La morte di Guido Rossa segnò la fine del terrorismo

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-di VALENTINA BOMBARDIERI-

È il 24 gennaio 1979. Un uomo alle 6,30 esce dal portone di via Ischia a Genova. Tra le mani, il sacchetto della spazzatura. Si incammina verso il cassonetto in via Fracchia, a metà strada tra la sua auto (una Fiat 850) e il palazzo in cui abita. Tre persone, un commando sei spari. Sul selciato resta Guido Rossa, quarantaquattro anni, operaio e sindacalista della Flm, appassionato scalatore. Pochi dubbi sulla firma, leggibilissima già prima della telefonata di rivendicazione e della “consegna” del solito delirante volantino: Brigate Rosse. Una drammatica contraddizione storica. Era il 1979, erano gli anni di piombo. Ed era il momento in cui attraverso uno strano gioco di specchi la realtà si svelava nella sua compiutezza facendo piazza pulita di malate illusioni: un’organizzazione terroristica con un “album di famiglia” che faceva riferimento alla sinistra, che inneggiava alla rivolta del proletariato, uccideva un operaio, un comunista, un sindacalista.

Lo ha spiegato in una trasmissione televisiva lo storico Giovanni De Luna ponendosi una domanda: qual era il senso. Rispondeva: “Erano nate (le Brigate Rosse, n.d.r.) per difendere gli operai e ora uccidevano un operaio che in quanto sindacalista difendeva i diritti dei suoi colleghi. Il senso, allora, era la progressiva disumanizzazione, un capovolgimento delle iniziali intenzioni che alla fine si definiscono solo ed esclusivamente all’interno di quella che possiamo definire una terrificante pedagogia mortuaria: ammazzano per lanciare messaggi. Prima ammazzano i simboli, i carabinieri, i magistrati, i giornalisti, poi i terroristi pentiti, dopo ancora i familiari dei terroristi pentiti. Alla fine non c’era altra motivazione che la morte per la morte. E quell’eccesso di corteggiamento della morte determinò la fine delle Br e la ripulsa che il Paese espresse nei loro confronti”.

Rossa era un uomo coraggioso ucciso perché impegnato, coerentemente, a denunciare l’azione di propaganda (e quindi di arruolamento) svolta dalle Brigate Rosse attraverso un compagno di lavoro nella fabbrica in cui lui era anche rappresentante sindacale, l’Italsider. Lo avevano eletto quasi all’unanimità nove anni prima, nel 1970. Lo stimavano perché persona integerrima. Una integrità morale che pagò con la vita. La vicenda cominciò proprio con la denuncia di Francesco Berardi, “il postino” delle Brigate Rosse, uno di quei “pesci nell’acqua” a cui i terroristi in clandestinità si affidavano per portare all’esterno i propri “materiali ideologici”. Si avvertiva all’interno tanto dell’Italsider quanto dell’Ansaldo la presenza, inquietante e sotterranea, di “fiancheggiatori”. Berardi era uno di questi.

Rossa cominciò a tenerlo sotto controllo: si era reso conto che il collega “abbandonava” in luoghi molto frequentati della fabbrica i volantini di propaganda con la famosa “stella a cinque punte”. Lo seguì con attenzione notando che le tasche del tuta del compagno di lavoro (era impiegato all’altoforno) erano sempre troppo gonfie e che al suo passaggio i volantini brigatisti spuntavano come funghi dopo un acquazzone. Decise di bloccarlo e di chiamare i carabinieri.

Erano anni complicati per il sindacato e in particolare per la Flm. I leader dell’organizzazione sottovalutarono inizialmente il problema escludendo che quella propaganda potesse incontrare consensi all’interno della fabbrica. Ma pian piano cominciarono a prendere atto che quello del lavoro non era un “mondo a parte”, che il terrorismo aveva anche lì una sua base, per quanto limitata, di consensi e coperture. Capirono che solo una battaglia condotta sul terreno proprio delle rappresentanze sociali poteva togliere, come si diceva, “l’acqua ai pesci del terrorismo”. Non a caso, in quegli stessi anni il dirigente comunista Giorgio Amendola scrisse un articolo su “Rinascita” estremamente critico nei confronti del sindacato accusato di aver mostrato una certa tolleranza nei confronti di pratiche e comportamenti all’interno della Fiat di stampo “squadristico”.

