-di ANTONIO MAGLIE-
Le gerarchie ecclesiastiche, Cei in testa, sono di nuovo sul piede di guerra a causa dell’assunzione da parte dell’ospedale romano San Camillo di medici abortisti attraverso un concorso che a parere di illustri costituzionalisti viola i principi della nostra Carta avendo escluso la partecipazione di alcuni (i non abortisti). Al di là degli aspetti giuridici (le perplessità non sono infondate, anzi) quel che colpisce è la straordinaria sensibilità di alcuni “servitori dello Stato”, come il ministro Beatrice Lorenzin (peraltro protagonista sul fronte dei diritti di alcune controverse e poco edificanti iniziative) quando in gioco è la libertà (o i precetti) di alcuni dimenticando le libertà di tanti altri. Detto con chiarezza: il ministro sa bene che negli ospedali italiani la legge 194 viene di fatto boicottata con percentuali di obiettori che superano il 90 per cento. La signora ha detto: “Non bisogna esprimere pensieri, ma soltanto rispettare la legge”. Esatto. Ma, allora, perché non si è preoccupata di creare realmente le condizioni per garantire non solo il diritto all’obiezione massicciamente esercitato dai medici, ma anche quello delle donne a usufruire nelle strutture pubbliche della legge 194 nei casi previsti dalla normativa?.
Dato che questa “crociata” periodicamente riparte da oltre quarant’anni (il ministro non era ancora nato), allora proviamo a ristabilire i termini della questione. La legge viene approvata il 22 maggio del 1978. Immediatamente si mobilitano gli ultra-cattolici (una categoria sempre più eterea visto che la messa viene seguita ogni domenica dal 17 per cento appena degli italiani) che attraverso il Movimento per la vita chiedono e ottengono un referendum abrogativo. Contro l’abrogazione nelle urne si dichiarano ventuno milioni 503 mila 323 italiani, il 68 per cento di coloro che si recano alle urne, cioè il 79,43 per cento degli aventi diritto (percentuali bulgare, come si nota, decisamente più ampie dell’ultimo referendum costituzionale).
La legge arriva dopo una lunga battaglia in cui si distinguono radicali e socialisti. Ha un obiettivo: regolare una situazione che esiste da tempo e sulla quale l’ipocrisia italiana preferisce stendere un velo di silenzio (nemmeno tanto pietoso). L’aborto si pratica negli sgabuzzini delle “mammane”, negli studi professionali dei “cucchiai d’oro”, nelle eleganti e ricche cliniche private al riparo da occhi indiscreti spesso (quasi sempre) dagli stessi medici che poi pubblicamente si schierano (chissà perché?) dalla parte degli abrogazionisti. L’obiettivo è quello di tutelare la salute delle donne (molte muoiono di aborto clandestino) e ripristinare un concetto di giustizia sociale evitando che la scelta sia praticata “in sicurezza” solo dalle più ricche e fortunate. La normativa in vigore, poi, è un retaggio dell’Italia fascista che al libro II, titolo X del codice penale del 1930 recita: “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”. Votano in massa per la conferma le donne, cioè le protagonista più dirette. Anche le vittime perché la scelta è drammatica, umanamente, psicologicamente, nessuna la compie a cuor leggero, tutte vi ricorrono perché obbligate. Precisiamo: quell’Italia è un paese in cui l’educazione sessuale non esiste o emette soltanto i primi vagiti (grazie anche all’impegno dei gruppi femministi), in cui le famiglie con la collaborazione dei parroci si guardano bene dal perforare il velo della contraccezione perché anche quella è roba del diavolo.
Insomma, grazie alla legge e al referendum il Paese fa un passo avanti sulla strada dei diritti. Ecco la parola magica. L’ha invocata don Domenico Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. A suo modo, però. Dice: “La decisione di assumere al San Camillo di Roma medici dedicati all’interruzione di gravidanza, impedendo loro dunque l’obiezione di coscienza, snatura l’impianto della legge 194 che non aveva l’obiettivo di indurre all’aborto ma di prevenirlo. Predisporre medici appositamente a questo ruolo è una indicazione chiara”. E no, don Arice: si fa peccato a dire bugie perché sicuramente la legge aveva l’obiettivo di prevenire l’aborto ma aveva anche un altro obiettivo, consentire alle donne, nei casi previsti, di farne ricorso. Il problema, però, è che con obiezioni che superano a volte il 90 per cento di fatto quella legge negli ospedali viene “sabotata”, “svuotata”, “violata” con conseguenze, come la cronaca dovrebbe ricordarle, a volte drammatiche. Caro Don Arice non le sembra strano che in un paese in cui l’80 per cento degli italiani ha votato a favore dell’aborto, le corsie ospedaliere siano poi frequentate a volte dal 90 per cento di obiettori? Qualcosa non quadra. E lei, cara Lorenzin, il senso, le reali motivazioni di questa contraddizione le ha mai cercate seriamente e serenamente?
I diritti sono diritti, non obblighi e un paese civile dovrebbe riconoscerli tutti (compreso lo ius soli). Nessuno è obbligato a diventare omosessuale perché lo Stato riconosce le coppie gay; nessuno è obbligato a divorziare (pratica estremamente diffusa tra molti nostri esponenti politici, “veri” campioni di cattolicità) perché lo Stato con una legge lo permette; nessuno è obbligato a essere cattolico o a versare l’8 per mille alla Chiesa di Don Arice solo perché nella Costituzione sono inseriti i Patti Lateranensi anche perché quell’inserimento è in palese contrasto con altre norme, sempre della Carta, in cui si proclama la libertà religiosa (vedi quel che disse Calamandrei in proposito). Probabilmente è vero: quel concorso non è propriamente rispettoso della Costituzione. Ma ciò non toglie che i diritti vadano contemperati e al momento uno dei due (quello all’obiezione) al contrario di quel che sostiene don Arice con un’evidente forzatura dialettica, è stato tutelato molto più di quello che la legge riconosce alle donne. Sarebbe stato bello se in questa Italia delle corporazioni, una delle più potenti, quella dei medici, con senso di responsabilità si fosse posta il problema e lo avesse risolto attraverso i propri organismi professionali. Anche perché qualcuno potrebbe essere indotto a pensare, sulla base dei numeri prima indicati, che in questo Paese si sia riprodotta la situazione di quaranta e passa anni fa: pubbliche virtù (teologali) e robusti arricchimenti privati.