Ma il Jobs Act va migliorato per via contrattale

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-di ENZO MATTINA-

Siamo in un passaggio della storia in cui, a torto o a ragione, si è consolidata la convinzione che ci si trovi disarmati e inadeguati al cospetto degli effetti dei cambiamenti epocali che in atto da qualche decennio, quali la totale liberalizzazione degli scambi di beni e servizi, la finanziarizzazione dell’economia, la pervasione delle tecnologie digitali, lo sconquasso ecologico, aggiuntivo a quello già in atto, conseguente all’industrializzazione intensiva di continenti con miliardi di abitanti, le migrazioni ultrabibliche dai Paesi poveri verso quelli classificati come ricchi, il risveglio dei conflitti religiosi e identitari.

Che tutti questi fenomeni abbiano una complessità e che, come tali, non siano facilmente gestibili, è fuori discussione, ma non c’è dubbio che da parte delle élites ci sia stata una forte dose di superficialità nel precederli e prevenirli, ignorando gli allarmi di tanti studiosi, prima tra tutti, nel lontano 1999, la allora giovane Naomi Klein con la pubblicazione del best seller NO LOGO.

Tanta debolezza di visione dei governanti avvicendatisi alla guida dei Paesi dell’Occidente industrializzato è all’origine della disintegrazione dei soggetti storici di rappresentanza collettiva (partiti, sindacati, associazioni d’imprese) e del successo di leaders e movimenti a orientamento populista, a cominciare da Donald Trump negli Stati Uniti, per finire a chissà quali uomini o donne partoribili dalle urne delle prossime tornate elettorali in calendario nei maggiori Paesi europei.

In questo contesto, la riduzione quantitativa delle opportunità di lavoro nei settori tradizionali, quali la manifattura e il pubblico impiego, i mutamenti nei contenuti delle prestazioni, le destrutturazioni organizzative, le delocalizzazioni di produzioni e servizi, il ridimensionamento e addirittura la scomparsa di interi comparti produttivi, la progressiva chiusura delle attività commerciali diffuse a vantaggio delle concentrazioni distributive, oggi ancora con una consistenza fisica, ma evolventi verso assetti virtuali, il ridimensionamento dei sistemi pubblici di welfare, l’indebolimento degli apparati di sicurezza, fenomeni riconducibili alla mescolanza dei mutamenti citati innanzi, cui si reagisce, esorcizzando il disagio sociale indotto, ai nemici più individuabili e a portata di mano: le frontiere aperte, le migrazioni, l’ingordigia e la corruzione delle élites politiche. E si consolida la propensione, a dir vero illusoria, che un uomo, una donna o un movimento possano sortire da un’indistinta società civile (un tempo si definivano masse) e riportare indietro le lancette della storia. Non è forse questa la promessa di chi vuole reinsediare gendarmi, riposizionare barriere doganali, costruire muri alle frontiere dei Paesi, resuscitare dazi alle importazioni delle merci, ripristinare 19 monete nazionali e chi più ne ha più ne metta?

Questo salto all’indietro dovrebbe creare nel nostro bel Paese le condizioni per moltiplicare i posti di lavoro, per distribuire redditi di cittadinanza (forma di assistenzialismo tutt’altro che esemplari di derivazione brasiliana e venezuelana), per abbassare l’età dei pensionamenti, per rendere tutti più sereni e fiduciosi nell’avvenire.

Non scherziamo! Agli errori si reagisce con le correzioni non certo con l’avventurismo e le balle.

Più seriamente, invece, dobbiamo riaprire il capitolo non proprio nuovo di uno sviluppo programmato, facendo leva su un rilancio degli investimenti pubblici e privati.

Quelli privati possono essere sostenuti o da finanziamenti a fondo perduto o da politiche fiscali vantaggiose. La prima fattispecie è stata praticata in abbondanza nei decenni che abbiamo alle spalle e, pur avendo dato luogo a ottime e durature esperienze, ne ha accumulato molte di più catalogabili nel novero degli sperperi e delle ruberie. Ha un senso lasciarla in vita solo in presenza di programmi credibili di ricerca applicata.

