà una pratica di questo genere, se non sostenuta da mani vigorose e da un movimento di massa permanentemente vigilante, rischi di trasformarsi in riformismo e in appoggio e integrazione del sistema. C’è però anche, implicita, una critica, e una diffidenza manifesta nei confronti dei partiti che dovrebbero gestire (perché sono necessariamente dei partiti che dovrebbero gestire a livello sovrastrutturale, istituzionale) questa linea politica di conquista dei poteri attraverso una prassi di riformismo rivoluzionario.

Non per nulla, coeva all’azione politica che si sviluppava e si definiva del riformismo rivoluzionario, fu impostata dagli stessi uomini partecipi di questa linea, come necessario accompagnamento, necessario impegno, quella che fu chiamata allora la ristrutturazione delle sinistre. Si capiva che,per un disegno di questo genere, i partiti tradizionali con le loro arretratezza, con i loro burocraticismi, con tutte le tare ereditarie e quelle autogenerate, non erano in grado di sostenere una politica così rischiosa e così avanzata senza riformarsi internamente e senza riformare i loro rapporti unitari pur nella pluralità delle loro espressioni politiche ed operative; senza di che il rischio sarebbe quello di una scelta tra un riformismo mediocre e un rivoluzionarismo generoso e sincero, ma senza prospettive: questa era la risposta che davamo.

E si rispose anche a Mendel, che contrapponeva a un sistema di riforme le quali si può dire che ricalcavano puntualmente la linea della riforma rivoluzionaria, ma domandavano come condizione la loro non integrabilità al sistema. La risposta è che questa condizione non si può mai definire astrattamente, ma solo caso per caso, secondo i rapporti di forza e le condizioni della società. Ci sono delle riforme che possono essere integrate, che sono anche facilmente integrabili nel senso che non implicano costi eccessivi per il sistema, ma che per le condizioni obbiettive della società nel momento in cui esse vengono promosse, o per l’esistenza di strati arretrati nella compagine degli interessi costituiti, scatenano una violenta lotta. Cosicché, più che l’ottenimento della riforma, vale l’importanza educativa della lotta che è stata svolta e sostenuta per guadagnarla, e che come tale aumenta, migliora ed esalta la coscienza rivoluzionaria delle masse, ne accresce la forza, la fiducia in sé, e deprime l’avversario. Bisogna tener conto anche di questi elementi per giudicare non astrattamente il valore, caso per caso, di una linea di riforme che non voglia cadere nel riformismo.

*Lo stralcio appartiene a una lezione che Riccardo Lombardi tenne nel 1974 nel corso di un seminario di storia contemporanea organizzato dall’Istituto di storia della facoltà di magistero dell’università di Torino in collaborazione con il Centro studi Piero Gobetti e il Circolo della resistenza. Per quanto datato, può aiutarci a comprendere perché mai le parole riforme e riformismo vengano utilizzate (soprattutto oggi) per indicare processi di trasformazione largamente graditi (integrabili senza sforzi particolari, anzi) alle classi dominanti o ai circoli di potere internazionali (non a caso, di riforme strutturali parlano i burocrati di Bruxelles facendone anche un significativo, forse preoccupante, accenno nel nuovo patto che i 27 hanno firmato a Roma in occasione del sessantesimo anniversario dei Trattati firmati nel 1957 e che avviarono il processo di integrazione). Le riforme devono avere dei costi e la loro qualità e caratterizzazione politico-sociale dipende dalle classi che quei costi vengono chiamati a pagare; le riforme sono un processo continuo di trasferimento di poteri dalle categorie privilegiate a quelle meno privilegiate (esattamente quello che non è avvenuto attraverso le riforme che il neo-liberismo ha sollecitato e attuato dalla fine degli anni Settanta ad oggi e che hanno al contrario concentrato progressivamente poteri e ricchezze nelle mani dei più abbienti).

Il testo che abbiamo pubblicato è apparso inizialmente nel volume a cura di G. Quazza dal titolo: “Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea”, Einaudi, Torino, 1977, pp. 311-335; successivamente è stato ripubblicato in: “Riccardo Lombardi: scritti politici 1963-1978. Dal centro-sinistra all’alternativa”, a cura di S. Colarizi, Marsilio, 1978, pp. 203-214

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