-di MASSIMILIANO AMATO-
Di tutti i leader della sinistra italiana, da Turati ai giorni nostri, Pietro Nenni è stato con ogni probabilità l’unico a cui sia riuscito non solo e non tanto di incidere nel vissuto politico quotidiano di milioni di militanti, ma di penetrare significativamente nel loro immaginario individuale e collettivo, nella loro visione del mondo e della vita. Al punto di creare un’antropologia specifica, un “unicum” nella storia del socialismo europeo che tuttora attraversa i sentimenti di ciò che resta di quel popolo disperso. Diversa antropologia, si diceva. Almeno su questo terreno, Togliatti, l’algido Togliatti, il cerebrale Togliatti, il sussiegoso intellettuale che dava del “lei” ai compagni, ha perso la partita con il vecchio Pietro. E forse giusto l’ultimo Enrico Berlinguer avrebbe potuto reggere il confronto. Ma quando il berlinguerismo si affermò come nuova categoria dello spirito a sinistra, Nenni già non c’era più, e problematica andava rivelandosi la gestione della sua ingombrante eredità.
L’identificazione tra il socialismo italiano e Nenni è stata, dunque, totale, nonostante il Psi sia stato a lungo il paradigma negativo di cosa dovrebbe essere un partito: perennemente lacerato al proprio interno, vittima di numerose scissioni, a partire da quella di Giuseppe Saragat del ’47, l’unica (non quella del ’21, quindi, che diede inizio ad altra e diversa storia, e nemmeno quella dei carristi del Psiup nel ‘64) della quale Nenni si sia doluto per tutta la vita, fin sul letto di morte. La mancata unità dei socialisti per “sottrarre ai comunisti l’egemonia sulle classi lavoratrici”: un cruccio che attraversa buona parte dell’ultima fase della sua esistenza, raccontata nei Diari che vanno dal 1973 al 1979 e che, curati da Paolo Franchi, storico notista politico del Corriere della Sera, e dalla nipote di Nenni, Maria Vittoria Tomassi, Marsilio ha mandato in libreria da qualche mese.
Pietro guardava lontano, aveva riferimenti europei, sapeva che l’unità dei socialisti nel campo del riformismo era l’unica chiave di sblocco dell’anomalia italiana, costruita sulla prevalenza, culturale ed elettorale, di due forze potenzialmente anti-sistema. E però il suo boulot del militante restava quello del ragazzo che aveva partecipato alla Settimana Rossa, quando aveva deciso irrevocabilmente di schierarsi dalla parte di quelli che, “nati indietro”, andavano “portati avanti”: un “militante della classe operaia e del movimento socialista”. Di qui il titolo del volume, che sintetizza una biografia politica, umana e sentimentale complessa e affascinante: “Socialista, libertario, giacobino”, dove gli ultimi due termini – tendenzialmente antitetici – mettono a fuoco la cifra saliente della diversa antropologia di cui si parlava prima. Libertario perché nel socialismo nenniano la libertà è sempre, inossidabilmente, “in re ipsa”, non essendoci dicotomia tra “liberi di” e “liberi da”; giacobino perché mai, nemmeno per un minuto della sua vita, egli congeda i giovanili furori radicali. I diari che ricostruiscono gli ultimi sette anni della sua vita, che colmano una lacuna storica, attraversano un tempo che sembra dilatato, in cui la Storia, italiana, europea e mondiale, si frantuma.
Davanti agli occhi del vecchio patriarca, che nel ’71 è stato a un passo dal Quirinale, riportando una bruciante delusione per il voltafaccia di Saragat e Ugo La Malfa, passano lo choc petrolifero e la crisi economica che mette drasticamente fine al ventennio del benessere italiano, il golpe di Santiago del Cile e il referendum sul divorzio (ultima battaglia condotta in prima persona e vinta), gli anni di piombo e le stragi fasciste, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, il declino, elettorale e culturale dei socialisti e l’avvento alla segreteria di un vecchio pupillo, Bettino Craxi. I giudizi sono puntuti, con sintesi giornalistica Nenni annota, racconta, puntualizza. Ma, soprattutto, milita. Non smetterà mai, tanto forte rimarrà il rapporto empatico che lo legherà al suo popolo fino alla fine. E anche oltre.