La leva fiscale, invece, è quella giusta per il livello di responsabilizzazione che impone ai beneficiari. Non può essere, però, usata per tempi limitati, come ripetutamente è accaduto, e senza verifiche severe sugli effetti conseguenti; ciò significa che deve essere strutturata e permanente sul modello di quanto già praticato in forma sistematica e con successo in Olanda e Irlanda e, limitatamente alle start up, anche in Gran Bretagna.

Che la leva fiscale e/o contributiva sia ricorrentemente evocata e sia stata anche parzialmente utilizzata da parte di vari Governi è un dato di fatto; oggi s’imporrebbe di fare molto di più e l’ostacolo non sarebbe tanto nei vincoli imposti a livello europeo, quanto nel rischio che i provvedimenti legislativi necessari s’impantanino nelle ben note e nefaste contrapposizioni parlamentari, tenendo in non cale che una parte della competizione intra ed extra europea si gioca anche sulle differenziazioni dei carichi fiscali, tant’è che molte grandi aziende italiane hanno localizzato i loro head quarter in Olanda e Irlanda e le stesse start up italiane propendono a nascere e a crescere in Gran Bretagna, almeno fino quando la Brexit non chiuderà i confini; per non parlare di alcune delocalizzazioni produttive e di servizi (pensiamo a quanto accade nei call center, dove la filosofia dei ribassi continui dei prezzi praticata dai committenti è all’origine in successione dei tagli dei salari e dei posti di lavoro e, alla fine, dei trasferimenti all’estero).

Sugli investimenti pubblici il discorso è diverso. Da un lato, ci sono le emergenze, quali quelle della ricostruzione delle zone terremotate, che non possono essere differite, da un altro, occorrerebbe avere il coraggio di guardare oltre e di destinare le risorse già oggi disponibili a progetti innovativi che coinvolgano più di un settore, non solo la pur necessaria edilizia e archivino almeno per ora opere faraoniche, quale il ponte sullo stretto di Messina, di scarsa utilità economica e di opinabile sostenibilità geologica.

Nel pacchetto di misure varato dal Governo prima di ferragosto vi sono ben 8,9 miliardi di euro per il contratto di programma delle ferrovie (Rfi), 1,5 per le metropolitane, 300 milioni per la sicurezza delle ferrovie regionali interconnesse, 1,4 miliardi per il materiale rotabile; l’area che ne beneficerà sarà in prevalenza il Mezzogiorno.

Nei commenti governativi si è parlato del valore strategico di questo eccezionale flusso di investimenti; nondimeno, non si è specificato il senso dell’aggettivo strategico, perché lo si può interpretare mettendo in luce solo l’apporto alla risoluzione di varie criticità territoriali, il che non è cosa di poco conto, o ispirandosi alla filosofia dell’Industry 4.0, che le affronta ugualmente, ma inserendole in un disegno di più ampio respiro, che faccia perno sull’innesto del digitale nei beni strumentali, nei prodotti, nei servizi e nelle infrastrutture e sulla conseguente accelerazione in termini di innovazione tecnologica, tutela dell’ambiente, sicurezza nell’utilizzo, sviluppo organizzativo e, in primis, professionale. Il tutto in una prospettiva marcatamente glocal, talché ciò che si fa in luogo contenga sempre in sé i requisiti per la diffusione e riproduzione a livello globale.

Orbene, riprendendo alcune considerazioni svolte sul n. 1-2 del 2015 della rivista della Fondazione, proprio il comparto dei trasporti ferroviari si presta a un’applicazione intensiva della filosofia dell’Industry 4.0, perché da quando è nato, più o meno 150 anni fa, ha subito miglioramenti significativi (tra una locomotiva a carbone e una elettrificata ad alta velocità c’è una differenza abissale), ma la concezione del treno è rimasta sostanzialmente inalterata; altri mezzi di trasporto, quali aerei (uno per tutti il 787 Dreamliner della Boeing), automobili (le Tesla circolano anche in Italia), finanche navi e biciclette, sono diventati ben diversi in termini di concezione da quelli degli albori e c’è uno sforzo continuo di ricerca per arricchirli di ulteriori innovazioni.

