-di ANTONIO MAGLIE-
L’Italia sovranista in lotta con l’italiano. Un paradosso: si riscopre la dimensione nazionale (anche in polemica con l’Europa) ma non la lingua nazionale. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ad esempio, abbigliati di verde o sventolando tricolori, hanno fatto proprio e tradotto in maniera un po’ più paesana quello che è stato lo slogan dell’attuale presidente americano: da “America First” a “Italy first”. Un tempo avremmo definito questa posizione politica in maniera molto semplice: nazionalista.
Ma Salvini e Meloni vengono da storie diverse: la seconda dalle nostalgie missine, il primo dalle brume padane che hanno avvolto ma non cancellato del tutto i desideri secessionisti. E così ora parlano di scelte “sovraniste”. Termine brutto ma che consente a due personaggi che per cultura e storiche aspirazioni teoricamente non dovrebbero andare totalmente d’accordo (l’una è cresciuta in un contesto in cui il centralismo aveva la meglio sul regionalismo, l’altro, al contrario, è stato svezzato con il latte del federalismo filtrato attraverso le idee più di Gianfranco Miglio che di Carlo Cattaneo). Ma poi l’irresistibile desiderio di alzare muri, la “guerra” ai musulmani, il rifiuto dei migranti di qualsiasi provenienza accusati di invadere le “nostre” terre e di attentare alla purezza dell’italica razza (che come è noto, tutto è meno che pura) e della razza “padana” (la quale è incontaminata nella stessa misura di quella italica), garantisce un collante che, però, ha bisogno di un riferimento meno “compromettente” di quello rappresentato dal “nazionalismo”.
Persino Gianni Alemanno e Francesco Storace che ancor più di Giorgia Meloni sono figli di quei riferimenti “nostalgici” che si identificavano nel vecchio Msi di Giorgio Almirante, preferiscono adottare questo scombiccherato neologismo. Il bello è che anche quel pezzo d’Italia “sovranista” (al pari degli altri pezzi) è popolata da connazionali che quotidianamente litigano con la lingua madre (declassata ormai nella scala familiare al rango di cugina di secondo grado). È il grido di dolore che si leva (al di sopra delle valutazioni o collocazioni politiche perché il problema è generale) dalle università italiane, contenuto in una lettera in cui seicento docenti hanno spiegato come negli atenei italiani approdino giovani virgulti predisposti a commettere errori che un tempo sarebbero stati sottolineati con una certa severità persino in terza elementare.
Si legge nella missiva: “È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. Firmata tra l’altro da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola, svela l’avvilente condizione in cui versa la nostra lingua, peraltro facilmente verificabile quotidianamente: la scomparsa del congiuntivo, il “gli” (“gli dissi”) usato, invariabilmente, anche quando bisognerebbe fare ricorso al “le” (“le dissi”), la difficoltà a orientarsi tra plurale e singolare, a seguire la concecutio temporum, il pericolosissimo “dimagrimento” imposto al vocabolario quotidianamente utilizzato.
Come dicono i “seicento indignados danteschi”, i giovani leggono poco. In compenso scrivono tanto: sms, tweet, commenti sulle pagine Facebook. Tutte pratiche che hanno aggravato una condizione della lingua che appariva già critica una ventina di anni fa quando si parlava di analfabetismo di ritorno provocato da quella televisione che pure, a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, aveva favorito la diffusione di massa dell’italiano in un paese così frastagliato anche dal punto di vista linguistico, da essere portato in ampie realtà sociali a utilizzare come strumento di comunicazione il dialetto locale. Evidentemente camminando a ritroso abbiamo chiuso il cerchio e l’analfabetismo ora è di “partenza”. Conclusione: la nostra sovranità riguarda tutto il territorio nazionale ma non la grammatica, la sintassi e il vocabolario.
il problema linguistico inizialmente risolto con la televisione (che gia` aveva ridotto parte della ricchezza della nostra lingua) sta mostrando un debole cenno di ulteriore appiattimento, forse collegabile ai nuovi media, la valutazione di debole al fenomeno mi deriva da considerazioni demografiche che elimineranno definitivamente il problema nello spazio di una generazione. La lingua italiana rimarra` studiata e parlata da un ristretto gruppo di appassionati, non necessariamente abitanti vicino al Mediterraneo. L’amore per la nostra cultura appare moto vivo in posti inaspettati, anche abbastanza lontani dalla sua origine geografica.