Locri, le scritte indegne e la Questione Meridionale

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Domenica la giornata della memoria in ricordo delle vittime della mafia. Oggi quella del dileggio della legalità. Dopo la manifestazione di Locri con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sui muri del vescovado sono apparse alcune scritte contro don Luigi Ciotti, uomo impegnato nella lotta alla mafia attraverso la fondazione “Libera” e, in generale, contro il Mezzogiorno che cerca da decenni di uscire da una condizione di servaggio imposta proprio dalle organizzazioni criminali che hanno potuto contare anche su complicità nel Palazzo e sulla disattenzione dei governi (cresciuta da una trentina d’anni a questa parte) nei confronti del problema dello sviluppo del Sud.

Tra le altre, una di queste scritte diceva: “Meno sbirri più lavoro”. A parte il fatto che anche quello dello “sbirro” è un lavoro, complicato, duro e pericoloso ma fondamentale in uno Stato democratico che riconosce a un solo soggetto l’uso legittimo della forza (con buona pace di Salvini e Calderoli che vaneggiano un sistema da far west), cioè a se stesso attraverso le strutture deputate a garantire l’ordine (in senso costituzionale, sia chiaro) e la sicurezza; è evidente il messaggio sottinteso che individua nelle organizzazioni criminali strutturate (mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita) “entità” che “danno lavoro”. Come e a quali condizioni, poi, non è difficile intuirlo: basta informarsi ad esempio presso coloro che si sono ritrovati a gestire cantieri legati agli appalti pubblici come ad esempio quelli dell’allargamento della Salerno-Reggio Calabria che certo non hanno fatto eccezione alle “regole” anche perché aperti in aree ad alta densità criminale. Basterebbe domandarsi perché mai le grandi ditte che si aggiudicano i lavori poi debbano operare sul territorio per interposti soggetti. È evidente che non sarà mai a queste condizioni che potrà avvenire il riscatto del Sud.

Purtroppo la politica italiana, dall’unificazione ad oggi passando anche per la parentesi ventennale del fascismo e, persino, della liberazione (non è che la mafia in quel periodo sia stata con le mani in mano), ha oscillato tra l’interpretazione dei malanni meridionali come il semplice risultato di una cattiva amministrazione e la rassegnata contemplazione di una propensione a delinquere di tipo “quasi genetico”. L’intervento straordinario che pure ha prodotto passeggeri benefici (la forbice tra Nord e Sud ha raggiunto nel 1970 il suo livello minimo: di lì in poi si è riaperta), prima si è identificato con la scelta delle “cattedrali nel deserto”, poi con gli interventi a pioggia che hanno alimentato clientele, furbizie, malaffare e arricchito, ovviamente, la criminalità.

Ecco perché la manifestazione di Locri potrà avere un senso concreto se oggi, uscendo dalle semplificazioni e provando a ragionare seriamente sulla rilevanza strategica per il futuro del Paese della “questione meridionale”, i governi, di qualsiasi colore, riproponessero il problema al centro dell’agenda, esattamente come avvenne subito dopo la Liberazione, semmai evitando gli errori di allora. Perché un dato è evidente: l’Italia crescerà sempre poco se un pezzo riuscirà a correre ai ritmi dell’Europa più ricca, e un altro pezzo, invece, si muoverà alla velocità dell’Africa meno povera. Il misero 0,9 di aumento del Pil è figlio di tutto questo perché prodotto da una statistica, cioè da una media.

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