Ma ora Trump come userà il suo potere?

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  – di LUIGI TROIANI –

In occasione dei tragici eventi dell’estate del 1953, quando a Berlino est e in altre città dell’allora Rdt si scatenò la brutale repressione sovietica contro i moti operai, il drammaturgo Bertolt Brecht ebbe a dire, con sarcasmo: “Quando il popolo sbaglia occorre eleggerne un altro”. E’ quello che molti di noi vorrebbero fare, al termine dell’estenuante notte del voto statunitense. Peccato che il paradosso brechtiano sia non solo irrealizzabile, ma descriva un tabù, perché il popolo non lo si elegge e non lo si sostituisce, anzi in democrazia è esso popolo che elegge e sostituisce. Questo popolo americano ha eletto Trump e soprattutto “sostituito” Obama, perché la prima evidenza del voto di stanotte è che si è trattato del giudizio negativo su una presidenza, quella del primo colorato, che ha deluso un po’ tutti e che lascia un’America meno potente nel mondo, più povera, indebitata e ingiusta all’interno. Obama e consorte hanno fatto una campagna pesante e anomala in favore di Clinton, pur non amandola, perché preoccupati che la loro legacy finisse alle ortiche. A bilancio non si è rivelata una buona scelta.

La domanda legittima è perché i sondaggisti abbiano sbagliato. Rispondo con un altro paradosso. Ho letto il libro di Nassim N. Taleb “Il cigno nero”, grazie alla segnalazione dell’amico Nicola Piepoli, sondaggista affermato che nel consigliarmelo, mi offrì prova del suo proverbiale understatement autocritico visto che stavamo commentando suoi sondaggi elettorali sbagliati. Taleb parte dalla constatazione che, nonostante tutti ritengano i cigni immacolatamente bianchi, succeda, ad esempio in Australia, che ci si trovi d’improvviso davanti a cigni neri quanto il carbone. La tesi è che dobbiamo sempre attenderci eventi che invalidino le nostre convenzioni, e quindi che contro ogni sondaggio, ci venga ammannito dall’esperienza il piattino dell’evento singolo, alias il cigno nero. Trump è il cigno nero della storia americana di questi anni, come Brexit lo è stato nella storia europea recente. Non sempre i dati di cui disponiamo ci avvertono correttamente sul futuro e su come controllarne i rischi, perché nella storia ci sono le interruzioni, le rotture, i salti. E c’è spesso un popolo che non conosciamo, perché così camuffato e indistinto, ma anche distante e ignorato, da non poter essere davvero conosciuto. E’ vero che Clinton aveva battuto Trump nei dibattiti televisivi, che era (è) immensamente più brava, che sarebbe stata più utile al suo paese dell’impresentabile Trump. Ma è sicuramente vero che l’essere ritenuta traffichina e spocchiosa, e l’aver risvegliato l’immensa misoginia americana non le ha giovato E’ anche probabilmente vero che la pugnalata della settimana scorsa da parte di Fbi sulla riapertura di emailgate, con la successiva troppo immediata chiusura dell’indagine sulla valanga di e-mail che avrebbe richiesto mesi non poche ore per essere esaminata, l’hanno stradanneggiata proprio sul filo di lana, alterando il suo consolidato vantaggio. Però, si poteva davvero pretendere dalla pancia dell’America bianca tuttora razzista e dedita a vecchi valori da prateria (si pensi a un Clint Eastwood e a quello che rappresenta nei miti americani), che inanellasse quattro, forse otto anni di presidenza al femminile dopo otto anni di presidenza nera? So, what? Keynes direbbe : “Quando i fatti cambiano, cambio idea. Lei che fa, signore?”.

