-di PAOLO RUSSO-
Oggi ricade il 60°anniversario dei Trattati di Roma. Correva l’anno 1957 quando si diede forma alla Comunità Economica Europea, quella che dal ’92 al 2007 sarà considerato il “primo pilastro” della nuova Unione Europea, nata con gli accordi di Maastricht. Le Comunità europee allora esistenti erano rappresentate da CEE, EURATOM e la già istituita CECA, le quali agivano su settori che interessavano l’unione doganale e l’approvvigionamento e la condivisione comune di materie prime. Ciò vuol dire nient’altro che un’integrazione economica. Ed è proprio l’aspetto economico a concentrare la gran parte degli argomenti di cui si dibatte oggi. Ma concediamoci uno sguardo più analitico.
Il contesto in cui andiamo ad immergerci, quello tra il secondo dopoguerra e i critici anni ’70, è quello divenuto famoso, in ambito politico ed economico, con il nome di “Stato keynesiano”. Keynes affermava, in sintesi, che l’economia non può autoregolarsi e che necessita, per farlo, del contributo dello Stato, affermando, in tal modo, la primazia della politica sull’economia. Questo sistema viene abbandonato successivamente alla sospensione degli accordi di Bretton Woods nel’71 e alla crisi petrolifera del ’73, dando spazio a quello che sarà il nuovo modello economico, basato sulle teorie pre-keynesiane, quelle che ci rimandano al controverso economista neoclassico Milton Friedman, esponente principale della Scuola di Chicago. Modello adottato dalle nuove forze politiche di orientamento liberale, pensiamo alla Thatcher e a Reagan, per cui lo Stato non deve intervenire nell’economia, lasciando che questa agisca autonomamente secondo le sue necessità. La cosiddetta “economia mista” dello Stato keynesiano inizia a sparire gradualmente, fortemente criticata anche per non essere riuscita ad impedire la crisi degli anni ’70.
Per quanto riguarda l’ambito comunitario europeo, l’inversione di marcia, ovvero il passaggio verso la liberalizzazione dell’economia, avviene in modo netto nel 1992, quando viene ratificato il Trattato di Maastricht. Quest’ultimo ribalta e nega l’intero processo di integrazione europea dal ’57 fino ad allora. Chiariamo meglio. Con il Trattato di Parigi (1951), che dà origine alla CECA, e i Trattati di Roma, si dà vita all’idea di un percorso a tappe verso l’integrazione europea, come auspicato da Robert Schuman, uno dei padri fondatori: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta”. La corrente maggioritaria nell’avvio di questa integrazione è proprio questa, il “funzionalismo”, ovvero la realizzazione di un passaggio di sovranità graduale dagli stati nazionali alla Comunità Europea, in favore di una cooperazione internazionale che coinvolge settori limitati ma via via più ampi. L’idea che si fa strada fino allo sconvolgimento di Maastricht fa ricorso al principio secondo cui l’economia deve essere solamente uno strumento per il raggiungimento dell’obiettivo dell’integrazione politica. Il nostro Altiero Spinelli, un altro dei padri fondatori dell’Europa unita, autore del Manifesto di Ventotene, si dichiararerà contrario ai Trattati di Roma, con la motivazione che quel che sarebbe dovuto avvenire prima di ogni altra cosa, era proprio l’integrazione politica, la quale solo in un secondo momento avrebbe portato a quella economica. Col senno di poi, molti, probabilmente, gli darebbero ragione. Una vera integrazione politica non si è mai concretizzata in Europa. L’economia ha continuato ad essere il perno dello sviluppo di questa integrazione. Uscimmo da Maastricht, insomma, con un modello economico liberista e con una moneta unica non garantita da alcun potere sovrano.
L’economia, dal 1992, ha iniziato ad essere investita sempre di maggiori poteri, derivanti dal grado di libertà concedutagli, e le sue lacune non hanno tardato a venir fuori. Sebbene il primo lustro dopo l’introduzione dell’Euro (2002) sia stato accompagnato da un discreto periodo di crescita, l’effetto di impoverimento nei paesi dell’Europa mediterranea, dovuto all’ascesa dei prezzi (che seguono una logica extra-nazionale) e alla discesa dei salari (che seguono, invece, una logica nazionale), non si è fatto attendere. Ma le criticità maggiori sono state messe in luce dall’attuale crisi che ha origine nel 2008. Si è riscontrato che in una fase di crescita, lo sviluppo ha toccato tutti i paesi, in modo proporzionale alla grandezza delle economie. In fase di contrazione dell’economia, però, non tutti i paesi hanno gli stessi strumenti e le stesse risorse per venir fuori dalla crisi. Detto ciò, uno degli scenari plausibili sarebbe una politica di solidarietà che consiste nel pagamento anticipato, da parte dei paesi più ricchi (Germania e Francia, per intenderci), dei debiti dei paesi meno ricchi (Grecia in primis), i quali mantengono l’impegno di restituire il debito in futuro. Lo scenario peggiore che si potesse verificare è, invece, proprio quel che è accaduto. Un paese come la Grecia, che partiva nel 2008 con un debito di circa 30 miliardi, arriva oggi, a causa delle politiche di austerity, ad un debito che negli ultimi anni oscilla tra i 200 e i 300 miliardi di euro. Circa il 175% del suo PIL, ben oltre i parametri consentiti da Maastricht.
Se la storia serve a qualcosa, è opportuno ricordarci del fatto che in tutta la storia economica vi è una regolarità sempre rispettata: non esiste una moneta senza alle spalle un potere sovrano, il quale ne garantisce il valore. Ecco, l’Euro è il primo caso di una moneta che non ha un potere sovrano, politico, alle spalle.
L’Europa futura è ancora un sogno per alcuni. Ma oggi noi, nuova generazione, ci rapportiamo all’Europa come un qualcosa che non ci appartiene, in quanto frutto di un tempo che non abbiamo vissuto, che non ci è appartenuto. Niente di più sbagliato, se pensiamo che siamo tutti il frutto di ciò che è stato in passato. Niente divisioni, ma soluzioni di continuità. Queste daranno modo di accrescerci. Queste spianeranno la strada al cambiamento. O, meglio, al miglioramento. Col tempo si dissolve sempre di più l’idea di un impegno politico, quell’impegno che fortemente caratterizzava le vecchie generazioni, le quali hanno contribuito, così facendo, alla nascita dell’Europa e del sentimento europeo. E l’effetto, che determina tutto ciò, si materializza nella recente Brexit e nei vari populismi e anti-europeismi di livello nazionale. La crisi economica attuale si è trasformata in una crisi politica. Ed è paradossale, sapendo che Maastricht, in realtà, nasce come strumento economico per la soluzione di una questione politica che, al tempo, era la riunificazione della Germania. Ma questa non è un’altra storia. Quello che si può auspicare è che le crisi, come quella che stiamo vivendo, siano anche e soprattutto momenti di riflessione, affinché in tutta Europa rinasca l’idea di far procedere un processo di natura politica che sappia trovare, infine, una soluzione economica.