-di ANTONIO MAGLIE-
Per Angela Merkel Versailles “è uno dei simboli” della pace. Si potrebbe obiettare che da quella sontuosa residenza uscì un accordo di pace che in realtà si rivelò un semplice armistizio in quella che per gli storici è stata la “guerra dei trent’anni” cominciata nel 1914 e conclusa realmente solo nel 1945, dopo un secondo bagno di sangue che portò al sacrificio di cinquantacinque milioni di persone, ventidue soltanto in Russia. Dunque, se proprio la si si vuole eleggere a simbolo, Versailles è il simbolo della “pace mancata”, di un’Europa che andò in pezzi sotto i colpi del nazismo che trasse consensi proprio da quel trattato tanto punitivo da alimentare nei tedeschi un cumulo di risentimenti sul quale si issò Hitler per trascinare il suo paese e il continente intero in un vortice di crudele follia.
Meglio lasciar perdere i simboli, allora, e attenersi ai fatti. In Francia si sono incontrati Francois Hollande, Angela Merkel, Paolo Gentiloni e Mariano Rajoy “invertire la rotta europea” e “preparare” costruttivamente le celebrazioni che si svolgeranno a Roma il prossimo 25 marzo per i sessant’anni del trattato che diede sostanza al sogno europeo. Ora di quel sogno è rimasto veramente poco. La linea promossa dalla Merkel e che appare accettata anche dagli altri partecipanti al vertice, ne è la conferma: l’integrazione a “velocità variabile”, nella sostanza una resa elegante o, se si preferisce, l’ammissione di un fallimento.
Ma la realtà è che questo vertice francese è in qualche maniera la plastica raffigurazione della crisi della costruzione europea, della sua congenita debolezza. Perché debolissimi sono i leader che si sono seduti a quel tavolo. Angela Merkel deve combattere con Martin Schulz per riconfermarsi alla Cancelleria e quello che sembrava un successo scontato, adesso appare molto meno sicuro. Hollande ormai è un “ex” della politica francese, costretto dal crollo della personale popolarità a rinunciare alla ricandidatura. Rajoy galleggia grazie al buon cuore del Psoe che non si è messo di traverso sulla strada della sua conferma al governo della Spagna. E Gentiloni per quanto volenteroso, non riesce proprio liberarsi dall’abito di presidente del consiglio balneare, a termine, per procura, che anche Matteo Renzi ha provveduto a cucirgli addosso. E, comunque, restano i rappresentanti di un’Europa lontana dai desideri delle persone, al laccio dei poteri finanziari e fa tenerezza Hollande quando afferma che “l’Europa che rinuncia alla sua dimensione politica sarebbe una regressione”. Ha ragione. Peccato, però, che questo sia già accaduto e che lui sia uno dei responsabili.
Ci vorrebbe un’altra Europa per risvegliare l’europeismo sopito ma l’inversione di rotta, una sorta di conversione a “u”, non può certo essere realizzata dai quattro che si sono riuniti a Versailles. L’Unione non è amata perché è distante, perché regala solo sacrifici senza soddisfare i bisogni, perché ha di fatto rottamato le garanzie sociali. Perciò hanno ragione i gesuiti nel momento in cui sulla loro rivista “Argomenti sociali” dicono in un editoriale: “La questione centrale per il futuro della UE è legata alla sua identità come progetto politico e alla sua capacità di essere promotrice di politiche attente alle necessità dei cittadini e al bene comune. Ma per avanzare su entrambi i fronti va superata l’insoddisfacente articolazione oggi esistente fra tre livelli essenziali: le istituzioni europee, quelle nazionali e la società civile”. In fondo, quello che dice Bergoglio che dal mondo dei gesuiti proviene. Il fatto è che in quel vertice di Versailles mancano proprio i due protagonisti principali di questa storia: i cittadini e il bene comune.