Ai delegati, ai consigli di fabbrica i vertici di Cgil, Cisl e Uil chiesero di vigilare e di denunciare. Esattamente quello che fece Guido Rossa. La perquisizione dell’armadietto di Berardi confermò i sospetti: accatastati in un angolo vennero trovati i volantini con i quali le Br rivendicavano gli attentati. L’operaio-fiancheggiatore venne arrestato, processato per direttissima (si dichiarò prigioniero politico) e condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione per partecipazione a banda armata, associazione sovversiva e pubblica istigazione. Guido Rossa fu l’unico che ebbe il coraggio di testimoniare. E con quella scelta firmò la sua condanna a morte. La sua vita cambiò: divenne un “bersaglio”. Prima le minacce poi l’agguato il 24 gennaio 1979, poco lontano da casa, in via Fracchia, a Oregina, quartiere di Genova. Sei colpi di pistola sparati dal commando composto da Riccardo Dura (un anno dopo sarà ammazzato nel corso di un’irruzione dell’antiterrorismo nel covo proprio di via Fracchia), Vincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi che lo aspettavano a bordo di un furgone Fiat 238 parcheggiato appena dietro l’auto dell’operaio. Carpi faceva il “palo”, Guagliardo lo colpì alle gambe; Dura, invece, dopo aver fatto finta di andare via, tornò sui sui passi e colpì mortalmente al cuore l’operaio-sindacalista. Poche ore dopo la telefonata di rivendicazione al Secolo XIX: “Abbiamo ucciso noi la spia dell’Italsider”. Nel volantino, in pieno delirio, spiegarono: “Compagni, da quando la guerriglia ha cominciato a radicarsi dentro la fabbrica, la direzione Italsider con la preziosa collaborazione dei berlingueriani (Rossa era iscritto al Pci e alla Cgil, n.d.r.), si è posta il problema di ricostruire una rete di spionaggio utilizzando insieme delatori vecchi e nuovi; da un lato ha riqualificato fascisti e democristiani, dall’altro ha moltiplicato le assunzioni di ex PS ed ex CC, dall’altro ancora ha cominciato a utilizzare quei berlingueriani che sono disponibili a concretizzare la loro linea controrivoluzionaria sino alle estreme conseguenze: sino al punto cioè di tradire la propria classe, mandando in galera a cuor leggero un proprio compagno di lavoro”.

Sabina Rossa, la figlia di Guido che all’epoca dell’omicidio aveva sedici anni, nel libro ‘Guido Rossa mio padre’ scritto con Giovanni Fasanella, afferma che “C’erano due livelli nelle Br, e il più alto e segreto, ha ordinato a Dura di uccidere, all’insaputa degli altri”. E questo potrebbe spiegare la dinamica dell’agguato. Sempre nel libro ha rivelato: “Mio padre faceva parte del nucleo del Pci che doveva sorvegliare che cosa accadeva in fabbrica. Forse sapeva molte più cose di quanto immaginiamo, così l’hanno ammazzato.”

Al funerale di Rossa parteciparono 250.000 persone. Dopo la cerimonia, l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini disse: «Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!».

Quell’assassinio, come ha sottolineato De Luna, aveva una funzione perversamente pedagogica, ben sintetizzata nel trucido slogan “colpirne uno per educarne cento”. Si voleva, con il terrore, evitare che altri potessero seguire la strada di Rossa; si voleva creare terra bruciata intorno al sindacato, separarlo dalla sua “base”. Altre vittime innocenti avrebbero pianto le organizzazioni dei lavoratori (ad esempio, l’economista Ezio Tarantelli, anche lui comunista, consulente della Cisl e grande amico di Pierre Carniti), ma quell’agguato mortale in via Fracchia ebbe esattamente l’effetto opposto rispetto a quello che i terroristi speravano di suscitare perché quei sei colpi non separarono i lavoratori dal sindacato ma convinsero anche quei pochi in qualche misura sensibili alle lusinghe propagandistiche dei terroristi che quella era una strada senza sbocco e senza ritorno. L’omicidio di Guido Rossa, forse più ancora dell’uccisione di Moro e della sua scorta, segnarono per le Br l’inizio della fine perché emerse con chiarezza la follia di un messaggio che induceva chi dichiarava di usare la violenza in nome del popolo, a sparare contro un “figlio del popolo”.

Valentina Bombardieri

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