Proviamo, a questo punto, a chiederci se il nuovo presidente sarà davvero in grado di fare tutti i danni che ha promesso in campagna elettorale. Confortano le parole di Joseph Nye, politologo eccelso ed ex coordinatore del National Intelligence Council, nell’intervista dello scorso aprile a Maurizio Caprara. Alla domanda su quale tipo di mondo avremmo con Trump presidente, Nye rispose con una domanda solo apparentemente retorica: “A quel punto la domanda diventerebbe: quanto velocemente imparerebbe che le sue proposte avanzate in campagna elettorale sono impossibili e pericolose?”. Caprara si informò sul tempo di attesa. La risposta: “La notizia brutta è che Trump dice cose molto stupide. La notizia buona è che non è uno stupido. Alle volte cambia idea”. L’intervistatore cercò dettagli e Nye: “Talvolta cambia idea dieci minuti dopo aver parlato. È un pragmatico. Se fosse presidente capirebbe che gli obiettivi indicati nella sua campagna elettorale sono irrealizzabili, come quelli di costruire un muro verso il Messico e tassare del 45% i prodotti cinesi. Se provasse ad applicare questa idea si accorgerebbe che i cinesi reagirebbero alzando le tasse sulle merci americane, con danni per l’economia statunitense. In ogni caso spero che non dovremo sperimentare questa eventualità”.

Sembra di capire che, un po’ come capitò con Reagan, molto dipenderà da chi il presidente eletto si metterà vicino, ad iniziare da chi farà la politica economica e di sicurezza, i dossier più importanti per noi europei. Già qui cominciano dolenti note per il mandato del nuovo inquilino della Casa Bianca. Chi accetterà di star vicino e assistere un uomo che resta mina vagante nell’establishment politico, visto che, in campagna elettorale, ha ricevuto ostracismo anche dai repubblicani? Si dirà che di Reagan non si scrissero cose diverse al momento dell’elezione. Errore. Ron era uomo di partito e non aveva nell’armadio gli scheletri che ha Trump. Con i suoi limiti, aveva un minimo di esperienza politica, era persona amabile e di grande buon senso. Per questo seppe circondarsi anche di uomini in gamba, fece stare al loro posto i sovietici e generò una reagomics, giusta o sbagliata che fosse (probabilmente più sbagliata che giusta) che ancora fa scuola. Difficile che a decenni di distanza, di Trump si possano scrivere apprezzamenti del genere.

Abbiamo davanti un’America in-cognita, che toglierà sonno a molti. Tutta rossa in politica (negli Stati Uniti il rosso è il colore dei conservative come il blu dei lib e progr) con Congresso e Camera a maggioranza repubblicana; presto conservative nel consesso dei giudici supremi (ad Obama non è stato consentito di designare il sostituto del giudice Antonin Scalia); probabilmente in perpetuo conflitto sui fondamentali da assumere in economia tra la vestale della Federal Reserve, la presidente Janet Yellen, e l’accolta repubblicana, da subito preoccupata di perdere i privilegi del pigliatutto alle elezioni di mid-term fra due anni, quindi favorevole a togliere lacci e laccioli di ogni tipo e a deregolamentare il mercato così da spingerlo a mille.

Da europei proviamo anche a dare un’occhiata a quale potrebbe essere il comportamento dell’America trumpiana negli affari internazionali. Se il neoeletto facesse quello che ha raccontato ai suoi in campagna elettorale, andremmo dritti a una sorta di riedizione del dopo ’29 dello scorso secolo, con innalzamento di barriere al libero commercio, ripiegamento della globalizzazione, cantieri americani aperti alla costruzione delle nuove infrastrutture promesse ma nazionalismo e guerre commerciali verso l’esterno. Scenario che il capitalismo americano non dovrebbe vedere di buon occhio, ma che sarebbe comunque difficile da mettere in pista. Con il debito (ad esempio con Cina e Arabia Saudita) che gli Stati Uniti si ritrovano e che andrebbe a crescere ulteriormente, il progetto sembra impraticabile. Sicuramente aumenteranno i costi della difesa, anche se Trump si è voluto vendere come “uomo forte” che apprezza gli altri “uomini forti” suoi simili (i vari Putin ed Erdogan e, ultimo arrivato, il presidente filippino che ha mandato a farsi fottere Obama), quasi ciò suonasse messaggio distensivo verso le pretese di potenza di Russia e Turchia. Angoscia il rigetto trumpiano di Cop 21 sul cambiamento climatico. Se l’America si ritirasse dagli accordi di Parigi, il passo dalla farsa elettorale americana alla tragedia per l’umanità sarebbe compiuto.

antoniomaglie

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