Treni nuovi, con un DNA modificato, vale a dire a levitazione magnetica (una tecnologia più prossima a quella aeronautica che ferroviaria), sono stati sperimentati in Germania e in Giappone, ma ben poco industrializzati. Si dà il caso, però, che in Italia il progetto del treno reinventato, appunto a levitazione magnetica e identificato con la sigla UAQ4, è pronto da anni ad opera di due professori di ingegneria, Giovanni Lanzara e Gino D’Ovidio, il primo, oggi emerito, iniziò l’avventura nella lontana gioventù a Palermo e non si è mai fermato nel suo impegno di studio e di sperimentazione, il secondo ha apportato un fondamentale valore aggiunto nella collaborazione ventennale con il suo maestro presso l’Università dell’Aquila.

Forse sarebbe il momento giusto di osare, partendo dal nostro Mezzogiorno, dove rete e materiale rotabile sono o inesistenti o terribilmente obsoleti, e in considerazione della presenza sul territorio di ben due importanti realtà produttive, una ferroviaria, l’altra aeronautica, che potrebbero cimentarsi nell’industrializzazione del progetto. A Napoli, a Reggio Calabria, a Matera vi sono gli stabilimenti ex Ansaldo, che hanno una solida storia nel settore ferroviario. Sempre nel Mezzogiorno, a Taranto, a Foggia e a Pomigliano d’Arco, vi è un’esperienza consolidata nella produzione di componenti aeronautiche in fibra di carbonio, nuovo materiale caratterizzato da grande leggerezza quanto da straordinaria resistenza. E non è affatto da trascurare la fitta rete di aziende dell’indotto aeronautico presenti in Campania come in Puglia, che potrebbero essere coinvolte, recuperando spazi produttivi, sviluppo tecnologico e redditività.

E’ di tutta evidenza che un progetto di reinvenzione dei trasporti ferroviari non può essere realizzato in regime di autarchia. Tutt’altro; quello che conta è che siano nel Mezzogiorno il nocciolo duro dell’ideazione e della ricerca, il network portante delle aziende produttive, lasciando aperte le porte a tutte le collaborazioni possibili e a qualunque latitudine con ricercatori, investitori e utilizzatori finali.

In definitiva, ci sarebbero tutte le condizioni per fare del Mezzogiorno il volano di un cambiamento epocale, tenendo presente che il treno a levitazione magnetica può ridurre, sulle lunghe distanze, esponenzialmente i tempi di percorrenza rispetto ai treni tradizionali, mentre, sulle linee delle metropolitane, può correre a pochi metri di profondità per via della mancanza di vibrazioni; il tutto con consistenti risparmi energetici ed elevata sicurezza degli apparati mobili e fissi.

Un intervento del genere utilizzerebbe poco più di 1/3 delle risorse rivenienti dalla programmazione comunitaria 2014/2020, pari a ben 20 miliardi di Euro, cui si aggiungono altri 20 miliardi di derivazione nazionale; una massa di risorse enorme, che, se spesa adottando i medesimi criteri innovativi sopra descritti, dovrebbe, oltre che far fronte a esigenze infrastrutturali interregionali in altre aree del Paese e in altri comparti, concentrarsi una buona volta su un grande investimento di valorizzazione economica del nostro patrimonio artistico e ambientale. Se ciò che sta accadendo, in termini di crescita dei visitatori, agli Uffizi di Firenze, alla Reggia di Caserta, a Pompei e a Paestum si estendesse a tutta l’Italia davvero il nostro patrimonio culturale e naturalistico potrebbe diventare una fonte di ricchezza per l’intero Paese e i giovani più penalizzati sul mercato del lavoro, quelli che si dedicano agli studi umanistici, potrebbero trovare innumerevoli opportunità di lavoro.

Una programmazione rinnovata è il presupposto per creare il lavoro che manca e che è fonte primaria di disagio sociale; la regolamentazione del lavoro concorre al risultato, ma non lo determina di per sé.

Che si dovesse intervenire anche su di essa è fuori discussione, ma 7/8 riforme del lavoro, appesantite da un numero incalcolabile di norme di attuazione e interpretazione, in 17 anni (dalla legge Treu a quella Poletti) sono tante, se non troppe; e tremano i polsi al pensiero che per via referendaria se ne possano rimettere in discussione pezzi più o meno significativi.

L’aspetto più paradossale del modo di affrontare le tematiche del lavoro nel nostro Paese è che si parla pochissimo di progetti e azioni per creare posti di lavoro, mentre sia i governanti di turno sia i loro oppositori di varia estrazione concentrano tutte le loro attenzioni sulle regole.

In forza di questa linea di tendenza, oggi sotto i riflettori vi è quel complesso di regole, alcune nuove, altre vecchie riadattate, che porta il nome di Jobs Act, e l’interesse va concentrandosi sui referendum promossi dalla CGIL che ne ipotizzano l’abrogazione di alcune, quelle relative alla minore estensione dell’art. 18 della legge 300/70, ai buoni lavoro (voucher), alla responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore.

Quale che sia il responso della Corte costituzionale sulla loro ammissibilità, è forte il dubbio sull’opportunità di far ricorso allo strumento referendario per l’abrogazione di norme che hanno poco più di un anno di vita e i cui effetti andrebbero monitorati con ben maggiore attenzione di quanto non si stia facendo.

Senza entrare nel merito dei singoli quesiti, è opportuno svolgere qualche considerazione su due di essi. Partendo dal Dlgs n. 23 del 2015, fonti pubbliche hanno informato che, dopo la sua entrata in vigore, si sarebbe registrata un’impennata dei licenziamenti individuali. I dati quantitativi aggregati vanno, però, esaminati in dettaglio per verificare cosa ci sia dietro i numeri, tra licenziamenti disciplinari riconosciuti come fondati in sede giudiziaria, licenziamenti considerati dal giudice come non sostenuti da giustificato motivo oggettivo o soggettivo o da giusta causa e compensati con un risarcimento, accordi in sede di conciliazione che molte volte nascono da dimissioni volontarie, trasformate in licenziamenti per scelta del lavoratore di portare a casa una liquidazione più consistente e fruire di un periodo di sostegno pubblico.

Anche la vicenda voucher non può essere liquidata solo con l’esibizione di un dato aggregato puramente quantitativo, calcolato dall’INPS in 69,9 milioni nel primo semestre del 2016, il 40% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. La stessa INPS poi identifica la platea dei prestatori e attesta che per il 29% sono stati lavoratori già occupati, per il 23% disoccupati, per il 18% percettori di ammortizzatori sociali, per il 14% inoccupati, per l’8% pensionati e per l’8% operai agricoli. Specifica, infine, che dal 2008, anno d’introduzione dei buoni lavoro, ogni lavoratore interessato ne ha messo all’incasso mediamente 60 in un anno per un valore pari a € 450 (60 x 7,50) e un costo per il datore di lavoro di € 600.

Sulla base di questi dati, sostenere che i buoni lavoro sostituiscano rapporti di lavoro a tempo indeterminato o anche flessibili strutturati contrattualmente e legalmente sembra abbastanza azzardato. Risulta, invece, chiaro che le quote riferibili ai lavoratori già occupati (29%), ai percettori di ammortizzatori sociali (18%), agli operai agricoli (8%) meriterebbero un’attenzione particolare, perché potrebbero nascondere più di una violazione di norme di legge e di contratti.

Vien da chiedersi se l’INPS non possa, con un’attenta consultazione neanche tanto complessa delle sue consistenti banche dati, verificare il livello di concentrazione in testa a taluni datori di lavoro, i rapporti in atto o pregressi intercorsi tra loro e i lavoratori remunerati con i buoni lavoro, il numero reale dei buoni riscossi dagli stessi. In breve, è indispensabile combattere l’uso distorto del lavoro accessorio, ma non sembra saggio cancellarlo d’amblée con il rischio di dare ossigeno al lavoro nero. E’ singolare che si parli così poco di un fenomeno esorbitante (100 mld di Euro per il 6,5% di PIL nazionale e per 3 milioni di lavoratori coinvolti) e che, quando lo si fa, gli unici antidoti vengano individuati nell’intensificazione dei controlli e nel rafforzamento delle sanzioni, indiscutibilmente necessari, ma di limitata efficacia, se non accompagnati da soluzioni, qual’è appunto quella dei voucher, che consentano di dare visibilità e legalità anche ad attività lavorative occasionali e/o a contenuto professionale generico. Non è un caso che in Germania, Paese che ha un sistema regolatorio del lavoro non dissimile dal nostro, siano stati introdotti dal 1977 e interessino una platea di oltre 3 milioni di persone, ben più consistente di quella italiana, che coinvolge tra le 50 e le 60.000 unità.

In buona sostanza, la produzione legislativa del Governo Renzi può e deve essere messa sotto monitoraggio costante, può e deve essere corretta, ove necessario, e ciò si sta già facendo con le recenti misure adottate in ordine alla tracciabilità dei buoni lavoro, ma non può essere liquidata in nome di un’avversione politica/ideologica.

Fermo restando che il nodo fondamentale era e resta quello di programmare una nuova fase dello sviluppo economico, che utilizzi in termini innovativi e veloci le risorse economiche disponibili e si traduca nella creazione di un numero crescente di opportunità di lavoro, è necessario concentrare l’attenzione su come cambia il contenuto del lavoro e su come governare le ormai fisiologiche erraticità temporali delle quantità di lavoro disponibile.

Il senso del Jobs Act ha queste finalità e agisce su più piani in funzione dell’ispirazione di seguire ogni individuo nella costruzione del suo percorso di lavoro, intervenendo già nella fase della scolarizzazione superiore, mettendo a disposizione strumenti di orientamento e di prima familiarizzazione con il lavoro, ampliando le sedi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, valorizzando la formazione continua, introducendo un sistema di sostegno economico universale nelle fasi pressoché inevitabili di discontinuità lavorativa, responsabilizzando i singoli e non solo le aziende e le strutture pubbliche.

Certo, non si può dire che sia un sistema di regole perfetto e concluso o che non debba essere sottoposto a verifiche e revisioni anche profonde, ma credo che tutto debba essere fatto con raziocinio, sulla base di analisi adeguate e confronti mirati e costruttivi, evitando ridondanza di leggi a vantaggio di interventi contrattuali nazionali e ancor più decentrati.

Da questo punto di vista, merita grande apprezzamento il contratto concluso in dicembre tra Federmeccanica e i sindacati dei metalmeccanici FIM, FIOM, UILM. Un contratto così innovativo non si vedeva dagli inizi del 1970. Per la prima volta il CCNL della categoria più importante del settore manifatturiero affronta le tematiche dei mutamenti tecnologici e organizzativi ed esce da una logica puramente conservativa per misurarsi con l’industry 4.0, scommettendo sulla formazione continua, su un insieme di strumenti e di materie di confronto sistematico che configurano il passaggio dal sindacalismo conflittuale a quello partecipativo, rimettendo in discussione il sistema degli inquadramenti professionali vecchio di 60 anni, introducendo anche nelle retribuzioni una buona dose di dinamica e di flessibilità.

Siamo al cospetto di una svolta culturale che supera un lungo periodo di divisioni interne e apre un nuovo orizzonte nelle relazioni sindacali. Non si può tacere il dato di fatto che vi siano in essa segni incontrovertibili di assonanza con la strategia di politica attiva del lavoro disegnata nei provvedimenti più innovativi del Jobs Act. C’è solo da sperare che possa trovare alimento e amplificazione anche nelle politiche pubbliche del lavoro e che non debba ridursi nelle ambizioni e nelle aspettative per gli impedimenti del federalismo localistico, in forza del quale da anni la formazione, invece di essere uno strumento di crescita delle competenze, è scaduta a canale di distribuzione di Mld di Euro nei mille rivoli del clientelismo localistico.

In conclusione, ci sono le risorse e gli strumenti per ridare un orizzonte ravvicinato alle necessità di maggior lavoro e di miglior lavoro; c’è da augurarsi che l’Italia sappia trovare la coesione giusta per non sprecare le opportunità.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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